Oggi il rischio maggiore per lEuropa è
una Germania
unificata
ma debole
e condizionata
da complessi,
che rischia di
diventare una
zavorra per tutta lUnione.
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Secondo un vecchio pregiudizio, i tedeschi amano gli italiani,
ma non li ammirano. E gli italiani ricambiano ammirando i tedeschi,
senza tuttavia amarli. Ma di quali tedeschi si tratta? Di quelli
dellAspirina e del Maggiolone, di Thomas Mann e di Albert
Einstein, della Telefunken e della Mercedes, di Adenauer e di Brandt,
icone classiche del modello germanico, il cui bagliore sembra oggi
appartenere più al mondo dellarcheologia (e della neo-archeologia)
che della realtà. Non per niente lEconomist ha parlato
apertamente di malato tedesco, visto che una delle maggiori
potenze economiche mondiali, che ancora oggi produce il 30 per cento
del prodotto lordo dellUe, non riesce a risalire la china
e a risolvere i problemi interni, tornando ad essere la locomotiva
continentale.
Ci eravamo illusi quando Helmut Kohl aveva promesso «orizzonti
fiorenti», grazie ai quali non tutto sarebbe stato diverso,
ma molte cose sarebbero state migliori (secondo lo Schröder-pensiero).
Dopo quattro anni di stagnazione economica e previsioni che anche
per questanno pronosticano una crescita piatta, con quattro
milioni e mezzo di disoccupati in quel cuore dEuropa, persino
i più ottimisti esprimono non poche perplessità. Persino
il presidente della Diht, lUnione delle Camere di commercio
e industria germanica, sembra aver preso commiato dallarea
renana, visto quanto ha sostenuto: «Non ci aspettiamo una
politica migliore, occorre agire subito per sfruttare le nostre
opportunità imprenditoriali. Dobbiamo investire allestero
e trasferire le catene di montaggio nei Paesi dellEst ultimi
entrati nellUe, e meglio ancora in Cina». Linvito
ha sollevato un vespaio di polemiche, incentrate persino su un presunto
antipatriottismo, smentito dai fatti.
Le imprese tedesche, infatti non avevano alcun bisogno dellincoraggiamento
del rappresentante degli imprenditori per comportarsi in questo
modo. La Siemens, ad esempio, ha ridotto dal 1980 ad oggi il numero
dei dipendenti in Germania da 235 mila a poco meno di 170 mila,
aumentando quelli impiegati in Paesi esteri da 109 mila a 248 mila.
La Volkswagen produce modelli di auto interamente in Slovacchia,
mentre lAudi ha aperto gigantesche catene di montaggio in
Ungheria, e in Polonia sono proprio le aziende tedesche il maggior
datore di lavoro privato.

Secondo unindagine di un istituto economico di Monaco di
Baviera, negli ultimi anni le multinazionali del made in Germany
hanno creato oltrefrontiera circa tre milioni di posti di lavoro:
un processo che non si giustifica soltanto con i forti dislivelli
salariali tra la Germania e i Paesi emergenti. Come si spiega altrimenti
il fatto che in altre nazioni industrializzate, dunque con un costo
del lavoro comunque alto rispetto a Paesi come la Polonia e la Lituania,
il numero dei dipendenti nella old economy è comunque aumentato?
In Irlanda, per esempio, è cresciuto del 25 per cento in
cinque anni, in Finlandia del 12 per cento, in Canada del 6 per
cento, e anche negli Stati Uniti, così allarmati dalla concorrenza
dei salari cinesi, pur sempre di un buon 3 per cento. Il vero dilemma
tedesco resta non tanto quello dei salari troppo alti (sono addirittura
diminuiti mediamente di 100 euro rispetto a dieci anni fa), quanto
quello della sempre maggiore tassazione del lavoro.
Le imposte sociali sugli stipendi lordi (cioè quelle che
servono allo Stato per finanziare pensioni, sussidi per disoccupazione
e sanità) in Germania toccano ormai il 41,3 per cento, contro
il 20,5 del Giappone e l11,2 della Danimarca. Contrariamente
ad altri Stati, la Germania finanzia il suo ancora generoso sistema
sociale quasi unicamente attraverso le imposte sui salari, creando
una pericolosa reazione a catena: più scende il numero dei
lavoratori dipendenti e più aumentano le imposte sulle buste
paga, per compensare le entrate minori dello Stato. In tal modo,
la crescente pressione fiscale fa crescere il costo del lavoro per
gli imprenditori, senza aumentare le entrate dei dipendenti e di
conseguenza i loro consumi. Non ci si deve stupire, pertanto, se
negli ultimi quattro anni gli investimenti degli imprenditori tedeschi
nel loro Paese siano diminuiti di oltre il 12 per cento, e i consumi
interni siano scesi di circa il 3 per cento.
Un altro dato mette in rilievo il forte clima di incertezza: dei
circa 115 miliardi di euro che ogni anno finanziano le regioni dellex
Germania comunista (la DDR), solo 18 miliardi provengono da imprese
private, e il resto dallo Stato, che però finanzia queste
sovvenzioni quasi unicamente con nuovi crediti dalle banche. Il
debito pubblico ha così subìto fortissimi balzi, raggiungendo,
anzi superando il 65 per cento del Prodotto interno lordo. Gli spazi
di manovra per unazione politica volta a una vera riforma
del modello tedesco si fanno sempre più stretti e non bastano
le accorate parole del Cancelliere né le timide e scoordinate
riforme dello Stato sociale contenute nellAgenda 2010 a tamponare
la continua erosione dellintero sistema.
«Quella delleconomia è sempre una morte molto
lenta», si sostiene alla Siemens. La geologia di questa crisi
ha infatti molti substrati, il cui effetto, a volte, può
essere riscontrato soltanto a lungo termine. Intanto, nei settori-chiave
della microelettronica, delle telecomunicazioni, della biotecnologia
e persino della finanza, la Germania non appartiene più al
gruppo del global player. Le spese per la ricerca scientifica sono
inferiori a quelle della Svezia, degli Stati Uniti e della Corea
del Sud. Nelle graduatorie dellOcse sulla qualità della
formazione scolastica e universitaria la patria di Einstein e di
Wilhelm Conrad Röntgen (quello dei raggi X) figura agli ultimi
posti ed è superata dallItalia e persino dal Portogallo,
che al momento del suo ingresso nellUnione europea era un
Paese dalleconomia praticamente arcaica.
Il paradosso, dunque, è questo: oggi il rischio maggiore
per lEuropa non è quello di una rinata superpotenza
economica e politica egemonizzante di Berlino, tanto temuta da Margareth
Thatcher dopo il crollo del Muro e la riunificazione delle due Germanie
emerse dal secondo conflitto mondiale, quanto il contrario, una
Germania unificata ma debole e condizionata da complessi, che potrebbe
reagire in modo incontrollabile alle incerte sfide del futuro. E
che rischia di diventare una zavorra per tutta lUnione.
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