Marzo 2005

Maria Sofia di Borbone

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La regina del Sud
Ada Provenzano - Carmen Valentini - Lanfranco Dominici
 
 




Era allora che nei cannocchiali degli assedianti si
stagliava la scena surreale di una
regina che ballava con i soldati, al modo di una
ragazzina durante una sagra di paese.

 

Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, era nato a Napoli nel 1836, primogenito di Ferdinando II. Sua madre, Maria Cristina di Savoia, morì quindici giorni dopo averlo messo al mondo. Poco amato dalla seconda moglie del padre, Maria Teresa d’Absburgo, Francesco crebbe nel culto della madre (che chiamava “Santa”): fragile di carattere, chiuso, estremamente religioso, si trovò impreparato quando, nel 1859, all’età di 23 anni, salì al trono, alla morte del padre.
Maria Sofia di Baviera, che sposò nello stesso anno, ne aveva diciotto. Il loro breve regno era destinato a soccombere agli eventi del Risorgimento. Incalzato dalle truppe garibaldine e piemontesi, avvilito dalle diserzioni militari e dai doppi giochi di corte, Franceschiello (come lo chiamavano i napoletani), nel novembre 1860 si rifugiò nella città fortificata di Gaeta. L’assedio alla fortezza che lo ospitava durò 93 giorni. Poi il re si arrese e le Due Sicilie vennero annesse al Regno d’Italia. Francesco trovò rifugio a Roma, presso Pio IX; poi, dal 1870, a Parigi. Morì nel 1894 ad Arco di Trento, dove faceva tappa mentre era diretto con la moglie in Baviera.
Se matrimonio felice era stato, lo si doveva all’abnegazione di Maria Sofia, in un certo senso “vedova” con marito vivente, sebbene straordinariamente bella e con temperamento più mediterraneo che absburgico. Il giovane re di Napoli era invece popolare per la sua estrema semplicità: per lui comandare era una sofferenza, senza l’ombra dell’ebbrezza legata al potere. E maggior sofferenza era consumare un matrimonio da tempo rato, al punto che per un’interminabile serie di notti si infilava tra le lenzuola del letto coniugale quando la moglie dormiva e sgusciava fuori all’alba, prima che lei si svegliasse. E tuttavia lei lo amava lo stesso, lo considerava buono e spiritoso, degno comunque di lealtà e di devozione da parte di sudditi largamente beneficati, in un Reame che spesso suggeriva l’idea di una terra più pittoresca che potente.

