Il nanismo
industriale si sta consolidando
e mentre le grandi imprese calano, non crescono le
Piccole e medie imprese che
rappresentano gran parte del
sistema industriale nazionale.
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Le analisi pessimistiche sulle prospettive della grande industria
italiana trovano continue conferme nelle statistiche sugli indici
economici. Anche nelle dichiarazioni di esponenti delle istituzioni,
al di là degli atteggiamenti di facciata, si percepiscono
preoccupazioni largamente condivise.
Tra le varie ragioni, rilevante il consolidamento di una situazione
mondiale che vede lEuropa crescere molto lentamente a fronte
delle alte performances delleconomia americana e di quella
asiatica, e con lItalia certamente non brillante nel Vecchio
Continente, a confronto, ad esempio, con la Francia. Questa situazione
fa lievitare, fra laltro, il numero degli euroscettici e spinge
i governi leader europei a chiedere modifiche a trattati e a norme
forse troppo rigidi per coniugare stabilità e sviluppo. Anche
il progressivo allargamento dellUe, mentre accende molte speranze
nelle nazioni new entry, provoca parallele preoccupazioni tra diverse
componenti delle società nei Paesi fondatori.
Lasciando da parte i consueti indici e dati su fatturati, occupazione,
import-export, e via di seguito, ai fini della nostra analisi riteniamo
che una valutazione sintetica del mercato borsistico offra una fotografia
significativa delle caratteristiche e delle tendenze in atto, insieme
con i loro effetti attuali e futuri.
Allinizio del 2005, le aziende quotate che hanno una capitalizzazione
superiore ai 5 miliardi di euro sono 24, di cui 12 banche e assicurazioni,
mentre le altre possono essere classificate come industriali con
una definizione allargata; di queste ultime, 4 operano nel settore
energetico, 4 nella produzione di beni e 4 nella produzione di servizi
vari. Per una capitalizzazione inferiore, ad esempio di 2 miliardi
di euro, non cambia sostanzialmente il rapporto tra aziende finanziarie
e industriali e tra queste ultime fra produttrici di beni e servizi.
Per quelle di dimensioni minori e non quotate, i rapporti cambiano
totalmente, perché sono quasi scomparse le aziende finanziarie
e assicurative di piccole dimensioni.
Una prima riflessione sul quadro descritto ci sembra consolidare
una diffusa valutazione sul fatto che negli ultimi anni, anche per
le maggiori attenzioni dei governi, il sistema finanziario si sia
strutturato decisamente meglio di quello industriale, almeno in
termini dimensionali, ma non solo.

Tra le aziende industriali quotate e quindi medie e grandi è
significativa la prevalenza di quelle che producono servizi rispetto
a quelle che producono beni tradizionali. È altrettanto significativo
il fatto che lapprezzamento della Borsa, misurato con lincremento
di valore dei titoli, è più alto per le banche, mentre
tra le aziende industriali sono decisamente apprezzate quelle che
realizzano il proprio fatturato con bollette garantite
da mercati a concorrenza quasi inesistente. E così le stars
della Borsa sono, negli ultimi tempi, aziende come le multiutilities
di Bologna o Trieste connotate da maggioranze pubbliche e le cui
performances derivano principalmente dallaumento delle tariffe
dei servizi forniti oltre il tasso dinflazione. Come esempio
di mercato libero ed etico non cè che dire!
Altro argomento di riflessione è quello che vede ampiamente
apprezzate, spesso anche più delle case-madri produttrici,
le aziende distributrici di elettricità ed energia, quali
Terna e Snam Rete Gas. Emerge quindi dal quadro borsistico una chiara
tendenza verso il terziario che, in prima approssimazione, è
al riparo dalla concorrenza internazionale, mentre le poche aziende
industriali apprezzate sono quelle di grandi dimensioni e con decisa
connotazione quali Eni, Luxottica e Finmeccanica. Lattenzione
degli investitori verso il terziario nazionale si sposa con quella
verso il sistema delle banche, che, oltre ad unefficienza
generalizzata, si connotano con una tendenza il più possibile
nazionale.
La stessa filosofia che sta alla base dellimpostazione borsistica
ci sembra quella che ha alimentato il boom del settore edilizio,
anche questo al riparo dalla competizione internazionale e tipico
bene-rifugio. Gli indirizzi degli investitori hanno anche una componente
derivata dalla natura di un popolo per tradizione vocato più
ai commerci e alla finanza che allindustria produttiva, ma
sono, per gran parte, un effetto della situazione economica del
Paese.
