Marzo 2005

Giuseppe Sozzo tra poesia e pittura

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Voci dal lager
Nicola Carducci  
 
 








Se questo è il dramma, il Dio
al quale si rivolge il prigioniero non può non essere l’implacabile Dio biblico.

 

C’è una retorica del dolore come ce n’è una dell’amore, che spesso s’intrecciano e rimbalzano reciprocamente. Sono filacce romantiche da cui non sempre ci si riesce a liberare quando ci si abbandona al flusso dei ricordi di un’esistenza infelice. Certo petrarchismo e leopardismo di maniera cova sempre nel chiuso narcisistico delle “anime belle”. La tecnica del correlativo oggettivo mediante i simboli ne è sicuro antidoto, sull’esempio di Eliot e di Montale.
A suo modo, nei momenti di più cupa tristezza liricizzata, alla tecnica del correlativo oggettivo ricorre Giuseppe Sozzo (G.C. Soz, in arte), un salentino, che dalla natia Surbo è poi emigrato a Trepuzzi, dove è vissuto sino al 1994 (era nato nel 1913).
Di radici contadine, mai camuffate o rinnegate, la sua vita è stata davvero «un difficile e lungo peregrinare», che per essere non comune lo avrebbe potuto indurre all’enfasi del proprio io crivellato e dalla quale invece sono sgorgati rivoli di poesia schietta, incontaminata: una peregrinazione, diciamolo subito, che, fra l’altro, lo ha scaraventato fra gli orrori di un campo di concentramento nazista, prima in Polonia poi in Germania.
I postumi dell’esperienza atroce restano nel segreto dell’animo suo e di qualche amico cui ebbe a confidarli. I postumi di una memoria devastata: la “madeleinette” è una spugna intrisa di fiele come quella offerta al Cristo sulla croce; i postumi di un equilibrio gravemente compromesso. E’ la stessa memoria di Primo Levi e in parte di Roberto Rebora, e per neutralizzarne gli effetti mortali non c’è che il ricorso alla penna (che, peraltro, all’autore di Se questo è un uomo non bastò) e al pennello.
Per Sozzo infatti il bisogno prorompente di dire, di comunicare, si è dapprima riversato nella parola poetica, via via, in seguito, forse con maggiore espressività, nel colore e nella figura, appresi in appositi tirocini in uno dei soggiorni estivi, per fini terapeutici più frequentati, Malcesine, sul lago di Garda. Sicché poesia e pittura nella ispirazione travagliata di Giuseppe Sozzo procedono complementarmente, come egli stesso ha voluto segnalare, nell’inserire la riproduzione di varie tavole a ridosso di testi tematici omologhi; sin dalla copertina, che raffigura un prigioniero di Bergen Belsen in sintonia col titolo della raccolta Non più nome, pubblicata nel 1991.

Sono liriche dislocate in un lungo arco di anni, che però ritrovano il loro punto di coagulo e di forza nel carattere di testimonianza di una generazione e di un preciso momento storico; für ewig, osiamo dire, alla maniera di altre affidate alla pagina; testimonianza, sì, che non perciò va relegata con pregiudizio pseudocrociano nel limbo della non poesia per la realistica, ossuta, spigolosa, ruvida immediatezza dei referti di esperienza accumulata (Erfahrung). Riteniamo anzi che tanto più inesorabile scatta l’ictus poetico nel rimuginio delle “sensazioni” lontane, dei ricordi strazianti mai più cancellati dagli eventi successivi, quanto più scorre sciolta da condizionamenti riflessi l’anamnesi, che affonda e scava e riporta alla coscienza e alla luce del giudizio.
E’ accaduto anche per la riemersione in poesia del suo vissuto più remoto, non certo intriso di grati sapori domestici, di un’infanzia triste precocemente orbata della presenza della madre, e della sua giovinezza perduta: risentito, ora, quell’amaro vissuto lontano, quasi come un naturale presagio dell’inferno del lager. Un testo carico di straordinaria pietas ci riporta a qualche anno prima della chiamata alle armi; una pietas che l’andamento ritmico e semantico della nenia popolare accentua di universalità:


          Se mi dicessi tu: – Vedi le stelle
          che brillano lassù? Son tutte mamme
          e il loro amor risplende in quelle fiamme –,
          direi: – Tutte le mamme sono belle –.
          Se mi dicessi tu: – Vedi la via
          che Giunone segnò col petto ansante?
          son mamme quelle ancor – direi: – O quante
          mamme in cielo si fanno compagnia!
          Se mi dicessi tu: – La stella pia
          della tua Mamma, trovala, se sai –,
          direi sicur di non errare mai:
          – Quella che più risplende è Mamma mia.


E’ il timbro lucreziano del dolore filtrato negli endecasillabi che, singhiozzando, rimemorano “Ventun anni or sono” la tragica fine della povera donna (il testo è datato 20 dicembre 1941).
L’orfanello di appena sette anni è stordito, disorientato: gli è venuto meno uno dei due puntelli, affettivamente il più generoso:


          Eri scalzo
          quando gioioso a piedi nudi
          fatti ali
          come d’uccello a volo radente,
          sfioravi bianco calcare sfarinato
          d’antiche strade senza orientamento
          … Ma tu andavi andavi
          per incerta meta.
          E la tua primavera
          che ti fu tronca
          e non l’avesti più. (Dove vai? = Quo vadis?)


Il correlativo oggettivo (“la strada senza uscita”, “la voce delle sirene”, “il tram della vita”, “curve e ricurve rotaie”) preserva sia dall’astrazione concettuale che dalla deriva crepuscolare lo spontaneo riaffiorare del rimosso, sollevandolo dall’ambito individuale a emblema di smarrimento esistenziale. Nel leggere questo e altri testi, come “Devi e rimandi”, replicato in quadruplice versione, si pensa ad un altro poeta di radici contadine, il lucano Rocco Scotellaro, sorpreso anch’egli dagli assalti del dubbio e dallo sconforto dei disinganni (vedi il racconto autobiografico Uno si distrae al bivio).
Qualcuna delle poesiole della prima sezione reca in calce la data, come “Scava entro te” (Locarno-Svizzera, 25 agosto 1982), e il richiamo cronologico assume per il lettore un significato non secondario: Sozzo ha qualche motivo per riscuotersi dall’ignavia e ritrovare in sé energie morali che brucino gli indugi nell’agire e gli aprano dunque nuovi orizzonti di vita. E’ il nosce te ipsum di Agostino più che di Socrate:


          Fratello,
          scava entro te
          a ricercare la tua parte buona.
          Sulla scheggiata selce
          che fende il piede e non colora fiore
          senza lamento
          deponi la zavorra della vita.
          Non raccattar brandelli del passato.
          Ora
          dona al bene la tua parte buona,
          meglio se intera.
          Sazio di tanto
          leva alto lo spirito,
          libero sempre,
          sempre più in alto,
          e ti sarà gran luce.

Il richiamo all’autore delle Confessioni più che al filosofo greco è legittimato dalla preghiera che segue:


          Signore,
          frammenti di dolore
          la mia piccola croce
          a Te la levo
          con mani nodose non più mie […].
          Non disdegnare il tardo pentimento,
          Signore.
          La mia piccola croce
          ’ho fatta con le mani mie,
          la depongo ai piedi di Tuo Figlio,
          l’Uno dalla Croce immensa,
          e sia assenso di misericordia.
                                   (La mia piccola croce)


Giuseppe Sozzo è un naturaliter cristiano da sempre, che sulla probabile scorta di Pascal, riscopre l’esprit de finesse, e lo slancio che lo stacca dalla giungla del contingente:


          Vorrei disfare
          questo grosso gomitolo di anni,
          dipanarlo sin alle aggrovigliate
          prime incerte candide misure
          dell’esistenza coniugata al tempo […].
          Riascoltare il silenzio delle grecosalentine nenie
          spirate al labbro dell’ava paterna. (Vorrei)

