Marzo 2005

Segnalati 90.000 monumenti

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Adottiamo
un luogo abbandonato
Tonino Caputo - Luigi Di Giacomo
 
 





Ed eccole lì, ora, queste costruzioni con le finestre come occhiaie
desolate, con gli ingressi violabili, con gli interni
fatiscenti. Luoghi della memoria
per tanti di noi,
ancora oggi.

 

Sono i luoghi dei nostri ricordi, dei ricordi di tutti: quelli che ci fanno ancora battere il cuore, perché assomigliano agli amori più tenaci. Sono i luoghi che – è stato scritto – con il trascorrere delle stagioni, con il volgere degli anni, possono mutare pelle, come i rettili dell’illusione, ma commuovono sempre in modo eguale: evocano, con un brivido dolce-amaro, il sapore e l’ombra del tempo, ma simultaneamente rassicurano, perché là dove ha abitato la nostra memoria non ci sentiremo mai stranieri a noi stessi, mai alieni alle nostre radici.
L’elenco di questi affetti disegna una sorta di “geografia dell’anima”: l’Italia del paesaggio e dell’arte, che non deve essere necessariamente la più eccelsa, ma che comunque maggiormente ci affascina e ci coinvolge. E’ l’Italia che vorremmo vedere migliorata perché, spesso, certi luoghi cari sono stremati o vinti dall’abbandono e dall’incuria.
Il Fai, (Fondo per l’ambiente italiano), possiede le cifre di un censimento che registra i siti più amati dalla gente, ma che troppo spesso sono stati dimenticati dalle istituzioni. Il censimento è il risultato di segnalazioni fatte da oltre novantamila persone per altrettante aree, al novanta per cento luoghi d’arte, per il restante dieci per cento riferite ad angoli, scorci, recinti di natura. Da sottolineare un dato di fatto: questo straordinario censimento ha riguardato zone in cui erano presenti agenzie di una banca di interesse nazionale; e sebbene le cifre siano quadruplicate rispetto alle rilevazioni precedenti, si comprende bene che le segnalazioni potrebbero essere di gran lunga superiori alle novantamila, se fossero contattati anche cittadini di città e centri abitati in cui quell’istituto bancario non è presente. Il che vuol dire che ben altre cifre emergerebbero, se le consultazioni potessero riguardare gli oltre ottomila comuni italiani, invece del migliaio, o poco più, in cui sono attive le duemila agenzie dell’istituto finanziario in questione.
Il lungo registro nato dall’iniziativa vede al primo posto per numero di segnalazioni Villa Arconati di Castellazzo di Bollate. Le origini di questa splendida dimora lombarda risalgono al Seicento: il suo primo nucleo si deve al marchese Guido Cusani, esattore delle tasse per conto del governo spagnolo. Galeazzo Arconati la ampliò e la abbellì, riunendovi anche importanti opere d’arte, fra le quali diversi “fogli” di Leonardo. I suoi giardini, un giorno conosciuti da tutto il mondo, erano animati da ingegnosi giochi d’acqua. Questo grandissimo edificio, che risulta essere la più imponente dimora gentilizia dello Stato di Milano fino alla costruzione di Villa Reale di Monza, venne messo all’asta una decina d’anni fa e acquistato da una società. Oggi è completamente in rovina con i suoi decori e lo straordinario salone da ballo affrescato dai fratelli Galliari, scenografi del Teatro alla Scala. Si è soliti definire questa magnifica residenza un “miracolo seicentesco”, che sfavilla ad appena un quarto d’ora dal capoluogo della più ricca regione italiana.
Segue, per numero di segnalazioni, la Masseria Rossi di Volla, in provincia di Napoli, la cui struttura primitiva risale con ogni probabilità alla fine del XVI secolo. Del tutto ristrutturata e nobilitata, offriva magnifiche prospettive di cortili e un complesso arricchito da una cappella settecentesca. Non per nulla, nata, appunto, come masseria, era stata poi residenza per lo svago e il prestigio della nobiltà partenopea: gli ambienti, distribuiti su ben quattro piani, erano ornati con finiture in cotto, con maioliche e con preziosi marmi. Abbandonata dopo il “passaggio” dei garibaldini che entravano in Napoli, completando la conquista del Sud, questa residenza fu saccheggiata a più riprese. Attualmente è in piena, ma recuperabile, decadenza.
E il pensiero non può non andare al grande reticolo di masserie che costellano non poche regioni meridionali, dalla Basilicata alla Puglia, dall’Abruzzo e dal Molise fino alla Campania e alla Calabria. Furono centri di economia curtense, garantirono lavoro e prodotti agricoli non solo per l’autoconsumo, furono vitali centri di rotazione delle colture e, in ultima analisi, nel bene e nel male, emblemi della civiltà contadina meridionale, i punti più alti dell’organizzazione economica rurale del Sud. Fino a quando il boom economico che caratterizzò l’Italia degli anni Sessanta aprì le cataratte delle migrazioni, che spopolarono le campagne, o quanto meno ne alleggerirono cospicuamente il peso demografico. Pian piano, allora, le masserie vennero abbandonate, anche perché non avevano saputo, o potuto, tenere il passo con i tempi per la penuria d’acqua da irrigazione, di elettrificazione rurale, di macchine agricole, di strade di collegamento, insomma delle reti di beni e di servizi senza le quali il settore primario era comunque destinato a imboccare la via del tramonto.

