Marzo 2005

Il Corsivo

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Lolek-Karol,
il Papa
poeta guerriero
Aldo Bello  
 
 

 

 

Per oltre quattro secoli e mezzo in Cappella Sistina erano riecheggiati cognomi familiari: dal fiorentino Medici al romano Farnese e al partenopeo Carafa, fino ai recentissimi Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani. Per il 265° pontificato, (incluso quello dell’Apostolo fondatore della Chiesa), lo spoglio delle schede aveva evidenziato una lacerazione tutta interna al blocco italiano, con la contrapposizione tra l’arcivescovo di Firenze, Benelli, e quello di Genova, Siri. Venuta meno ogni possibilità di mediazione, i porporati avevano fatto una scelta di rottura: dopo due giorni di conclave e tre fumate nere, designarono colui che avrebbe preso il nome di Giovanni Paolo II.

«Ma chi è questo Botiglia?», aveva chiesto il cardinale Casariego, (età avanzata, udito non proprio raffinato), rivolgendosi al collega che gli era contiguo e che inutilmente aveva tentato di zittirlo, perché Wojtyla era uno scranno più in là e aveva sentito tutto, divertendosi. «E chi sarà mai questo qui?», si erano interrogati i romani che gremivano Piazza San Pietro e che, recepito come africano il non facile cognome del nuovo pontefice, avevano cominciato a rumoreggiare. L’applauso arrivò, quasi liberatorio, solo quando la radio e la televisione rivelarono che si trattava di un polacco, nato a Wadowice e fino a qualche minuto prima vescovo di Cracovia. Il meno noto dei porporati. Il più trascurato nelle biografie preconfezionate ad uso delle edizioni straordinarie dei mass media. Quello dato uno a mille dai bookmakers, perché nessuno avrebbe scommesso su di lui uno zloty o una lira bucata. Il più diligente (e dunque anonimo) dei prelati venuti dall’Est. Che da quel momento, per germinazione spontanea, divenne il protagonista quasi folcloristico di una lunga serie di aneddoti, che in qualche modo ritagliavano frammenti emblematici della sua biografia.

Il primo me lo raccontò uno dei giovanissimi preti che affollavano la Curia Metropolitana di Cracovia: Wojtyla era giunto a Roma per la nomina a cardinale così tardi, che non trovò nei negozi vaticani neanche un paio di calze, appunto, rosso-cardinalizie, sicché durante il rito indossò le sole scarpe, particolare che non sfuggì ai presenti, papa compreso. Un altro episodio avrebbe preso il sapore della leggenda: Wojtyla era andato in pellegrinaggio al santuario laziale della Mentorella, poi si era fermato a pranzare in un’osteria di quelle senza la pretenziosa “H” davanti; rimessosi in viaggio, era rimasto bloccato nell’auto in panne, fino a quando un autista dell’Acotral, Candido Nardi, da Colleferro, lo aveva preso a bordo del suo autobus nei pressi di Guadagnolo, un borgo a una cinquantina di chilometri da Roma; e poiché lo “zi’ prete” gli aveva spiegato che doveva arrivare in Vaticano prima delle 13,30 (all’epoca il Conclave era “sigillato”, chi non giungeva in tempo restava irrimediabilmente fuori), fu costretto a saltare tutte le fermate, fino a Palestrina, (raggiunta a tempo di record: 17 minuti), dove venne intercettata la corriera diretta alla Capitale. Un miracolo fece giungere quell’eterno ritardatario appena in tempo sulla soglia della Sistina, dalla quale sarebbe uscito con la talare papale, grazie all’ispirazione dello Spirito Santo, ai voti dei cardinali, e all’aiuto provvidenziale di un conducente di autobus pubblici, partecipe inconsapevole della genesi di un pontificato.

Nella natia Wadowice lo chiamavano Lolek, Carletto. Intelligente, studioso, altruista, e goloso: «Nel bar vicino alla scuola ne abbiamo combinate di tutti i colori», avrebbe confessato molti anni dopo. Abitava al primo piano di una casa a ballatoio al numero 7 di Ulica Koscielna, due stanze e cucina oggi trasformate in museo. La sua cattedrale sorgeva in quella spianata che, intitolata all’Armata Rossa, nel nome di questo fuoriclasse poi sarebbe diventata Piazza Giovanni Paolo II. Le sue montagne erano quelle di Zakopane, dove Lolek poteva montare gli sci di legno rigorosamente polacchi, o usare la pagaia nelle solitarie discese in canoa lungo i torrenti del versante settentrionale. (Amò sempre l’acqua e la roccia. In Vaticano si fece costruire una piscina. E in Abruzzo si recò clandestinamente almeno un centinaio di volte, per respirare l’aria netta e per rigenerare le interne energie tra i silenzi assoluti e le assolute solitudini di quell’asperrimo Appennino).

