La messa
a punto di un
efficiente modello Mezzogiorno
potrebbe avere
effetto trainante per altri sistemi
in via di sviluppo.
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Può sorgere dialogo sociale in terre dominate da patriarcati
obsoleti? Può aversi dialogo quando la ricerca d’identità
viene costruita sui culti dell’immagine, dell’ordinaria
pigrizia intellettuale, della sospettosa indifferenza, della militanza
consumistica imposta dai piaceri dei mercati acerbi e dai doveri
dei mercati maturi?
Così si accentuano le tendenze verso gli egoismi e i poteri
frastagliati, verso la sudditanza passiva ai processi di globalizzazione,
perdendo ogni opportunità di portare la sofferenza collettiva
fuori dalle mode festivaletterarie, fuori dalla monotonia delle
storie di periferia.
Se invece si prende confidenza con un approccio transnazionale alle
economie reali del nostro Mezzogiorno, dei Balcani, dell’area
maghrebina e degli altri Paesi con affaccio sul Mediterraneo si
possono trovare risposte comuni alle molteplici e insidiose domande
sui bisogni collettivi. Spostando l’angolo di osservazione
dallo stereotipo dei conflitti cronicizzati ad una chiave di lettura
più attenta alle dinamiche del nostro e dei loro mercati,
all’evoluzione delle nostre e delle loro istituzioni, al riordino
del nostro e dei loro ordinamenti, in vista di un’“area
di lavoro comune” commerciale, formativa, istituzionale.
Si potrebbe dare vita in modo soft ad una “Associazione
delle nazioni del Mediterraneo” con il compito di elaborare
progetti di crescita e politiche economiche di comune interesse,
gestire fiere e altri centri di eccellenza, in modo da sistematizzare
il confronto offrendo alle moltitudini assopite vetrine permanenti
di un diverso futuro possibile, antitetico alle consuete visioni
di declino. Dando concretezza alla politica europea della cooperazione
e dell’integrazione.
«Solo la conoscenza reciproca potrà vincere le paure
reciproche», va ripetendo da tempo la sociologa marocchina
Fatima Mernissi. E poiché le relazioni internazionali sono
sempre ispirate a ragioni di realpolitik (pragmatismo senza
ideali) sembra doveroso chiedere alla nostra classe dirigente, a
quella meridionale in particolare, se in presenza di una comune
poverty trap – trappola della povertà e di
un’esigenza comune di riscatto non si ravvisino ragioni politiche
per emancipare la cultura di un dialogo tra dirimpettai e tentare
la costruzione di un modello sperimentale di Co-prosperità
mediterranea. Dando respiro alla struttura angusta dell’offerta
politica, arricchendola con prospettive internazionali più
marcate.
La ricerca attuale di nuovi equilibri geopolitici, che passa attraverso
una molteplicità limitata di poli d’influenza, a noi
sembra un incentivo importante in questa direzione, un forte motivo
di sollecitazione per non perdere un’altra occasione offerta
dalla Storia. Autoconfinandoci ancora nel limbo degli ignavi, per
raccontare domani e dopodomani, al di qua e al di là di ogni
frontiera, storie nuove di ultimi, diseredati ed esclusi. Storie
che gli attori delusi trasformano già ora in drammi intimisti
che non vanno più a finire nelle agende della politica ma
nei libri, nei film, nella cronaca quotidiana della violenza, delle
umiliazioni e delle incertezze, ingolfando gli archivi della memoria.
Per non fare i cantastorie di vecchie e nuove solitudini occorre
acquisire consapevolezza che nel contesto Nord-Sud il nostro Mezzogiorno
va perdendo il “fascino” dell’indefinito. Le sue
vicende escono di prepotenza dal labirinto delle speranze deluse
per intersecarsi con alcune coordinate di nuovo conio, d’importante
significato strategico nello scacchiere Occidente-Oriente (si pensi
al ruolo di cerniera che nell’immaginario di una muraglia
tra sistemi teocratici e democratici vanno assumendo Paesi come
l’Egitto, la Turchia, la Libia).

