Cecità politica, quella di non
mettere in campo lo sviluppo del Sud, a fronte di quello che di
qui
a non molto sarà
il nuovo contesto planetario.
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Se guardiamo allo scarto esistente tra obiettivi e risultati
si sostiene con una buona dose di sarcasmo ci accorgiamo
che lAgenda di Lisbona, secondo cui lEuropa dovrebbe
diventare leconomia più dinamica del mondo, non è
che uno scherzo. Giocano ma non tanto, con lironia, quelli
del Consorzio franco-tedesco che controlla Airbus, il gigante che
ha superato nelle vendite il colosso aeronautico americano. Eppure,
lindustria europea ha rialzato la testa proprio con Airbus,
oltre che con i telefonini, con la farmaceutica e con le costruzioni
spaziali: tutti settori deccellenza nella competizione globale.
Si afferma anche che lEuropa non ha ancora trovato il passo
giusto per utilizzare al meglio lenorme vantaggio competitivo
di avere il mercato domestico più grande del mondo. Soltanto
con una maggiore integrazione (anche dei mercati finanziari) e una
corporate governance comune si potrà superare il ritardo
tecnologico rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. Cioè:
il Vecchio Continente deve fare più sistema, e ridurre il
gap nella crescita della popolazione, sostenendo le famiglie e aprendo
agli immigrati, soprattutto a quelli scolarizzati e qualitativamente
più appetibili.

Lamentano le maggiori società europee di software: «Da
noi si discute se lavorare 35 ore a settimana, in Cina se dormire
35 ore alla settimana. E intanto lasciamo fuori dalla porta gli
ingegneri indiani, che eccellono nello sviluppo di prodotto, come
continuano a dimostrare nelle aree ad alta tecnologia della California».
Lallargamento allEst europeo in qualche modo ha fatto
aumentare la competitività delle imprese europee e ancora
meglio potrà fare la concorrenza fiscale (lIrlanda
registra già unaliquota al 12,5 per cento).
Comè noto, il Rapporto sullarea euro ha previsto
per Eurolandia una crescita del 2,4 per cento per il 2005. Tutto
bene? No: ammesso che si raggiunga questindice, è sempre
troppo poco, perché gli Stati Uniti correranno sul livello
del 3,7 per cento e il Giappone dovrebbe raggiungere il 2,8 per
cento.
A preoccupare gli economisti sono in particolare la domanda interna
che ristagna e la spesa delle famiglie che non decolla. La mancanza
di fiducia aumenta il risparmio a scopo preventivo, che deprime
i consumi. Secondo gli economisti di Deutsche Bank, se i governi
invitano a spendere, ottengono leffetto contrario, dal momento
che la gente pensa che ci sia qualcosa che non va nei conti pubblici.

Tentativi se ne fanno, in diverse direzioni. Il Tesoro francese
ha messo in cantiere la possibilità di rendere più
liquida la ricchezza immobiliare, incoraggiando le famiglie a indebitarsi,
prestando come garanzia la casa. Ci provò qualche tempo fa
anche un ministro dellEconomia italiano, ma venne sommerso
dalle critiche. «Ma dice un senior economist di Bruxelles
usare la propria casa per sostenere il proprio stile di vita
è meno rischioso in America, dove la maggiore flessibilità
del lavoro fa trovare più facilmente unoccupazione».
Unaltra strada è spingere più risparmio verso
la Borsa. Uno studio calcola che i fondi pensione in Francia possiedono
azioni per un valore pari al 5 per cento del Prodotto interno lordo,
mentre quelli americani arrivano a controllarne il 37 per cento,
con ben maggiori possibilità dinfluenzare le scelte
delle imprese verso profitto ed efficienza.
E parliamo infine dellItalia. Con il classico senno del poi,
tanto ipercritico soprattutto da parte di chi è campione
planetario di salto del fosso, si denuncia ora la politica economica
nazionale che ha continuato a favorire lo sviluppo del celebre piccolo
è bello, anche quando un poco ovunque, in Europa e
nellOccidente industrializzato in genere, si era già
capito che la concorrenza, coniugata con la competitività,
esigeva una serie di concentrazioni e di fusioni per la creazione
di imprese di grandi dimensioni.
