Marzo 2005

Terre di confine - Mediterraneo e Mezzogiorno italiano

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Stregati dalle delizie
dell’indifferenza
Claudio Alemanno  
 
 







La messa
a punto di un
efficiente modello Mezzogiorno
potrebbe avere
effetto trainante per altri sistemi
in via di sviluppo.

 

Può sorgere dialogo sociale in terre dominate da patriarcati obsoleti? Può aversi dialogo quando la ricerca d’identità viene costruita sui culti dell’immagine, dell’ordinaria pigrizia intellettuale, della sospettosa indifferenza, della militanza consumistica imposta dai piaceri dei mercati acerbi e dai doveri dei mercati maturi?
Così si accentuano le tendenze verso gli egoismi e i poteri frastagliati, verso la sudditanza passiva ai processi di globalizzazione, perdendo ogni opportunità di portare la sofferenza collettiva fuori dalle mode festivaletterarie, fuori dalla monotonia delle storie di periferia.
Se invece si prende confidenza con un approccio transnazionale alle economie reali del nostro Mezzogiorno, dei Balcani, dell’area maghrebina e degli altri Paesi con affaccio sul Mediterraneo si possono trovare risposte comuni alle molteplici e insidiose domande sui bisogni collettivi. Spostando l’angolo di osservazione dallo stereotipo dei conflitti cronicizzati ad una chiave di lettura più attenta alle dinamiche del nostro e dei loro mercati, all’evoluzione delle nostre e delle loro istituzioni, al riordino del nostro e dei loro ordinamenti, in vista di un’“area di lavoro comune” commerciale, formativa, istituzionale.
Si potrebbe dare vita in modo soft ad una “Associazione delle nazioni del Mediterraneo” con il compito di elaborare progetti di crescita e politiche economiche di comune interesse, gestire fiere e altri centri di eccellenza, in modo da sistematizzare il confronto offrendo alle moltitudini assopite vetrine permanenti di un diverso futuro possibile, antitetico alle consuete visioni di declino. Dando concretezza alla politica europea della cooperazione e dell’integrazione.
«Solo la conoscenza reciproca potrà vincere le paure reciproche», va ripetendo da tempo la sociologa marocchina Fatima Mernissi. E poiché le relazioni internazionali sono sempre ispirate a ragioni di realpolitik (pragmatismo senza ideali) sembra doveroso chiedere alla nostra classe dirigente, a quella meridionale in particolare, se in presenza di una comune poverty trap – trappola della povertà e di un’esigenza comune di riscatto non si ravvisino ragioni politiche per emancipare la cultura di un dialogo tra dirimpettai e tentare la costruzione di un modello sperimentale di Co-prosperità mediterranea. Dando respiro alla struttura angusta dell’offerta politica, arricchendola con prospettive internazionali più marcate.
La ricerca attuale di nuovi equilibri geopolitici, che passa attraverso una molteplicità limitata di poli d’influenza, a noi sembra un incentivo importante in questa direzione, un forte motivo di sollecitazione per non perdere un’altra occasione offerta dalla Storia. Autoconfinandoci ancora nel limbo degli ignavi, per raccontare domani e dopodomani, al di qua e al di là di ogni frontiera, storie nuove di ultimi, diseredati ed esclusi. Storie che gli attori delusi trasformano già ora in drammi intimisti che non vanno più a finire nelle agende della politica ma nei libri, nei film, nella cronaca quotidiana della violenza, delle umiliazioni e delle incertezze, ingolfando gli archivi della memoria.
Per non fare i cantastorie di vecchie e nuove solitudini occorre acquisire consapevolezza che nel contesto Nord-Sud il nostro Mezzogiorno va perdendo il “fascino” dell’indefinito. Le sue vicende escono di prepotenza dal labirinto delle speranze deluse per intersecarsi con alcune coordinate di nuovo conio, d’importante significato strategico nello scacchiere Occidente-Oriente (si pensi al ruolo di cerniera che nell’immaginario di una muraglia tra sistemi teocratici e democratici vanno assumendo Paesi come l’Egitto, la Turchia, la Libia).