 

 

L’impressione di una querula monotonia, che impropriamente si riceve dalla lettura di buona parte della prima sezione, opportunamente siglata con il versicolo ungarettiano “I ricordi, un inutile infinito”, dilegua, perché ne attinge la sua validità, se la si considera (la monotonia) il riflesso espressivo del groppo in gola che fatica a dissolversi. Tra l’amaro Erlebnis e il segno verbale o cromatico non c’è spazio per una mediazione inventiva, per uno scarto consolatorio dell’immaginazione, perché i protagonisti in assoluto, sugli esterrefatti scenari della memoria, sono “gesti”, “oggetti”, “situazioni”, “angosce nascoste”, “sguardi perduti nel vuoto”; e i vari testi quasi assumono la scheletrica struttura diaristica, minuziosamente rubricata:

          Dal letto
          occhi fissi
          al cielo d’una stanza
          muta.
          Pesa lo spazio
          di jatrogeni odori.
          A goccia a goccia
          assonnata la flebo
          stilla incolore liquido di vita.
          Vuoto il tempo
          senza voce.
          Morto
          amaramente pigro
          lo sbadiglio di una luce
          dal colore nero della notte. (Dal letto)


Non è, no, retorica del dolore, ma epica condensata del dolore, non senza qualche suggestione del tardo Ungaretti: epica nuda, essenziale.
Nella sezione introdotta dall’esergo quasimodeo, “E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore”, il linguaggio è scarnificato sino a “far sangue”, la sintassi prosaicamente elementare, radente nella efficacissima simbiosi res et verba, perché il poeta getta d’impeto sulla pagina la parola e il sintagma come il pittore il grigio sulla tela e la figura o l’oggetto nel riquadro.
I testi in apertura del libro (Poesia I, Poesia II) definiscono le linee di una poetica che rifiuta l’aulicità, i preziosismi, la sovrabbondanza delle metafore, la finezza analogica: può adattarsi alla ricerca espressiva di Sozzo il modello ungarettiano: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso”. Qualche passo:


          Poesia, ho modulato sottrazione di parole
          per farti scarna; ho cercato le pepite d’oro
          entro la sabbia del sentir comune
          su rivi solitari,
          abbandonati.
          Cercavo fuori ed eri dentro il cuore.
          Fermento di pensieri
          il tuo,
          tormento dell’animo segreto.


Perché è poesia della verità e non di una letteraria finzione di verità, e le poesie più tese sembrano inizialmente accennare una scansione lineare, ma poi si inabissano in un limbo di atemporalità che irrigidisce, come in una maschera nuda, memoria e dolore, pietà e protesta. La loro referenzialità storica riporta alla nostra mente la terribile ma verace sentenza di Voltaire: «L’Histoire n’est que le tableau des crîmes et des malheurs», di cui le parole, i colori e le figure non rivestono altra funzione che quella di denunziarla. Citiamo qualche stralcio:


          Piantate sulla sabbia senza pista
          intorno reti alte e mitra
          e filospinato e fosso e confine
          per le baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
                                                   (Sono baracche I)

L’iterazione del lemma tedesco (blöcke) martella la reclusione piombata dei deportati, che possono finire in pasto ai corvi:


          Magro nutrire lamentano i corvi,
          chissà cosa si dicono i gabbiani;
          un sol brumoso cielo tutto l’anno
          sulle baracche, se vuoi chiamarle blöcke.
          Sonno inquieto popola la notte
          ammorbata di urina e di escrementi,
          è babilonia di zebrata gente
          nelle baracche, se vuoi chiamarle blöcke.

Ma baracche (alias blöcke) non sono, perché


          dialogano al vento le finestre
          alla bufera le vele dei tetti,
          arrugginito filtro d’acquaneve
          per le baracche, se vuoi chiamarle blöcke.