Che cosa è accaduto da noi, in questi ultimi anni? È
accaduto che abbiamo comprato qualche cosa allestero, ma soprattutto
che siamo diventati una sorta di supermercato nel quale tutti, o
molti acquirenti europei e mondiali, hanno saccheggiato le nostre
imprese. E non soltanto le imprese industriali. Perché non
ci si è mossi per tempo? E perché non si sono incoraggiate
iniziative nella direzione giusta, come indicavano con estrema chiarezza
i comportamenti degli altri Paesi? Perché si è incoraggiata
fino in fondo la strategia delle microimprese e di quelle familiari,
mettendo in un cono dombra una linea politica vigorosa con
lobiettivo di incoraggiare la nascita, la formazione, il rilancio
delle imprese medie, medio-grandi e grandi? Perché, infine,
dopo un abbandono durato più di venticinque anni, non si
è riaperto un discorso in termini moderni sullo
sviluppo del Mezzogiorno, seguendo le esperienze di Paesi come lIrlanda,
come in parte la Germania, come la Spagna e lo stesso Portogallo?
A chi si è pagato il tributo per la tenace costanza di questa
emarginazione?
Non so chi risponderà a queste domande. Allultima,
però, ha dato una risposta oggettiva Giuseppe Galasso: ora
qualcuno afferma che la questione meridionale è ancora aperta;
ma si sarebbe fatto meglio a proclamarlo da tempo, quando sembrava
che di Sud, meridionalismo e questione meridionale non si dovesse
più parlare: «Adesso molti dei sostenitori di queste
tesi hanno cambiato parere e parlano del Sud come se avessero detto
sempre le stesse cose. Perfino nella cronaca politica [...] il Sud
è ridiventato qualcosa: qualcosa sia come necessario oggetto
di misure e interventi particolari e come problema economico e sociale,
sia addirittura di nuovo come competenza di un ministero apposito.
Saggiamente, questultima eventualità ci è stata
risparmiata. È rimasta, invece, lidea che per il Sud
occorra fare qualcosa di speciale, come si diceva una
volta
».
E dunque, che cosa è accaduto? La risoluzione totale di una
politica per il Sud negli indirizzi, nelle scelte e
nella realizzazione della politica generale dellItalia, da
quella interna a quella estera e del commercio con lestero
«non ha trovato accoglienza neppure questa volta. Per coloro
che la auspicano ormai da un quarto di secolo non è neppure
una sorpresa. Sarebbe stata una sorpresa (e quanto lieta!) il contrario».
Più Italia nel mondo globalizzato, era stato detto, volendo
significare che il made in Italy doveva rappresentare lasse
portante della nostra azione. E in nome di questo obiettivo era
stata mobilitata la nostra diplomazia, con direttive precise impartite
a tutti coloro i quali rappresentano il nostro Paese. E non si teneva
conto dellhandicap che stava per penalizzare più dogni
altra cosa proprio il made in Italy, vale a dire il ritardo competitivo
che abbiamo accumulato, specialmente sui mercati emergenti, e che
ci ha posto alla mercé di nuovi e agguerriti concorrenti.
Cecità politica, quella di non mettere in campo lo sviluppo
del Sud, a fronte di quello che di qui a non molto sarà il
nuovo contesto planetario, secondo il quale a condizioni inalterate
gli Stati Uniti continueranno ad essere la principale superpotenza,
seguita dalla Cina, il Paese che per antonomasia ha abbandonato
il suo assetto terzomondista sulla strada delleconomia di
mercato. E nel giro di ventanni altri grandi Paesi, come India,
Nigeria, Sudafrica e Brasile avanzeranno unopzione strategica:
diventare anchessi attori che vogliono concorrere a regolare,
come gli altri, la globalizzazione. Un cartello del genere esprime
alcuni miliardi di persone, e potrà influenzare i destini
del mondo.
LEuropa ha una sola strada: lintegrazione politica deve
diventare realtà, perché tra ventanni ci sarà
un mondo tripolare: gli Stati Uniti da un lato, il polo asiatico
India-Cina-Giappone dallaltro, e lEuropa in mezzo, ma
solo se saprà essere protagonista politica soprattutto nel
bacino del Mediterraneo, dove cè un ruolo da giocare
da parte dellItalia. Che potrà rimanere sulla cresta
dellonda se saprà consolidare la sua economia, senza
emarginazione di territori significativi, influenzando direttamente
due scacchieri di rilievo: la cosiddetta Sponda Sud e i Balcani.
In attesa che faccia il suo ingresso nellUe, anche per merito
di Roma, la Turchia.
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