Quando Lolek abbandonò la città natale, raggiunse Cracovia e superò la linea d’ombra dell’adolescenza: divenne Karol. Eppure Wadowice conservò sempre il sapore, l’umore, la fiera impronta di Carletto; anzi visibilmente la accrebbe, nel ’95, quando il simbolo della città fu corretto: alle antiche insegne furono aggiunte le chiavi vaticane. E anche questo sembra smentire le voci di una Polonia meno spirituale, più attenta alla mondanità grazie a un’esistenza che si va affrancando dalla povertà. Tutt’altro. Di mercanti non se ne sono mai visti lungo la santissima direttrice Wadowice-Cracovia, decine di chilometri che mettono in fila una teoria infinita di santuari, da quello di Kalwaria Zebrzydowska, dove ci sono le stazioni della Via Crucis, a quello della Misericordia, dove Karol tornò più volte per «passeggiare sul filo della memoria nei luoghi della giovinezza di Lolek».

Karol come rovescio della medaglia di Lolek. Questi, il monello nelle strade di una piccola città; l’altro, il globetrotter instancabile dei viaggi apostolici. Pochissimi ormai i testimoni superstiti a Wadowice. Molti coloro i quali, sapendo far di conto, hanno calcolato le distanze percorse da Karol nei cinque continenti: venticinque volte almeno il giro del mondo, dalle capitali dell’Occidente alle regioni dell’Islam e dell’Induismo, dagli Imperi ai micro-Stati, in 129 nazioni, in 259 città italiane. Pellegrino del mondo in quel miliardo di credenti che rappresentavano il suo santuario vivente, fu votato più all’annuncio e alla profezia che al governo dell’istituzione ecclesiastica; ma con quattro rimpianti, racchiusi nei nomi della Russia del pavido primate Alessio II, della Cina delle chiese cattoliche oppresse dallo Stato ancora maoista, del Vietnam, che stermina i cristiani degli altopiani, e dell’Iraq che, nel dopo-Saddam, ha scatenato una carsica crociata anticristiana ad opera dei musulmani sciiti e sunniti.

