Se questo è il dramma, il Dio
al quale si rivolge il prigioniero non può non essere l’implacabile
Dio biblico.
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C’è una retorica del dolore come ce n’è
una dell’amore, che spesso s’intrecciano e rimbalzano
reciprocamente. Sono filacce romantiche da cui non sempre ci si
riesce a liberare quando ci si abbandona al flusso dei ricordi di
un’esistenza infelice. Certo petrarchismo e leopardismo di
maniera cova sempre nel chiuso narcisistico delle “anime belle”.
La tecnica del correlativo oggettivo mediante i simboli ne è
sicuro antidoto, sull’esempio di Eliot e di Montale.
A suo modo, nei momenti di più cupa tristezza liricizzata,
alla tecnica del correlativo oggettivo ricorre Giuseppe Sozzo (G.C.
Soz, in arte), un salentino, che dalla natia Surbo è poi
emigrato a Trepuzzi, dove è vissuto sino al 1994 (era nato
nel 1913).
Di radici contadine, mai camuffate o rinnegate, la sua vita è
stata davvero «un difficile e lungo peregrinare», che
per essere non comune lo avrebbe potuto indurre all’enfasi
del proprio io crivellato e dalla quale invece sono sgorgati rivoli
di poesia schietta, incontaminata: una peregrinazione, diciamolo
subito, che, fra l’altro, lo ha scaraventato fra gli orrori
di un campo di concentramento nazista, prima in Polonia poi in Germania.
I postumi dell’esperienza atroce restano nel segreto dell’animo
suo e di qualche amico cui ebbe a confidarli. I postumi di una memoria
devastata: la “madeleinette” è una spugna intrisa
di fiele come quella offerta al Cristo sulla croce; i postumi di
un equilibrio gravemente compromesso. E’ la stessa memoria
di Primo Levi e in parte di Roberto Rebora, e per neutralizzarne
gli effetti mortali non c’è che il ricorso alla penna
(che, peraltro, all’autore di Se questo è un uomo
non bastò) e al pennello.
Per Sozzo infatti il bisogno prorompente di dire, di comunicare,
si è dapprima riversato nella parola poetica, via via, in
seguito, forse con maggiore espressività, nel colore e nella
figura, appresi in appositi tirocini in uno dei soggiorni estivi,
per fini terapeutici più frequentati, Malcesine, sul lago
di Garda. Sicché poesia e pittura nella ispirazione travagliata
di Giuseppe Sozzo procedono complementarmente, come egli stesso
ha voluto segnalare, nell’inserire la riproduzione di varie
tavole a ridosso di testi tematici omologhi; sin dalla copertina,
che raffigura un prigioniero di Bergen Belsen in sintonia col titolo
della raccolta Non più nome, pubblicata nel 1991.

Sono liriche dislocate in un lungo arco di anni, che però
ritrovano il loro punto di coagulo e di forza nel carattere di testimonianza
di una generazione e di un preciso momento storico; für
ewig, osiamo dire, alla maniera di altre affidate alla pagina;
testimonianza, sì, che non perciò va relegata con
pregiudizio pseudocrociano nel limbo della non poesia per la realistica,
ossuta, spigolosa, ruvida immediatezza dei referti di esperienza
accumulata (Erfahrung). Riteniamo anzi che tanto più
inesorabile scatta l’ictus poetico nel rimuginio delle “sensazioni”
lontane, dei ricordi strazianti mai più cancellati dagli
eventi successivi, quanto più scorre sciolta da condizionamenti
riflessi l’anamnesi, che affonda e scava e riporta alla coscienza
e alla luce del giudizio.
E’ accaduto anche per la riemersione in poesia del suo vissuto
più remoto, non certo intriso di grati sapori domestici,
di un’infanzia triste precocemente orbata della presenza della
madre, e della sua giovinezza perduta: risentito, ora, quell’amaro
vissuto lontano, quasi come un naturale presagio dell’inferno
del lager. Un testo carico di straordinaria pietas ci riporta
a qualche anno prima della chiamata alle armi; una pietas
che l’andamento ritmico e semantico della nenia popolare accentua
di universalità:
Se mi
dicessi tu: – Vedi le stelle
che
brillano lassù? Son tutte mamme
e il
loro amor risplende in quelle fiamme –,
direi:
– Tutte le mamme sono belle –.