Sono state adottate, facendole tornare centri pulsanti di vita, quelle che sono contigue al mare, e che pertanto si animano solo per pochi mesi, quelli estivi, e per qualche week-end. Le altre, quelle – numerosissime – dell’entroterra, sono in rovina, non apprezzate da chi si è costruita una delle pretenziose “ville” con recinti (innaturali) di abeti che con i loro stili promiscui ed estranei alla cultura mediterranea del Sud maculano le periferie dei centri abitati meridionali. Crollano irrimediabilmente le antiche masserie, sparsi e dispersi i loro arredi, perduti gli strumenti di lavoro, saccheggiate le pietre lavorate per le esigenze della famiglia, per le stalle, per il decoro dei diversi ambienti. Un immenso patrimonio litico, ma anche di mobili d’arte povera, e di attrezzi metallici, o di pelle, o di legno, è stato distrutto, oppure è finito in mano a mercanti privi di scrupoli. Ed eccole lì, ora, queste costruzioni con le finestre come occhiaie desolate, con gli ingressi violabili, con gli interni fatiscenti. Luoghi del cuore anch’esse, luoghi della memoria per tanti di noi, ancora oggi.
Santa Maria del Soccorso, in provincia di Latina. E meglio ancora, quel che rimane di essa, dopo che i tedeschi (i quali, durante la seconda guerra, avevano collocato nelle vicinanze un cannone a lunga gittata per bloccare l’avanzata delle truppe alleate) l’avevano rasa al suolo. Richieste che innescano una speranza: che questi monumenti, dove ha abitato la storia e dove, ai nostri giorni, abitano l’affetto e il ricordo di tanta gente, possano ritrovare la strada dell’originale bellezza. Come è accaduto, ad esempio, al Molino Baresi, in provincia di Bergamo, segnalato nel censimento del 2003, e adesso adottato e in fase di restauro. Come auspichiamo che accada al Molino ad acqua di Nove, il più antico opificio europeo per la preparazione degli impasti e delle vernici per ceramica: questo vero e proprio monumento di archeologia industriale non ha eguali in tutto il Continente anche per la complessità dei meccanismi – tuttora funzionanti – e per l’articolazione della struttura.
Come dovrebbe accadere per la casa di Giovanni Verga, nel territorio di Catania, passata a un erede unico dei beni dello scrittore che poi, oberato dai debiti, fu costretto a venderla insieme con tutto il resto, e oggi in stato di completo abbandono, al punto che non se ne conosce nemmeno l’ultimo titolare della proprietà. O come dovrebbe accadere per tante chiese abbandonate in tutto il Mezzogiorno, depredate prima di essere murate. Quasi al modo del celeberrimo Oratorio di San Sebastiano di Voltaggio, in quel di Alessandria, databile tra il 1730 e il 1770, da anni in stato di abbandono, attualmente di proprietà del Comune, con arredi e suppellettili sacre disperse in depositi presso chiese locali.
La portata di questo originale censimento, nel quale si intrecciano amore e denuncia, presenta spigolature che avallano l’osservazione secondo la quale la cultura è il movimento di massa dei nostri giorni, come ieri lo era la politica. Decine di migliaia di persone pronte a battersi per ridare dignità ai loro “luoghi da non dimenticare” sono un vero e proprio esercito che racconta un Paese vivo, ricco di fantasia e cosciente dell’utilità del “bello”.