L’assedio di Gaeta riscattò la mortificante situazione della giovane coppia: fu in quella piazzaforte che l’ultimo re di Napoli volle illuminare con un raggio di gloria il tramonto di una dinastia che era durata 126 anni. E a infondergli coraggio c’era lei: non aveva avuto la possibilità di essere romantica in amore, lo fu in battaglia, tra il fumo dei cannoni, i moribondi, le esplosioni, i cavalli impazziti, proprio come nelle stampe che si diffusero in quelle drammatiche settimane in tutta Europa.
Tutte le gazzette continentali titolavano sull’“eroina di Gaeta” e i giovani aristocratici raggiungevano Maria Sofia, combattevano al suo fianco, soprattutto si innamoravano di lei. Gli stessi ufficiali piemontesi, se riconoscevano la leggendaria regina che ispezionava a cavallo una batteria, facevano sospendere il fuoco. Spesso, infatti, i proiettili avevano colpito dei depositi di polveri e di munizioni, facendoli saltare in aria, e provocando orrende stragi tra i soldati e gli stessi civili. Come ha ricordato nella biografia di questa donna straordinaria lo storico Arrigo Petacco, la popolazione gaetana sopportò ogni dolore, tollerò tutte le ristrettezze, accettò ogni privazione, ma rimase fedele ai Sovrani fino all’ultimo momento.
Tre mesi d’assedio e la guarnigione decimata ma non domata. E a quel punto, Maria Sofia inventò una strabiliante tecnica controffensiva. Faceva schierare sui bastioni le fanfare, che dapprima intonavano l’inno borbonico di Paisiello, poi valzer e mazurke: quindi, stretta al marito, ordinava fuoco a volontà, un tiro preciso e violento che sorprendeva le postazioni piemontesi. Era allora che nei cannocchiali degli assedianti si stagliava la scena surreale di una regina che ballava con i soldati, al modo di una ragazzina durante una sagra di paese. E subito dopo ricominciava l’inferno su Gaeta, raggiunta dalle artiglierie che da terra e dal mare rovesciavano sulla città migliaia di proiettili.
Tre mesi d’assedio, e la regina che curava i feriti, leniva le sofferenze dei moribondi, ispezionava di giorno, ma anche di notte, i bastioni e infondeva coraggio ai difensori, li esortava a difendere il loro re e il loro onore contro le camicie rosse comandate da un fuorilegge e contro le truppe piemontesi al servizio di un re cugino di Francesco, e pertanto due volte traditore, per l’aggressione unilaterale e per i vincoli di parentela violati.
Tre mesi d’assedio e i difensori esausti. Giungevano voci di massacri perpetrati dai “liberatori” in altre regioni del Reame. Da una leggendaria cittadina delle Marche, Civitella, veniva l’eco di una resistenza oltre ogni limite umano, mentre altri lealisti battevano le campagne, dando la caccia ai filogaribaldini, assalivano le cittadine e i municipi passati al nemico, mettevano a ferro e a fuoco i palazzi e le tenute isolate di chi aveva favorito l’invasione piemontese. Ma Napoli era caduta, la capitale che un secolo prima era stata la prima città d’Europa era finita in pugno ai mercenari di Garibaldi e ai lazzari per i quali il saccheggio e la violenza erano preludio ed epilogo di ogni avventurosa conquista.
Tre mesi di eroismi inenarrabili, di lotta per la vita o per la morte, di difesa accanita di ogni palmo di mura, di ogni breccia, di ogni eccidio prodotto dal fuoco concentrato delle artiglierie nemiche. E infine, per necessità di sopravvivenza, l’inizio delle trattative per la resa. All’alba del 14 gennaio 1861, la capitolazione: Maria Sofia, la regina che aveva fatto propria la causa di un Regno che le poteva restare estraneo, e del quale era diventata un simbolo, l’audace e generosa regina del Sud, splendida nel suo pallore, sfilò accanto al marito fra una folla di popolani rotti dall’emozione, mentre gli ufficiali borbonici spezzavano con rabbia le spade. Era la fine del Regno napoletano, con l’ultima bandiera borbonica che sarebbe stata ammainata di lì a poco anche nella martirizzata Civitella, ultimo orgoglioso bagliore dei lealisti del Sud.
L’impotenza del marito era stato il primo, segreto calvario di Maria Sofia. Il secondo era stato vissuto durante l’assedio gaetano. Il terzo, forse più intimamente infernale di tutti, l’ex regina lo avrebbe vissuto di lì a poco, ad opera di un’impostura montata contro di lei da chi si nascondeva nell’ombra dell’anonimato.
I due sovrani, ospiti nel palazzo del Quirinale offerto dal Pontefice, avevano trascorso a Roma soltanto pochi mesi, quando scoppiò lo scandalo: una serie di fotografie che ritraevano Maria Sofia in pose oscene. Incredulità e sconcerto negli ambienti romani e nelle corti europee: l’arte della foto era nata da poco, ma insieme con essa era nata la bassa tecnica del ricatto tramite i fotomontaggi. E infatti di abili fotomontaggi si trattava, sicché ben presto si scoprì la modella (una donna di facili costumi) che aveva (inconsapevolmente) prestato il suo corpo. Ma chi c’era dietro la macchinazione? Forse gli stessi piemontesi, che intendevano screditare l’impavida giovane regina che incarnava ancora gli ideali borbonici; la malinconica giovane regina che – costretta all’esilio – continuava a far innamorare fior di aristocratici europei? Non si sarebbe saputo mai. E’ certo, come ha osservato Arrigo Petacco, che se Garibaldi fu l’eroe del Risorgimento italiano, Maria Sofia fu la nobile eroina che gli si oppose con determinazione.