Se mi
dicessi tu: – Vedi la via
che
Giunone segnò col petto ansante?
son
mamme quelle ancor – direi: – O quante
mamme
in cielo si fanno compagnia!
Se mi
dicessi tu: – La stella pia
della
tua Mamma, trovala, se sai –,
direi
sicur di non errare mai:
–
Quella che più risplende è Mamma mia.
E’ il timbro lucreziano del dolore filtrato negli endecasillabi
che, singhiozzando, rimemorano “Ventun anni or sono”
la tragica fine della povera donna (il testo è datato 20
dicembre 1941).
L’orfanello di appena sette anni è stordito, disorientato:
gli è venuto meno uno dei due puntelli, affettivamente il
più generoso:
Eri
scalzo
quando
gioioso a piedi nudi
fatti
ali
come
d’uccello a volo radente,
sfioravi
bianco calcare sfarinato
d’antiche
strade senza orientamento
…
Ma tu andavi andavi
per
incerta meta.
E la
tua primavera
che
ti fu tronca
e non
l’avesti più. (Dove vai? = Quo vadis?)
Il correlativo oggettivo (“la strada senza uscita”,
“la voce delle sirene”, “il tram della vita”,
“curve e ricurve rotaie”) preserva sia dall’astrazione
concettuale che dalla deriva crepuscolare lo spontaneo riaffiorare
del rimosso, sollevandolo dall’ambito individuale a emblema
di smarrimento esistenziale. Nel leggere questo e altri testi, come
“Devi e rimandi”, replicato in quadruplice versione,
si pensa ad un altro poeta di radici contadine, il lucano Rocco
Scotellaro, sorpreso anch’egli dagli assalti del dubbio e
dallo sconforto dei disinganni (vedi il racconto autobiografico
Uno si distrae al bivio).
Qualcuna delle poesiole della prima sezione reca in calce la data,
come “Scava entro te” (Locarno-Svizzera, 25 agosto 1982),
e il richiamo cronologico assume per il lettore un significato non
secondario: Sozzo ha qualche motivo per riscuotersi dall’ignavia
e ritrovare in sé energie morali che brucino gli indugi nell’agire
e gli aprano dunque nuovi orizzonti di vita. E’ il nosce
te ipsum di Agostino più che di Socrate:
Fratello,
scava
entro te
a ricercare
la tua parte buona.
Sulla
scheggiata selce
che
fende il piede e non colora fiore
senza
lamento
deponi
la zavorra della vita.
Non
raccattar brandelli del passato.
Ora
dona
al bene la tua parte buona,
meglio
se intera.
Sazio
di tanto
leva
alto lo spirito,
libero
sempre,
sempre
più in alto,
e ti
sarà gran luce.
Il richiamo all’autore delle Confessioni più
che al filosofo greco è legittimato dalla preghiera che segue:
Signore,
frammenti
di dolore
la mia
piccola croce
a Te
la levo
con
mani nodose non più mie […].
Non
disdegnare il tardo pentimento,
Signore.
La mia
piccola croce
’ho
fatta con le mani mie,
la depongo
ai piedi di Tuo Figlio,
l’Uno
dalla Croce immensa,
e sia
assenso di misericordia.
(La
mia piccola croce)
Giuseppe Sozzo è un naturaliter cristiano da sempre,
che sulla probabile scorta di Pascal, riscopre l’esprit
de finesse, e lo slancio che lo stacca dalla giungla del contingente:
Vorrei
disfare
questo
grosso gomitolo di anni,
dipanarlo
sin alle aggrovigliate
prime
incerte candide misure
dell’esistenza
coniugata al tempo […].