Il nanismo industriale si sta purtroppo consolidando e mentre le
grandi imprese produttrici nel primario e nel secondario calano
(come nei recenti casi Parmalat e Cirio, compresa la Fiat quasi
in caduta libera) non crescono le Piccole e medie imprese (Pmi)
che, da sole, rappresentano gran parte del sistema industriale nazionale.
Le difficoltà delle grandi aziende sono sempre dattualità
(cronache del caso Alitalia, lasta della Lucchini disertata
dagli italiani, crisi dellacciaio magnetico di Terni della
Tyssen-Krupp). E la Fiat, nome mirabile di unazienda emblematica,
stenta ad uscire da una palude che è stata originata da unimpressionante
sequenza di errori della proprietà, del management, del sindacato
e delle forze politiche e istituzionali che pure vi hanno indirizzato
fiumi di denaro pubblico. E così oggi, per ironica nemesi,
come in Italia tra le poche ed efficienti aziende di grandi dimensioni
vi sono le ex pubbliche Enel, Eni e Finmeccanica, nel panorama automobilistico
europeo sono in migliori acque della Fiat le aziende a partecipazione
pubblica Renault e Volkswagen.
Le crisi Fiat e Alitalia pongono anche un problema politico strategico
di grande spessore: è utile per il Paese avere buoni servizi
aerei e buone auto fornite da qualsiasi produttore internazionale,
oppure difendere, anche in modo difficile e oneroso, le proprie
aziende nazionali? È un quesito non facile per gli italiani.

In carenza di un efficiente (e attraente) sistema di grandi industrie
abbiamo visto le scelte degli investitori orientate al terziario
e alledilizia. Questultimo settore merita alcune riflessioni
aggiuntive in considerazione dei ritmi notevoli di crescita, per
la durata del boom e per lattrazione che ha esercitato su
molti operatori anche non specialisti del settore. Si sono moltiplicate
le aziende immobiliari a ritmi impressionanti, così come
sono cresciute le costruzioni e specialmente i prezzi di vendita,
e il boom, favorito da diversi fattori e soprattutto dalla forte
riduzione del costo del denaro, sta durando oltre ogni ragionevole
previsione, e dà molto lavoro alle aziende del settore e
a quelle collegate.
Le famiglie italiane, per tradizione orientate alla proprietà
delle case in cui vivono e di quelle delle vacanze, si trovano,
forse anche senza essersene accorte, molto più ricche a livello
patrimoniale perché i prezzi degli immobili da loro posseduti
sono aumentati a livelli molto più alti di quelli inflattivi.
In termini di economia nazionale, i flussi maggiori delle ricchezze
sono andati a favore della speculazione più che alle industrie
del settore. La stabilità demografica in Italia, insieme
alla bassa crescita economica, porrà fatalmente un termine
alla crescita dei prezzi e dei volumi di costruzioni e porrà,
purtroppo, ulteriori problemi per leconomia del Paese.
Lesigua presenza di grandi aziende, cioè il nanismo
industriale italiano, porta a cascata a molte carenze
e disfunzioni nel sistema. In primo piano, da diversi anni, è
la perdita di competitività del sistema industriale causata
dallinsufficienza di attività di ricerca e sviluppo
che, in gran parte, viene svolta dalle macro-aziende, come deriva,
da questo, anche la scarsa presenza internazionale quasi impossibile,
per via della bassa massa critica, per le piccole e medie imprese.
Lalto costo dellenergia, la caotica politica ambientale
e lostilità ormai generalizzata verso settori industriali,
quali la chimica, sono elementi negativi anche per le Pmi nazionali,
a cui viene a mancare il supporto tecnologico essenziale delle grandi
industrie, ed è causa del basso livello di investimenti stranieri
in Italia.
Tutto ciò conduce a una riflessione sui rapporti tra politica
ed economia, e in particolare con lindustria. Il collegamento
tra situazione economica e azione politica delle istituzioni non
ci sembra proponibile, almeno in modo così diretto e temporalmente
coincidente, quale viene oggi presentato nellesasperato dibattito
politico tipico oggi del nostro Paese.
Va ribadito che, in uneconomia libera come la nostra, la classe
imprenditoriale è, nel bene e nel male, la principale responsabile
della struttura e della salute delle imprese. I problemi del settore
industriale sono sempre legati ad effetti di decisioni e comportamenti
di medio e lungo periodo, e non attribuibili semplicemente a questo
o a quel Governo. Le ampie privatizzazioni degli anni Novanta hanno
poi ridotto le potenziali leve di intervento dei governi sulleconomia,
comè avvenuto anche con lingresso nella Comunità
europea.