Francesco II era letteralmente disfatto dall’infame vicenda, ma sarebbe stato ancor peggio se avesse scoperto il primo (e con ogni probabilità unico) tradimento della moglie: Maria Sofia aveva conosciuto un attraente ufficiale belga, e insieme con lui aveva trascorso momenti felici, galoppando per la campagna romana e facendo picnic sull’erba, classici ingredienti delle infedeltà d’alto bordo.
Tre mesi dopo, la regina era stata costretta a recitare la scena del mal di petto. In realtà, era rimasta incinta, e ciò comportava due conseguenze: non poteva attribuirne la causa al marito; non intendeva causare al re, sempre innamorato, un dolore così forte che lo avrebbe distrutto. Perciò decise di rifugiarsi nella natia Baviera, dove la famiglia non si sarebbe formalizzata più di tanto. Sofia avrebbe voluto seppellirsi in un convento, ma il parentado impose il suo ritorno a Roma, a vicenda conclusa. Sofia accettò, a una condizione: confessare tutto a Francesco, al quale avrebbe chiesto se la rivoleva ancora.
Nacquero due gemelle, che crebbero in terra bavarese, fino a quando, raggiunta l’età del matrimonio, vennero fornite di buona dote e accasate con gentiluomini di rango.
Sofia era tornata al Quirinale. Francesco, dal canto suo, rimasto all’oscuro di tutta la vicenda, pazzo di solitudine e privo d’iniziativa, l’avrebbe comunque ripresa. Dopo la vacanza bavarese e la “salute” riacquistata dalla regina, riprese l’antico amore, casto, sincero e profondamente innaturale che aveva legato la coppia dai tempi del Reame a quelli del primo esilio.
Qualcosa, tuttavia, era cambiata in lei. Col passare dei mesi sentiva sfiorire la giovinezza, cadere tutte le illusioni, spegnersi tutte le speranze. Napoli e i suoi palazzi, le sue strade, il suo mare e i suoi giardini; Napoli che era stata capitale europea e che aveva avuto una storia più che secolare di fedeltà borbonica; Napoli la cui immagine ai piedi del fumante Vesuvio continuava a occhieggiare da tutti i giardini d’inverno delle terre centrali e orientali del Vecchio Continente, era ormai una meta irraggiungibile, un sogno che si dissolveva giorno dopo giorno, un’illusione ottica che si allontanava nel tempo e nello spazio.
Dunque, non c’era più alcuna ragione per restare fra le stanze stupende del Quirinale, in quegli ambienti che ricordavano antiche e gloriose potenze, in nome di un’esistenza che per una regina senza regno non aveva più alcun senso. Si sentiva una maceria della Storia, un detrito scagliato contro il nulla da un destino avverso. E considerava che forse soltanto la solitudine avrebbe potuto salvarla dall’insignificanza di quei giorni senza alcuna passione e del vuoto che le stava divorando l’anima. Perciò decise di allontanarsi definitivamente da Roma e da Francesco, e comunicò questa decisione a sua sorella, Sissi, la celebre e bellissima consorte di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria-Ungheria.
Costei intervenne con due mosse che sul momento parvero vincenti. Scrisse una lettera a Francesco, nella quale, dopo averlo messo in guardia sui rischi che correva il suo matrimonio, sosteneva con rude ma efficace franchezza che i “doveri” del re non potevano «esaurirsi nelle preghiere», alle quali Francesco ricorreva nei momenti di sconforto, vale a dire più volte al giorno. Inoltre, fece un “regalo misterioso” al cognato: in realtà, si trattava di un gran letto matrimoniale, che si rivelava un eloquente invito a dedicarsi ai “doveri” naturali cui lo richiamava un matrimonio celebrato da gran tempo. Francesco completò quel regalo con un piccolo intervento chirurgico, che lo mise in condizione di onorare finalmente la “prima notte”. E il sorriso si riaccese sulla bocca di Maria Sofia.