Riascoltare
il silenzio delle grecosalentine nenie
spirate
al labbro dell’ava paterna. (Vorrei)

L’impressione di una querula monotonia, che impropriamente
si riceve dalla lettura di buona parte della prima sezione, opportunamente
siglata con il versicolo ungarettiano “I ricordi, un inutile
infinito”, dilegua, perché ne attinge la sua validità,
se la si considera (la monotonia) il riflesso espressivo del groppo
in gola che fatica a dissolversi. Tra l’amaro Erlebnis
e il segno verbale o cromatico non c’è spazio per una
mediazione inventiva, per uno scarto consolatorio dell’immaginazione,
perché i protagonisti in assoluto, sugli esterrefatti scenari
della memoria, sono “gesti”, “oggetti”,
“situazioni”, “angosce nascoste”, “sguardi
perduti nel vuoto”; e i vari testi quasi assumono la scheletrica
struttura diaristica, minuziosamente rubricata:
Dal
letto
occhi
fissi
al cielo
d’una stanza
muta.
Pesa
lo spazio
di jatrogeni
odori.
A goccia
a goccia
assonnata
la flebo
stilla
incolore liquido di vita.
Vuoto
il tempo
senza
voce.
Morto
amaramente
pigro
lo sbadiglio
di una luce
dal
colore nero della notte. (Dal letto)
Non è, no, retorica del dolore, ma epica condensata del dolore,
non senza qualche suggestione del tardo Ungaretti: epica nuda, essenziale.
Nella sezione introdotta dall’esergo quasimodeo, “E
come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore”,
il linguaggio è scarnificato sino a “far sangue”,
la sintassi prosaicamente elementare, radente nella efficacissima
simbiosi res et verba, perché il poeta getta d’impeto
sulla pagina la parola e il sintagma come il pittore il grigio sulla
tela e la figura o l’oggetto nel riquadro.
I testi in apertura del libro (Poesia I, Poesia II) definiscono
le linee di una poetica che rifiuta l’aulicità, i preziosismi,
la sovrabbondanza delle metafore, la finezza analogica: può
adattarsi alla ricerca espressiva di Sozzo il modello ungarettiano:
“Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata
è nella mia vita / come un abisso”. Qualche passo:
Poesia,
ho modulato sottrazione di parole
per
farti scarna; ho cercato le pepite d’oro
entro
la sabbia del sentir comune
su rivi
solitari,
abbandonati.
Cercavo
fuori ed eri dentro il cuore.
Fermento
di pensieri
il tuo,
tormento
dell’animo segreto.
Perché è poesia della verità e non di una letteraria
finzione di verità, e le poesie più tese sembrano
inizialmente accennare una scansione lineare, ma poi si inabissano
in un limbo di atemporalità che irrigidisce, come in una
maschera nuda, memoria e dolore, pietà e protesta. La loro
referenzialità storica riporta alla nostra mente la terribile
ma verace sentenza di Voltaire: «L’Histoire n’est
que le tableau des crîmes et des malheurs», di cui le
parole, i colori e le figure non rivestono altra funzione che quella
di denunziarla. Citiamo qualche stralcio:
Piantate
sulla sabbia senza pista
intorno
reti alte e mitra
e filospinato
e fosso e confine
per
le baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
(Sono
baracche I)
L’iterazione del lemma tedesco (blöcke) martella
la reclusione piombata dei deportati, che possono finire in pasto
ai corvi:
Magro
nutrire lamentano i corvi,
chissà
cosa si dicono i gabbiani;
un sol
brumoso cielo tutto l’anno
sulle
baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
Sonno
inquieto popola la notte
ammorbata
di urina e di escrementi,
è
babilonia di zebrata gente
nelle
baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
Ma baracche (alias blöcke) non sono, perché
dialogano
al vento le finestre
alla
bufera le vele dei tetti,
arrugginito
filtro d’acquaneve
per
le baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
L’uniformità degli scenari, la ripetitività
macabra dei movimenti della “zebrata gente”, la lucida
ferocia degli aguzzini, l’ansia di morte che incalza ombre
vaganti, “pelle ed ossa”, le sinistre sciabolate di
luce che perforano impietose l’anima di notte, l’oltraggio
bavoso dello sgherro che, col mitra spianato, si accanisce a “contare
sulla neve: Wie viele Stücke?”; i corvi forieri
dalle ali sbilenche e i gabbiani irrequieti: tutto ciò conferisce
all’insieme dei testi il profilo di una tragedia antica, la
segmentazione in atti di un dramma certo non nuovo nella storia
degli uomini, ma certo consumato con più efferato cinismo
che in passato:
Non
più nome.