Un tempo, quando i pensieri e le istituzioni erano forti, tutto
era più facile, ogni “creatura” politica aveva
il suo piano d’azione funzionale alla logica dei protettorati
e della colonizzazione. Oggi invece dietro lo schermo di ogni alleanza
tutto è negoziato e negoziabile, tutto si muove seguendo
percorsi cosmopolitici. Pertanto, se si riesce a vincere il demone
dell’estraneità, della pigrizia prodotta dalla frustrazione
e dall’impotenza, si può dare vita ad un rapporto dialettico
transnazionale che consenta di intercettare in termini costruttivi
i meccanismi di crisi spazio-sistema. Aprendo a ragioni di democrazia
deliberativa nel pubblico e nel privato, al consolidamento istituzionale
e al coinvolgimento nelle politiche di sviluppo.
E’ opinione comune che 1’influenza di un modello socio-economico
e della cultura che lo alimenta è promanazione diretta del
peso politico di una classe dirigente e della sua capacità
di offrire una visione “estetica” rassicurante.
Pertanto, la nostra classe dirigente, quella meridionale, dovrebbe
acquisire un potere contrattuale di nuova fattura per affrancarsi
dalla supremazia dei “referenti”, dando al sistema
Mezzogiorno un peso specifico autonomo all’interno delle
tematiche di governo.
E’ una questione di trasferimento di poteri, ma anche di idee-guida,
di efficienza organizzativa e di trasparenza gestionale. Il diritto
romano aveva stabilito regole certe per i contratti. Poi arrivò
l’epoca bizantina che creò la nebulosa dei quasi-contratti.
La Roma odierna incarna più lo spirito di Bisanzio che quello
della Roma antica, premiando non le regole ma le quasi-regole in
cui ognuno trova segnali favorevoli per i propri appetiti. Si crea
così il costume nei contratti grippiati che con effetto domino
si propaga dal centro alla periferia.
Non serve citare modelli, ma certamente l’Irlanda e la Scozia
offrono testimonianze recenti di aree depresse europee con un autonomismo
conquistato a tutto campo e gestito con successo. La messa a punto
di un efficiente modello Mezzogiorno potrebbe avere effetto trainante
per altri sistemi in via di sviluppo. Muoversi in questa direzione
significa anzitutto liberare l’analisi dei problemi di casa
dalle motivazioni gramsciane della questione meridionale che alimentano
ancora la cultura dell’intervento pubblico diffuso. L’attuale
congiuntura politica suggerisce invece di concentrarsi con maggiore
lena sullo sviluppo delle potenzialità autonome. Iniziando
a sfoltire alcuni luoghi comuni della nostra cultura borghese.
Parlare ad esempio in modo critico e settario degli islamici, degli
slavi e degli altri extracomunitari presenti sul nostro territorio
equivale ad assumere un atteggiamento psicologico potenzialmente
discriminatorio da cui prende forma una categoria ad escludendum
del “politicamente corretto”. Con la conseguenza di
indebolire l’idea dell’uguaglianza dei diritti civili,
della loro universalità e indivisibilità, solennemente
sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(Nizza 2000) e ribadita dalla Costituzione europea (Roma 2004).
Si crea così una componente discriminatoria negativa che
raffredda sul nascere ogni tentativo di dialogo transnazionale,
contrapponendo un modello di nazionalismo depresso e represso ad
altri nazionalismi dello stesso segno.
C’è poi l’annosa questione della qualità
del nostro capitalismo. Quello italiano è arrivato dopo le
rivoluzioni industriali di Francia, Germania, Gran Bretagna ed essendo
nato debole si è trincerato dietro il protezionismo doganale
e il sostegno della spesa pubblica (lavori pubblici e commesse militari).
Dallo Stato ha sempre avuto protezione in forme diverse, fino agli
esempi ultimi offerti da incentivi, rottamazione, cassa integrazione.