Ciò premesso, in molti settori industriali rimane essenziale
leffetto degli atteggiamenti delle istituzioni verso le nostre
politiche industriali. A tale riguardo, ci sembra prevalere nelle
forze politiche nei riguardi dei problemi industriali sia un distacco
dovuto ad atteggiamenti liberisti di non interferenza nelle strategie
industriali nazionali sia un eccessivo interventismo a livello locale.
Nei partiti, a livello nazionale e a differenza del passato, mancano
organismi strutturati ed esperti che studino i problemi con continuità
e forniscano quindi agli eletti e agli amministratori un supporto
adeguato alle decisioni che devono affrontare nelle varie istituzioni.
La frammentazione dei partiti accentua la confusione sulle decisioni
strategiche e contribuisce alla mancanza di disciplina e coerenza
ai diversi livelli decisionali. È comune, ad esempio, che
nelle sedi periferiche le forze politiche adottino decisioni contrastanti
con le direttive espresse dagli stessi partiti a livello nazionale,
specialmente per le politiche ambientali.
Ecco allora il verificarsi, in specifici settori, uno stretto legame
tra politica e industria, rapporto che, basato sulla ricerca di
consensi elettorali e non su ragioni strategiche, ha danneggiato
il Paese. Ci riferiamo alle attività energetiche e ambientali,
e anche a quelle del settore chimico e delle infrastrutture quali
vie di comunicazione, elettrodotti e sistemi di telecomunicazione.
In questi settori il clima ostile alle realizzazioni è alimentato
anche dai mass media e dal proliferare di comitati di cittadini
e porta ad una generale crescita di atteggiamenti anti-industriali:
mentre vengono emarginati tecnici e specialisti le cui opinioni
sono ignorate e disattese.

In questa analisi dei problemi della grande industria nazionale
abbiamo finora elencato cause essenzialmente strutturali risalenti
sia a periodi lontani sia allultimo decennio del Novecento.
Vediamo ora alcune situazioni degli ultimissimi anni che preoccupano
particolarmente il mondo dellindustria: ci riferiamo al problema
della Cina e al cambio euro-dollaro.
La sfida cinese preoccupa molto e non a torto gli
imprenditori italiani di alcuni settori merceologici e di alcune
aree geografiche come il Nord-Est, le Marche, la Puglia. I settori
merceologici più interessati sono quelli delle calzature,
degli occhiali e del tessile, ove sono già presenti in modo
significativo prodotti cinesi caratterizzati da basso costo, qualità
accettabile e forte imitazione, se non son proprio copie esatte
dei modelli nazionali: ulteriori timori sono originati dalla crescita
della produzione cinese in altri settori quali lagricoltura
(ortofrutta in particolare) e lelettronica avanzata.
Lattuale sfida cinese è, pur su scala maggiore, simile
a quella giapponese degli anni Sessanta, che si esaurì in
parte per la crescita del costo del lavoro locale e lapprezzamento
dello yen, e che fu combattuta (principalmente dagli Stati Uniti)
con un forte impulso alla ricerca tecnologica nei settori dellelettronica
e dellinformatica: in sintesi, con lo sviluppo del capitalismo
cognitivo. Lattuale sfida cinese è più
pericolosa per le dimensioni del Paese, che però è
anche più aperto alla collaborazione in molti settori e allimportazione
di beni. Ad esempio, è singolare la situazione Usa, ove unalta
percentuale di prodotti importati dalla Cina è prodotta da
multinazionali americane quali Nike o Motorola, che da anni operano
con successo in quel Paese.
Ecco allora una ricetta applicabile anche per noi e basata sulla
ricerca di accordi commerciali e produttivi con le realtà
cinesi, privilegiando i settori ricchi di tecnologia e contenuti
scientifici: esiste sicuramente uno spazio privilegiato per i Paesi
europei nei riguardi del Giappone per motivi storici evidenti e
nei riguardi degli Stati Uniti per più attuali ragioni di
leadership mondiale. Questo approccio economico deve trovare applicazione
sempre più ampia, dopo le prime esperienze, anche nei rapporti
con lEuropa dellEst, che pone e porrà alla nostra
industria problemi abbastanza simili a quelli cinesi.
Laltro problema che angustia il nostro sistema industriale
è quello del cambio euro-dollaro: i valori raggiunti e apparentemente
consolidati (malgrado le montagne russe) sono considerati
da tutti molto negativi per la competitività delle nostre
esportazioni. Così litaliano medio, convinto da sempre
e in particolare dallentrata delleuro che erano passati
i tempi bui della liretta e dellinvidia nei confronti del
marco tedesco, fatica a capire i lamenti per quanto sta avvenendo
ora che, finalmente, ha anche lui in tasca una moneta forte.