L’uniformità degli scenari, la ripetitività macabra dei movimenti della “zebrata gente”, la lucida ferocia degli aguzzini, l’ansia di morte che incalza ombre vaganti, “pelle ed ossa”, le sinistre sciabolate di luce che perforano impietose l’anima di notte, l’oltraggio bavoso dello sgherro che, col mitra spianato, si accanisce a “contare sulla neve: Wie viele Stücke?”; i corvi forieri dalle ali sbilenche e i gabbiani irrequieti: tutto ciò conferisce all’insieme dei testi il profilo di una tragedia antica, la segmentazione in atti di un dramma certo non nuovo nella storia degli uomini, ma certo consumato con più efferato cinismo che in passato:


          Non più nome.
          Una cifra tatuata all’avambraccio,
          unico segno a dare,
          solo a dare.
          Sposarono così ombre altre ombre,
          tante ombre:
          finestre al vento,
          imbuti di neve.
          Uomini?
          Mai più!
          Pezzi da contare sulla neve:
          Wie viele Stücke?
          sempre Wie viele Stücke!
          In quell’inferno
          la sferza partorì alla bestia
          bava e bestemmia;
          allo sferzato mai lamento o lagrima.
          La morte?
          soluzione innaturale,
          sempre,
          perché legge,
          allora,
          era la violenza
                                        (K.Z., la sigla di Giuseppe Sozzo).

La tormentata e tormentosa sequenza dei versi, sempre più brevi, sempre più semanticamente puntuali, rende il lento inarrestabile sommesso singhiozzare del prigioniero nell’inferno del lager: un singhiozzare disarticolato che invano implora la parola:


          Più non cercate le nostre parole.
          ... A poco a poco le tolsero a noi
          e a poco a poco divenimmo muti.
          Ora lo sguardo s’attende alle labbra
          e la ragione svaga dal pensiero.
          Più non cercate le nostre parole:
          notturne farfalle alla clausura
          forzate tutte a sfrigolar nel cranio.
          Più non cercate le nostre parole.
                                        (Più non cercate le nostre parole)


La deriva poetica al ritmo della nenia popolare, lungi dal rappresentare un cedimento alla piena del dolore, ne costituisce quasi un freno, calandone il sentimento nella tradizione funebre della sua terra salentina. Sicché, se questo è il dramma, il Dio al quale si rivolge il prigioniero non può non essere l’implacabile Dio biblico.


          La pietà di Dio
          da lui distorca il collo.
          Vada ramingo a maledir se stesso
          il Caino
          per l’eterno.
          Per l’eterno pesi su di lui
          il dolore di tutti, di tutti la morte.
          Per l’eterno il Caino. (Se Dio è Amore)


Il dolore che sgorga dalla ferita aperta del predestinato ai “forni crematori” è il dolore stesso della balalajka abbandonata, che la tavola dell’olio su tela acuisce sino al limite del sublime. Il poeta affida a questo strumento l’espressione suprema della sua sentenza, del verdetto dei posteri che sapranno:


          Piangi, balalajka abbandonata
          l’arcipelago muto dei sepolti.
          Dica il silenzio
          quanti ne ha inghiottito l’orizzonte
          di neve e spine,
          e sappia Ivana
          l’inutile attesa del ritorno. Piangi, balalajka
                                                  [abbandonata.
          Vèstiti di nero, balalajka.
                                                  (Piangi balalajka)

nei quali versi, più che in altri, la valéryana «hesitation prolongée entre le sens et le son», di là dagli scontati effetti fonosimbolici, trasferisce nell’oggetto il segno di una ipostasi cosmica, e alla poesia in versi corrisponde il contiguo olio su tela dello strumento musicale, desolato anch’esso su uno sfondo spettrale (il quadro è oggi proprietà del Museo dell’Arte e della Scienza di Milano). E’ un epicedio che non sfigurerebbe in un’ideale crestomazia, al confine tra le due metà del secolo scorso, a memoria imperitura del suo male storico.

   
   
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