Quello meridionale, ulteriormente indebolito dalla crisi dell’agricoltura
e dalla inadeguatezza delle politiche economiche centrali e regionali
(penalizzanti i flussi finanziari di mercato), risulta fortemente
dipendente dalle droghe politiche e dalle furbizie di capitani di
ventura animati da interessi speculativi. Inoltre, le recenti politiche
nazionali di rafforzamento degli azionariati di controllo delle
banche hanno ridotto al lumicino la sopravvivenza delle banche locali,
creando sul mercato meridionale ulteriori fattori di rigidità
nella allocazione del credito. E’ possibile che si verifichino
anche aumenti nel volume delle erogazioni, ma essendosi rarefatta
la propensione al rischio bancario il finanziamento burocratizzato
finisce per essere assimilato ad una richiesta di tipo assicurativo
(più praticabile dalla grande impresa) più che ad
un impulso di valorizzazione imprenditoriale (piccola impresa più
radicata nel territorio).
Così l’identikit del post-meridionale vede il soggetto
produttivo sospeso tra il fascino del rischio, l’avventura
dell’impegno e il bisogno di traslocare la vita attiva in
territori con certezze più solide che difficilmente si identificano
con altre sponde del Mediterraneo, dominate anch’esse dai
rischi dell’instabilità. Mentre gli addetti alle funzioni
pubbliche, presi nella morsa partiti-sindacati, più che nei
servizi risultano impegnati nella sindacalizzazione degli organigrammi
e delle organizzazioni.
Abbiamo voluto sottolineare alcuni fattori di disagio del modello
Mezzogiorno che, avendo un forte impatto psicologico sulla società
civile, rallentano le modalità di accesso ad un dialogo transnazionale,
dando evidenza a note carenze formative del terrone che fa impresa
e dunque alla necessità di neutralizzare i cascami di sistema
con un pensiero forte che promuova innovazioni strutturali (creando
ad esempio una rete che colleghi tutte le esperienze effettuate
sul territorio).
Nelle relazioni internazionali c’è una regola non scritta
ma praticata per cui quando un sistema produttivo e un modello socio-economico
si rafforzano cresce il loro potere contrattuale, dando luogo ad
un nuovo polo di attrazione per i territori limitrofi che appartengono
alla stessa categoria e che a condizioni invariate subiscono il
fascino del modello vincente. In questo senso il nodo del multiculturalismo
(o policulturalismo), sostanzialmente represso, diventa fattore
di ritardo penalizzante. Proponendo tematiche di dibattito per capire
come sollecitare la sensibilità al tema delle nostre
leadership e delle nostre opinioni pubbliche e come rimuovere
le diffidenze che incontra in sede di dialogo transnazionale.
C’è lungo le rive del Mediterraneo un’area vasta
di umanità in cui si coagulano i disagi della modernità,
con esigenza di riforme incisive per non confondere ancora il peccato
con il reato e per ridurre le distorsioni dei mercati, in vista
di aggregazioni sociali sempre meno disposte a subire il ruolo borderline
nelle nuove coordinate dello sviluppo. Dunque c’è spazio
per attivare un motore di ricerca sottratto alla filosofia della
banalità, per creare un “laboratorio” socio-economico
animatore di originali processi politici, istituzionali e organizzativi.
Facendo prevalere i fattori della razionalità sul simbolico,
sul mitico, sulla fede totalizzante, sui fenomeni di ebbrezza collettiva
che dominano le realtà sociali del sottosviluppo.
Mischiando le carte nelle categorie dell’ordine e del disordine.
Approfondendo la sociologia del quotidiano in aree dominate da differenti
gerarchie valoriali e da appartenenze religiose plurali. Offrendo
a tutti occasioni per “reincantarsi” lungo i percorsi
desiderio-sofferenza, a lungo assoggettati a forme molteplici di
violenza. Con l’intento di creare una “rete” di
governi satellizzati. Per dare al Sud del mondo una leadership strategica
nel contesto delle aree d’influenza istituzionalizzate. Per
sottrarre le nuove generazioni agli intrighi delle percentuali etiche,
alla consuetudine di considerare ogni cosa che accade come già
accaduta. Per impedire alle nostre popolazioni meridionali che il
fattore “I” – immigrazione – riservi un
improvviso, amaro risveglio. La sorpresa di essere “stranieri”
in casa, spettatori di geografia più che attori di storia.
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