Tanto Lolek fu operaio, poeta, attore e drammaturgo, quanto Karol fu teologo e filosofo. Le dimensioni spirituali del Grande Polacco coinvolsero ragione, fede e intuizione poetica. E il nesso di queste tre forze, nell’unità strutturale in cui si trovano in Wojtyla, costituisce quello che Platone chiamava il “dèmone” con cui l’uomo nasce e da cui è accompagnato per tutta la vita. Si tratta di quella che potremmo chiamare la cifra emblematica della spiritualità dell’uomo, che James Hillman ha denominato “codice dell’anima”. L’asse portante del poeta e del filosofo è quello che considera l’uomo come persona, concetto che – occorre sottolineare – nasce esclusivamente nell’ambito del pensiero cristiano, è sconosciuto nell’ambito del pensiero ellenico, e si è contratto in quello di “individuo” in età moderna e contemporanea. Dunque, per Lolek e per Karol una pienezza e una perfezione d’essere non si possono rendere se non con la parola “persona”: «Dio, in senso particolare, è Creatore della persona, poiché essa in una certa misura rispecchia Lui stesso. Creatore della persona, Dio è per ciò stesso fonte dell’ordine personalistico».
Il tema dell’amore ha uno straordinario rilievo negli scritti poetici di Wojtyla, con al vertice questi versi che hanno un significato profondo: «L’amore è una sfida continua. Dio medesimo forse ci sfida / affinché noi stessi sfidiamo il destino». Nella “Bottega dell’orefice” al personaggio Adamo, simbolo dell’uomo, fa dire: «L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. E’ il peso di tutto il tuo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio, solo Lui è eternità». E alla fine al personaggio Teresa fa ribadire: «…Creare qualcosa che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto / è forse la cosa più straordinaria che esista! / Ma si vive senza rendersene conto».
Già Lolek aveva compreso che la soluzione di tutti i problemi sta proprio nell’amore, perciò scriveva: «L’amore mi ha spiegato ogni cosa, / l’amore ha risolto tutto per me / perciò ammiro questo Amore / dovunque Esso si trovi».
E in “Amore e responsabilità” c’è una frase che tratteggia la figura morale e spirituale del Pontefice (poeta e filosofo) in maniera perfetta, appunto nella dimensione dell’“amore donativo”: «L’uomo giunge alla conclusione che, per essere interamente giusto verso il Creatore, deve offrirgli tutto ciò che ha in sé, tutto il suo essere…». E’ quel che Lolek-Karol ha fatto per tutta la vita, senza tregua e senza riserve. Parlando con Dio e dicendogli: totus tuus.
Ebbe per la sua terra una fedeltà conradiana. E quando vi si recò per la prima volta da papa, gridò soltanto tre parole di fuoco: «Non abbiate paura!», determinando la prima crepa profonda sul Gran Muro che per decenni aveva cinto il male più pertinace del secolo. Perché era questa la natura visibile del comunismo: non soltanto il progetto utopico e mortifero di creare l’uomo nuovo e la Gerusalemme terrena, non soltanto la violenza determinata di un’ideologia che del progetto era stata nutrimento, ma soprattutto la paura nuda, usata come arma fondatrice e come obiettivo strategico.
D’improvviso divenne chiaro che su null’altro si reggevano quei regimi che avevano ucciso l’uomo nello stesso momento in cui promettevano di salvarlo dallo sfruttamento, che avevano scardinato l’economia, liquidato il senso delle leggi, distrutto l’amore del lavoro, eliminato la decenza dalla faccia delle terre soggiogate.
Fu espressione suprema di polonità e di Oriente, al punto che neanche la curia romana riuscì ad avvolgerlo. Si commuoveva quando parlavano della sua patria; si esaltava quando la visitava. Lì era nata la sua vocazione, lì si era manifestata la formidabile commistione di fede, spiritualità, senso della storia, sapienza d’Europa. Lì aveva visto passare gli immensi patimenti del Novecento. Roma fu faro di luce e bussola interiore: nella Città Eterna era la tomba di Pietro; la Città Eterna era il centro simbolico dell’universalismo latino e del suo Corpus Juris, delle leggi che la Chiesa aveva salvato riscoprendole intorno all’anno Mille, e che sono state il fondamento della civiltà europea.
Del resto, Karol non aveva alle spalle una Polonia qualunque. Aveva nei ricordi di famiglia la Polonia di Cracovia, la rispettabile Polonia austroungarica dove Lenin si rifugiava dalle persecuzioni zariste in atto a Pietroburgo e a Varsavia, dove l’ebreo scrittore Joseph Roth era di casa, dove fiorivano i circoli risorgimentali polacchi, ma anche serbi e croati. La copertura morale e diplomatica che nei giorni dei genocidi balcanici egli aveva dato ai cattolici di Lubiana e di Zagabria, oltre che ai musulmani della Bosnia, non proveniva dal nulla: era riecheggiata prepotentemente da una conoscenza – vorrei dire – “consanguinea” del problema. Altro che Mitterrand. Altro che Bush senior. Il poeta Lolek seppe generare Karol uomo di Stato e guerriero che nessuna astuta omissione potrà mai farci ignorare, e al quale milioni di europei devono oggi la libertà, e con la libertà anche la vita.
Scrisse un’ultima enciclica, ma senza adoperare le parole, perché non ce n’era bisogno. La manifestò per immagini in diretta, la prima delle quali venne in primo piano quel 13 maggio dell’81 in cui un lupo grigio assoldato dai servizi bulgari in nome e per conto del Kgb sovietico sparò due colpi di pistola in Piazza San Pietro, trafiggendo Lolek, il ragazzo che voleva cantare insieme con centinaia di migliaia di papa-boys. Sopravvisse Karol, l’Atleta di Dio che alla demolizione del corpo, per quell’odioso agguato diventatogli lentamente ma inesorabilmente nemico, avrebbe opposto un’ostinata resistenza.
Lo portò in giro per il mondo – martirio visibile – quel corpo ogni giorno più piegato, ogni giorno più tremante, ogni giorno più disobbediente. Un papa degno di questo nome deve passare attraverso la sofferenza, era solito dire. E per quella sofferenza implacabile, sopportata in silenzio, col trascorrere dei giorni ogni passo diventava una sfida, ogni movimento si traduceva in una mal rattenuta smorfia di dolore, ogni parola si perdeva in una scabra eco ondulare.
Fu tragica e sublime, questa enciclica muta, nuda, e innocente dell’ignoto prete dell’Est miracolosamente asceso al soglio del Principe degli Apostoli: icona propria di un’incommensurabile Settimana di Passione che fa rivivere la divina tragedia dell’“Ecce Homo!”, il manifestarsi dell’essere umano nella sua fragilità, nella sua esteriore debolezza, nel suo “sfiguramento dolorante”; ma nello stesso tempo icona dell’uomo che ha speso la vita intera per il Vangelo, cioè per tutti gli altri uomini, amando fino all’estrema dedizione, perdonando fin oltre i confini dell’umiltà. Prima di consegnare la propria vita al Creatore.

   
   
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