Sono ovviamente evidenti le difficoltà competitive sul mercato
del dollaro e su quello delle monete ad esso allineate, come logica
è laccresciuta competitività delle merci prodotte
in quelle aree. Ci sembrano però del tutto sottovalutati,
almeno dai commentatori, i vantaggi che ha il basso valore del dollaro
per uneconomia, come la nostra, che importa quasi tutte le
materie prime ed energetiche quotate quasi sempre in dollari sul
mercato planetario. Così, ad esempio, se le nostre importazioni
annuali di olio e di gas fossero pagate con un rapporto euro/dollaro
di 0,85, quale era in un passato recente, invece dellattuale
medio 1,30, il maggiore onere per la nostra bilancia dei pagamenti
sarebbe stato di circa 8 miliardi di euro; lo stesso calcolo, riferibile
a quasi tutte le materie prime importate, porterebbe a dati non
trascurabili e comunque degni di un minimo di riflessione da parte
di molti.
Se torniamo al tema generale, non possiamo non porre attenzione
alle possibili azioni che contrastino le varie e purtroppo numerose
indicazioni negative sul futuro della grande industria nazionale.
In riferimento al rapporto tra economia e politica, riteniamo che
occorra una riflessione profonda con conseguente ritaratura sul
ruolo, ancora così importante e in crescita in alcuni settori,
della presenza pubblica nelleconomia. Fondamentalmente, le
privatizzazioni vanno orientate al raggiungimento di obiettivi strategici
per il Paese e non per soddisfare esigenze finanziarie dello Stato
prima, con le privatizzazioni delle grandi aziende, e dei Comuni
ora con quelle delle municipalizzate. In questultimo settore,
lobiettivo societario va riorientato verso labbassamento
delle tariffe e va recuperata efficienza attraverso la semplificazione
di strutture mirate ora a soddisfare esigenze occupazionali e incarichi
per tanti politici.
Nelle grandi aziende quali Enel, Eni, Finmeccanica, va rivitalizzato
il ruolo dellazionista Stato rappresentato dalla golden share,
intervenendo non sulla gestione e neanche, secondo antiche abitudini,
sulle nomine, ma sulla definizione e realizzazione di obiettivi
strategici in cui è sicuramente possibile coniugare, anche
per lalta qualità delle strutture e del management,
risultati economici e interessi del Paese. E così, mentre
lEnel e lEni vanno protette con maggior decisione dalleccesso
di vincoli localistici e da esasperate politiche ambientaliste,
Eni deve essere invitata decisamente a cambiare rotta sulle strategie
di uscita dalla chimica e sullesasperata politica di delocalizzazione
delle attività. Per queste e per molte altre ragioni ci sembrerebbe
utile il trasferimento del controllo dello Stato, attuato attraverso
la gestione della presenza azionaria, dallipertrofico ministero
dellEconomia a quello dellIndustria, opportunamente
potenziato.
In queste considerazioni generali sullindustria italiana,
ove certo è più facile individuare carenze che elementi
positivi, e quindi è agevole criticare più che suggerire,
riteniamo meritino maggiore attenzione per gli obiettivi strategici
nazionali, più di quanto fino ad ora avvenuto, le attività
del mondo cooperativo.
In vari settori industriali le aziende cooperative si presentano
sia in crescita dimensionale che di profittabilità, e dunque
di autonomia, realizzando un buon affrancamento dai legami partitici
che in passato ne hanno appesantito le strutture e impedito sia
la crescita manageriale che lo sviluppo di politiche industriali
al passo con i tempi.
Oltre alla tradizionale e per certi versi insostituibile presenza
nel sociale e nellassistenza, oggi le aziende cooperative
hanno importanti trend di crescita in settori industriali carenti
di iniziative private. La presenza massiccia nella grande distribuzione
organizzata, caratterizzata sia da partnership internazionali che
da innovative filosofie, come la distribuzione di prodotti con i
propri marchi di produzione, è indice di unadeguata
visione strategica. Così lorganizzazione delle filiere
agroalimentari, la presenza internazionale e i salvataggi di aziende
private gestite con disinvoltura sono elementi da valutare in modo
decisamente positivo nel nostro scenario industriale.
In Italia, dove è carente unimprenditoria capace di
costruire e gestire sistemi di grandi imprese e dove è pure
carente per ragioni storiche il ruolo proprietario di banche e di
istituzioni finanziarie di vario tipo, è doveroso cercare
altre strade per realizzare obiettivi strategici irrinunciabili
per il Paese, anche con lattenzione rivolta ad un mondo cooperativo
moderno e coerente con le strategie di sviluppo.
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