Un tempo, quando i pensieri e le istituzioni erano forti, tutto era più facile, ogni “creatura” politica aveva il suo piano d’azione funzionale alla logica dei protettorati e della colonizzazione. Oggi invece dietro lo schermo di ogni alleanza tutto è negoziato e negoziabile, tutto si muove seguendo percorsi cosmopolitici. Pertanto, se si riesce a vincere il demone dell’estraneità, della pigrizia prodotta dalla frustrazione e dall’impotenza, si può dare vita ad un rapporto dialettico transnazionale che consenta di intercettare in termini costruttivi i meccanismi di crisi spazio-sistema. Aprendo a ragioni di democrazia deliberativa nel pubblico e nel privato, al consolidamento istituzionale e al coinvolgimento nelle politiche di sviluppo.
E’ opinione comune che 1’influenza di un modello socio-economico e della cultura che lo alimenta è promanazione diretta del peso politico di una classe dirigente e della sua capacità di offrire una visione “estetica” rassicurante.
Pertanto, la nostra classe dirigente, quella meridionale, dovrebbe acquisire un potere contrattuale di nuova fattura per affrancarsi dalla supremazia dei “referenti”, dando al sistema Mezzogiorno un peso specifico autonomo all’interno delle tematiche di governo.
E’ una questione di trasferimento di poteri, ma anche di idee-guida, di efficienza organizzativa e di trasparenza gestionale. Il diritto romano aveva stabilito regole certe per i contratti. Poi arrivò l’epoca bizantina che creò la nebulosa dei quasi-contratti. La Roma odierna incarna più lo spirito di Bisanzio che quello della Roma antica, premiando non le regole ma le quasi-regole in cui ognuno trova segnali favorevoli per i propri appetiti. Si crea così il costume nei contratti grippiati che con effetto domino si propaga dal centro alla periferia.
Non serve citare modelli, ma certamente l’Irlanda e la Scozia offrono testimonianze recenti di aree depresse europee con un autonomismo conquistato a tutto campo e gestito con successo. La messa a punto di un efficiente modello Mezzogiorno potrebbe avere effetto trainante per altri sistemi in via di sviluppo. Muoversi in questa direzione significa anzitutto liberare l’analisi dei problemi di casa dalle motivazioni gramsciane della questione meridionale che alimentano ancora la cultura dell’intervento pubblico diffuso. L’attuale congiuntura politica suggerisce invece di concentrarsi con maggiore lena sullo sviluppo delle potenzialità autonome. Iniziando a sfoltire alcuni luoghi comuni della nostra cultura borghese.
Parlare ad esempio in modo critico e settario degli islamici, degli slavi e degli altri extracomunitari presenti sul nostro territorio equivale ad assumere un atteggiamento psicologico potenzialmente discriminatorio da cui prende forma una categoria ad escludendum del “politicamente corretto”. Con la conseguenza di indebolire l’idea dell’uguaglianza dei diritti civili, della loro universalità e indivisibilità, solennemente sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza 2000) e ribadita dalla Costituzione europea (Roma 2004). Si crea così una componente discriminatoria negativa che raffredda sul nascere ogni tentativo di dialogo transnazionale, contrapponendo un modello di nazionalismo depresso e represso ad altri nazionalismi dello stesso segno.
C’è poi l’annosa questione della qualità del nostro capitalismo. Quello italiano è arrivato dopo le rivoluzioni industriali di Francia, Germania, Gran Bretagna ed essendo nato debole si è trincerato dietro il protezionismo doganale e il sostegno della spesa pubblica (lavori pubblici e commesse militari). Dallo Stato ha sempre avuto protezione in forme diverse, fino agli esempi ultimi offerti da incentivi, rottamazione, cassa integrazione.