Una
cifra tatuata all’avambraccio,
unico
segno a dare,
solo
a dare.
Sposarono
così ombre altre ombre,
tante
ombre:
finestre
al vento,
imbuti
di neve.
Uomini?
Mai
più!
Pezzi
da contare sulla neve:
Wie
viele Stücke?
sempre
Wie viele Stücke!
In quell’inferno
la sferza
partorì alla bestia
bava
e bestemmia;
allo
sferzato mai lamento o lagrima.
La morte?
soluzione
innaturale,
sempre,
perché
legge,
allora,
era
la violenza
(K.Z.,
la sigla di Giuseppe Sozzo).
La tormentata e tormentosa sequenza dei versi, sempre più
brevi, sempre più semanticamente puntuali, rende il lento
inarrestabile sommesso singhiozzare del prigioniero nell’inferno
del lager: un singhiozzare disarticolato che invano implora la parola:
Più
non cercate le nostre parole.
...
A poco a poco le tolsero a noi
e a
poco a poco divenimmo muti.
Ora
lo sguardo s’attende alle labbra
e la
ragione svaga dal pensiero.
Più
non cercate le nostre parole:
notturne
farfalle alla clausura
forzate
tutte a sfrigolar nel cranio.
Più
non cercate le nostre parole.
(Più
non cercate le nostre parole)
La deriva poetica al ritmo della nenia popolare, lungi dal rappresentare
un cedimento alla piena del dolore, ne costituisce quasi un freno,
calandone il sentimento nella tradizione funebre della sua terra
salentina. Sicché, se questo è il dramma, il Dio al
quale si rivolge il prigioniero non può non essere l’implacabile
Dio biblico.
La pietà
di Dio
da lui
distorca il collo.
Vada
ramingo a maledir se stesso
il Caino
per
l’eterno.
Per
l’eterno pesi su di lui
il dolore
di tutti, di tutti la morte.
Per
l’eterno il Caino. (Se Dio è Amore)
Il dolore che sgorga dalla ferita aperta del predestinato ai “forni
crematori” è il dolore stesso della balalajka abbandonata,
che la tavola dell’olio su tela acuisce sino al limite del
sublime. Il poeta affida a questo strumento l’espressione
suprema della sua sentenza, del verdetto dei posteri che sapranno:
Piangi,
balalajka abbandonata
l’arcipelago
muto dei sepolti.
Dica
il silenzio
quanti
ne ha inghiottito l’orizzonte
di neve
e spine,
e sappia
Ivana
l’inutile
attesa del ritorno. Piangi, balalajka
[abbandonata.
Vèstiti
di nero, balalajka.
(Piangi
balalajka)
nei quali versi, più che in altri, la valéryana «hesitation
prolongée entre le sens et le son», di là dagli
scontati effetti fonosimbolici, trasferisce nell’oggetto il
segno di una ipostasi cosmica, e alla poesia in versi corrisponde
il contiguo olio su tela dello strumento musicale, desolato anch’esso
su uno sfondo spettrale (il quadro è oggi proprietà
del Museo dell’Arte e della Scienza di Milano). E’ un
epicedio che non sfigurerebbe in un’ideale crestomazia, al
confine tra le due metà del secolo scorso, a memoria imperitura
del suo male storico.
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