Nel lungo rosario con i nomi dei beni, oltre ventiseimila chiese, ottomila ville, seimila e cinquecento masserie, e, via via, migliaia di case gentilizie, di oratori, di scuole, di cappelle, di antiche strade di collegamento, comprese molte “vie delle erbe”, quelle delle transumanze dall’Italia centrale verso la Puglia, la Basilicata e la Calabria, di antichi casali di villeggiatura, di grotte e spelonche, alcune delle quali furono certamente stazioni abitative in epoche albali...
Dietro ogni segnalazione, un cuore solitario, o, più spesso, una mobilitazione, magari capitanata da personaggi particolari: come l’arcivescovo di Manfredonia che si è speso per l’Abbazia di Santa Maria di Kalena; il sindaco, il vescovo e il rettore di Brescia, che sono scesi in campo per la chiesa del Carmine; o un’impresa produttiva che ha adottato il Lago della Burida, una vera e propria oasi vicinissima a Pordenone: si tratta di un bacino artificiale realizzato alla fine dell’Ottocento per produrre energia elettrica e poi dimenticato e abbandonato; mentre il parroco di Averara, un centro con meno di duecento abitanti, è riuscito a raccogliere un numero di richieste dodici volte superiore a quello dei suoi fedeli.
Fra gli angoli d’Italia bisognosi di soccorso, anche un’isola, quella sul fiume a Cimadolmo, in provincia di Treviso; le cascatelle di Saturnia; lo scalo nautico del Circolo della Pesca, di Imperia; l’Oratorio di San Sebastiano a Voltaggio, in provincia di Alessandria; la casa di Pinot Gallizio, nell’ex monastero di San Bernardino, ad Alba; i trulli di pietra viva, alcuni persino con vestibolo, che contrassegnano la campagna salentina amata dal Ciardo; la casa-rifugio di Federico II in pieno subappennino dauno; decine di torri costiere abbandonate a se stesse; e decine di “paesi doppi”, come ormai vengono comunemente chiamati gli antichi borghi di regioni montuose meridionali, abbandonati da tutti gli abitanti per fame, per emigrazione, per effetto di alluvioni e di terremoti, com’è accaduto per le terre care a Corrado Alvaro e a Leonida Répaci, per i costoni a calanchi descritti da Sinisgalli, da Gatto e dal sindaco-poeta di Tricarico, e amico di Vittore Fiore, il lucano Rocco Scotellaro. Cantavano, o recitavano, gli abitanti dell’area grecanica di Calabria, in “Echàsame ticandì” (“Abbiamo perso qualcosa”):


Afìcame ta spìtia ejennìthicame,
addhismonìame te strate pu epèsciame,
echàsame to afùndima, ti ffilìa
sti ccharà, stin pethammìa.
O vorèa escòrpis ena ssìnofo mavro,
mas èspisce macrìa
sce anannòriste merìe.
O ìgghio mas ecùmbiae;
arte ma ccèi to derma
fuscomèno stin oscìa.
Echàsame ticandì
asc’emmàse: mas èppe
ce den to thorùme pleo.

(Abbiamo lasciato le case dove siamo nati, / dimenticato le strade dove abbiamo giocato, / abbiamo perso la solidarietà, l’amicizia / nella felicità, nella disgrazia. / Il vento ha disteso una nuvola nera, / ci ha spinti lontani / in luoghi sconosciuti. / Il sole ci ha ingannati; / ora ci scotta le carni / cresciute nella frescura. / Abbiamo perso qualcosa / di noi: ci è sfuggita / e non la ritroveremo più).


Vien da riflettere sulla vicenda di una cittadina laziale, Calcata: era stata abbandonata dagli abitanti, preoccupati anche dal pericolo di smottamento a valle delle abitazioni periferiche fatte di sassi e pietre crude. Ebbene, pian piano è stata riabitata da artisti, da persone in cerca di silenzio e di serenità di vita, da piccoli importatori di prodotti esotici (dall’India al Tibet), abbigliamento compreso, da produttori di piccole quantità di olii, di vini, di marmellate, e via dicendo, e si è dotata di un centro-conferenze che vende anche libri di nicchia. Il paese è tornato a vivere, è meta di turisti non soltanto italiani, è punto di approdo di persone che scelgono di sottrarsi alle alienazioni delle metropoli.
Può accadere qualcosa del genere in qualche paese abbandonato del Sud? Era successo per la Vecchia Caserta (Casa Irta), tanti anni fa. Potrebbe verificarsi per alcuni centri nei quali è transitata la storia, ed è passata anche la poesia, a lato della narrativa, della pittura, della scultura. E non si dica che il mare attrae più di questi luoghi dell’anima: perché il problema è semmai quello di scovare un’oasi con antiche emozioni, non quello di passare da un’alienazione ad un’altra alienazione.
Casa Irta, Calcata, Erice splendido centro siciliano... Forse occorre educare la gente al culto della bellezza, e all’apprezzamento delle brevi e intense solitudini che richiedono gli ozi-negozi creativi. Siamo convinti che prima o poi si rianimeranno, questi centri che furono “nuclei di espulsione demografica”, aree dalle quali fuggire per andare in pianura, sugli orli costieri, a creare doppioni di paesi cui era sufficiente aggiungere l’aggettivo “nuovo” per indicarne l’artificialità, la non-identità urbanistica realizzata da ex contadini e artigiani che non sarebbero mai diventati pescatori, né marinai.
Forse i nuovi abitanti non saranno tutti “emigrati di ritorno”, e sarà bene che sia così. Avranno un’anima nuova per davvero, i centri che saranno adottati, riconquistati, rimessi in un diverso circuito vitale, in moderne ragioni esistenziali. Vogliamo credere a questa “legge del pendolo”, al richiamo della nostalgia, al desiderio di ritorno, alla ricerca di luoghi a misura d’uomo. Perché vinca la voce del cuore.

   
   
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