Quello meridionale, ulteriormente indebolito dalla crisi dell’agricoltura e dalla inadeguatezza delle politiche economiche centrali e regionali (penalizzanti i flussi finanziari di mercato), risulta fortemente dipendente dalle droghe politiche e dalle furbizie di capitani di ventura animati da interessi speculativi. Inoltre, le recenti politiche nazionali di rafforzamento degli azionariati di controllo delle banche hanno ridotto al lumicino la sopravvivenza delle banche locali, creando sul mercato meridionale ulteriori fattori di rigidità nella allocazione del credito. E’ possibile che si verifichino anche aumenti nel volume delle erogazioni, ma essendosi rarefatta la propensione al rischio bancario il finanziamento burocratizzato finisce per essere assimilato ad una richiesta di tipo assicurativo (più praticabile dalla grande impresa) più che ad un impulso di valorizzazione imprenditoriale (piccola impresa più radicata nel territorio).
Così l’identikit del post-meridionale vede il soggetto produttivo sospeso tra il fascino del rischio, l’avventura dell’impegno e il bisogno di traslocare la vita attiva in territori con certezze più solide che difficilmente si identificano con altre sponde del Mediterraneo, dominate anch’esse dai rischi dell’instabilità. Mentre gli addetti alle funzioni pubbliche, presi nella morsa partiti-sindacati, più che nei servizi risultano impegnati nella sindacalizzazione degli organigrammi e delle organizzazioni.
Abbiamo voluto sottolineare alcuni fattori di disagio del modello Mezzogiorno che, avendo un forte impatto psicologico sulla società civile, rallentano le modalità di accesso ad un dialogo transnazionale, dando evidenza a note carenze formative del terrone che fa impresa e dunque alla necessità di neutralizzare i cascami di sistema con un pensiero forte che promuova innovazioni strutturali (creando ad esempio una rete che colleghi tutte le esperienze effettuate sul territorio).
Nelle relazioni internazionali c’è una regola non scritta ma praticata per cui quando un sistema produttivo e un modello socio-economico si rafforzano cresce il loro potere contrattuale, dando luogo ad un nuovo polo di attrazione per i territori limitrofi che appartengono alla stessa categoria e che a condizioni invariate subiscono il fascino del modello vincente. In questo senso il nodo del multiculturalismo (o policulturalismo), sostanzialmente represso, diventa fattore di ritardo penalizzante. Proponendo tematiche di dibattito per capire come sollecitare la sensibilità al tema delle nostre leadership e delle nostre opinioni pubbliche e come rimuovere le diffidenze che incontra in sede di dialogo transnazionale.
C’è lungo le rive del Mediterraneo un’area vasta di umanità in cui si coagulano i disagi della modernità, con esigenza di riforme incisive per non confondere ancora il peccato con il reato e per ridurre le distorsioni dei mercati, in vista di aggregazioni sociali sempre meno disposte a subire il ruolo borderline nelle nuove coordinate dello sviluppo. Dunque c’è spazio per attivare un motore di ricerca sottratto alla filosofia della banalità, per creare un “laboratorio” socio-economico animatore di originali processi politici, istituzionali e organizzativi. Facendo prevalere i fattori della razionalità sul simbolico, sul mitico, sulla fede totalizzante, sui fenomeni di ebbrezza collettiva che dominano le realtà sociali del sottosviluppo.
Mischiando le carte nelle categorie dell’ordine e del disordine. Approfondendo la sociologia del quotidiano in aree dominate da differenti gerarchie valoriali e da appartenenze religiose plurali. Offrendo a tutti occasioni per “reincantarsi” lungo i percorsi desiderio-sofferenza, a lungo assoggettati a forme molteplici di violenza. Con l’intento di creare una “rete” di governi satellizzati. Per dare al Sud del mondo una leadership strategica nel contesto delle aree d’influenza istituzionalizzate. Per sottrarre le nuove generazioni agli intrighi delle percentuali etiche, alla consuetudine di considerare ogni cosa che accade come già accaduta. Per impedire alle nostre popolazioni meridionali che il fattore “I” – immigrazione – riservi un improvviso, amaro risveglio. La sorpresa di essere “stranieri” in casa, spettatori di geografia più che attori di storia.

   
   
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