Nacque una bambina, ma gracile, e predestinata: morì dopo appena una settimana, gettando nella disperazione la giovane madre che, affranta, abbandonò per sempre Francesco. Il quale, a sua volta, dopo il miracoloso exploit, ormai consapevole di non avere più eredi, ripiegò sulle sue devozioni, sulle sue superstizioni e sulle sue nostalgie.
Accaddero fatti storici rilevanti. La breccia di Porta Pia consegnò Roma ai piemontesi e a quanti la volevano capitale d’Italia. Alla fine del secolo il regicidio di Umberto I sembrò anticipare i colpi di pistola che, a Sarajevo, avrebbero spalancato gli abissi del primo sterminio mondiale. In odio a casa Savoia, Maria Sofia fomentò rivolte e guerriglie nel Sud, nel nome di una riconquista che non si sarebbe verificata, perché venne stroncata nel sangue dai bersaglieri nelle lotte antibrigantaggio, come furono definite allora e in seguito da una storiografia impudicamente compiacente e non veritiera. E comunque l’odio di Maria Sofia non cessò neanche di fronte alla fine dei fuochi di guerriglia che avevano incendiato le Calabrie e la Basilicata, il Sannio e la Capitanata, il Cilento e l’Abruzzo e – più feroci di tutti – il Molise. L’ex regina del Sud giunse a farsi affascinare persino dagli ambienti anarchici, che le spremettero un mucchio di soldi, senza venire a capo di nulla.
E ci furono degli episodi che sono rimasti tuttora misteriosi, e che la cultura del sospetto ha attribuito – quasi sicuramente senza alcun fondamento – all’attività antitaliana e antisavoiarda di Maria Sofia. Alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra, in due porti del Sud la marina italiana subì uno scacco che le cronache storiche preferiscono ancora oggi ignorare. Una nave corazzata saltò in aria nel bacino portuale di Brindisi, e un’altra esplose nel porto, anch’esso militare, di Taranto. Certamente, si trattò di due atti di sabotaggio perpetrati da elementi filoaustriaci, con l’intento di indebolire le forze navali destinate ad agire in particolare nel Mare Adriatico, dove, provenienti dal porto di Trieste e dalle isole sub-istriane, navigavano le unità della flotta austriaca. Si trattò di elementi locali al soldo di Francesco Giuseppe? Erano giunti negli arsenali adriatico e ionico agenti austriaci, con l’ordine di attaccarvi le maggiori unità italiane alla fonda?
Le inchieste subito aperte non giunsero ad alcuna conclusione. E poiché una mente organizzatrice doveva pur esserci stata dietro le due clamorose azioni, si mise in giro il nome di Maria Sofia, capro espiatorio dell’incapacità degli indagatori di venire a capo delle due vicende. Sta di fatto che le due unità corazzate furono messe fuori combattimento per tutta la durata della guerra, insieme con una terza, anch’essa corazzata, saltata su una mina dalle parti di Scutari. La marina sabauda aveva perso la guerra prima di cominciarla. E ci sarebbe voluto del tempo, e molto coraggio, per pareggiare i conti, con l’affondamento di potenti unità navali austriache operative in Adriatico.
Si spostò in lungo e in largo per l’Europa, l’ex regina del Sud. Che rimase, come sempre, affascinante, brillante, determinata nei giudizi, se è vero, com’è vero, che ormai anziana, incontrato a Parigi Giovanni Papini, anch’egli spirito puntuto e lingua sferzante, e intellettuale orgoglioso di un suo fresco “saggio filosofico”, lo incenerì con una battuta: «Per essere filosofi bisogna aver vissuto a lungo e aver sofferto molti disinganni: credetemi, non è il caso vostro!». E comunque il mito di Maria Sofia sarebbe rimasto luminosamente legato a due misteri, tuttora irrisolti: la tenerezza per cui per tanto tempo riuscì ad amare un marito impotente; e lo slancio con il quale sposò la causa di un Reame che le era estraneo, diventandone, ribadiamo, il simbolo più nobile.
Bella, audace, generosa, come sapevano essere soltanto le eroine dei feuilletons non soltanto di quell’epoca. Ma autentica. Coerente e vera. Sfortunata protagonista nel tramonto di una monarchia che sarebbe stata rivalutata, e piuttosto timidamente, soltanto dopo circa un secolo e mezzo. Con storie di una Storia rivisitata che si apre faticosamente la strada fra gli stereotipi, i luoghi comuni, le distorsioni che hanno velato a lungo – deformandola – la verità che apparteneva ai popoli del Sud e a quelli della Penisola. E forse non soltanto a loro.
Il fatto politico in sé, (la scomparsa del più antico Stato della Penisola, e l’annessione del Sud), ebbe rilevanza europea, ovviamente. Ma anche la reazione legittimista, con le stesse deviazioni brigantesche, si inseriva in una tradizione continentale. Avrebbe notato Francesco Saverio Nitti, in seguito, che «ogni parte d’Europa ha avuto banditi e malviventi». E in alcuni Paesi dell’Europa centrale il brigantaggio era stato per secoli una vera istituzione, «e i banditi della Germania in brutalità e ferocia hanno segnato pagine assai più sanguinose delle nostre». Ma vi era un Paese in cui il brigantaggio era esistito sempre, simile a un immenso fiume di sangue e di odio, cui erano affluiti tutti i rivoli del dolore, dell’ingiustizia e della delinquenza; vi era un Paese in cui per secoli una monarchia si era basata sul brigantaggio: il Sud. Anche le monarchie più potenti non erano riuscite a estirparlo del tutto dal Reame. Tante volte distrutto, tante volte risorto, e spesso più prepotente.
Del resto, è noto che nulla aveva contribuito allo sviluppo del brigantaggio più della immoralità profonda della dominazione spagnola, durante la quale venne meno ogni fede pubblica e privata. In alcuni casi, tutt’altro che rari, gli stessi baroni partecipavano al brigantaggio, o apertamente lo proteggevano, sia per autodifesa sia per sete di guadagno. Durante quella dominazione, nel 1559, fu possibile a un celebre fuorbandito, Re Marcone, andare realmente a prendere possesso della città di Crotone e battere le truppe regolari. Alla fine del secolo XVI Benedetto Mangone, Marco Sciarra e Battinello erano i veri arbitri in alcune province. E non poche volte si videro i briganti spingersi in gran numero fin sotto le mura di Napoli, bloccare la capitale e mettere in pericolo la sicurezza del governo.
Anche prima i banditi erano stati spesso una forza politica, di cui i sovrani si erano serviti contro i baroni e i baroni contro i sovrani. Ma durante la dominazione spagnola, vale a dire per più di due secoli, non c’era stata guerra combattuta con le forze interne del Regno in cui una delle parti nemiche non avesse adoperato i briganti. Province intere, per secoli, furono al di fuori di ogni legge, sotto la dominazione o l’influenza diretta o indiretta dei banditi, sotto la persecuzione di un ordine feudale trapiantato a Sud e in Sicilia dai Normanni.
Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Maria Sofia faceva ricorso alla tradizione: assoldava briganti, mentre complottava con i legittimisti per la riconquista del Reame. Diserzioni, infedeltà, ruberie, doppi giochi di oscuri personaggi fecero cadere l’illusione e accrebbero l’odio e il disprezzo dell’ex regina del Sud per casa Savoia. Altro non potendo fare, lungo i sentieri del tramonto.

   
   
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