La lezione
francese funziona in negativo: se è sbagliato ridurre per
tutti gli orari, è altrettanto
sbagliato
aumentarli
dallalto per
chi lavora.
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La Francia abbandona le 35 ore nel tentativo di ridurre il proprio
tasso di disoccupazione a due cifre, e in Germania si siglano accordi
aziendali in cui si allunga lorario di lavoro per non spostare
impianti e produzioni altrove. Archiviato il lavorare meno,
lavorare tutti, volenti o nolenti dobbiamo rassegnarci a un
assai meno accattivante lavorare di più, per lavorare
tutti? Cè chi sostiene che non sia proprio detto.
Specie in Italia, dove ci sono forti asimmetrie negli orari di lavoro
e dove molti non lavorano del tutto (e altri non riescono a lavorare
per niente), si potrebbero creare più lavori senza necessariamente
far lavorare di più chi un lavoro ce lha già.
Sostengono costoro: se sapremo meglio coordinare le esigenze di
orario flessibile di lavoratori e imprese diverse e riconciliare
lavoro e responsabilità familiari, potremo anche aumentare
il benessere di chi lavora a parità di salario: «Bene
che il sindacato si attrezzi a questo compito. Ha un ruolo sociale
importante da giocare nel migliorare il modo con cui riusciamo a
distribuire il nostro tempo fra lavoro, famiglia e tempo libero».
La Francia ha voltato pagina perché una riduzione generalizzata
dellorario di lavoro distrugge molti posti di lavoro. I transalpini
se ne sono resi conto non appena i vincoli di bilancio hanno obbligato
il governo a rimuovere gli incentivi allimpiego che avevano
attutito gli effetti negativi sulloccupazione delle 35 ore.
Prima di introdurle, i politici francesi avrebbero fatto bene a
ricordare cosera accaduto nel 1982, quando Mitterrand aveva
ridotto dimperio lorario per tutti da 40 a 39 ore: le
imprese avevano reagito tagliando i posti di lavoro.

La lezione francese funziona in negativo, come errore da non ripetere
sia in un senso che nellaltro: se è sbagliato ridurre
per tutti gli orari, è altrettanto sbagliato aumentarli dallalto
per chi lavora. Perché in Italia ci sia tanto lavoro pro
capite quanto negli Stati Uniti (dunque, a parità di produttività,
lo stesso reddito pro capite) basta far lavorare chi oggi, contro
la sua volontà, non ha un impiego. Oltre tutto, nel nostro
Paese ci sono forti asimmetrie nella distribuzione degli orari fra
chi lavora a tempo pieno. I lavoratori autonomi, ad esempio, lavorano
47-48 ore alla settimana, e molti lavoratori atipici più
di 50 ore (chi diceva che gli italiani sono pigri?), contro le 35
ore di molti lavoratori dipendenti. Se ci fosse una distribuzione
meno asimmetrica degli orari, anche il fatto di avere un coniuge
che lavora non ci impedirebbe di avere tempo libero da passare insieme.
Cè però chi sottolinea che la ripartizione della
ricchezza nazionale ha favorito, negli ultimi anni, i redditi da
capitale rispetto a quelli da lavoro. E i primi, comè
noto, sono tassati meno dei secondi. La Confindustria risponde sostenendo
che a unimpresa che non innova con salari bassi è da
preferire una più dinamica con retribuzioni alte. Insomma,
tutto dipende dalla produttività (soprattutto nei settori
esposti alla concorrenza) e dalla capacità di unazienda
di tenere il mercato. I casi brillanti sono numerosi, ma la media
della nostra industria è in tuttaltre condizioni. Il
pubblico impiego, poi, da tempo ha dinamiche salariali superiori
al tasso dinflazione.
In un Paese con tante imprese vicine alla marginalità e poche
ad alto valore aggiunto e tecnologicamente avanzate, con il cambio
fisso e con la concorrenza spietata dei Paesi emergenti e neo-comunitari,
cè ben poco da dividere. E molto da comprimere, se
si vuol salvare qualche posto di lavoro. Il dibattito è aperto
e i casi tirati in ballo sono esemplari. Poco tempo fa, ad esempio,
la Siemens ha concluso un accordo significativo con il sindacato
dei metalmeccanici Ig-Metal, più duro della Fiom. In cambio
di un aumento della settimana lavorativa a 40 ore, la multinazionale
tedesca non trasferirà in territorio ungherese alcune attività.
In sintesi: nel breve spazio di un mattino si è passati dal
possibile scambio fra minore orario e un maggiore tasso di occupazione
(incerto) a quello fra una settimana di lavoro più lunga
per scongiurare la perdita (certa) di posti di lavoro trasferiti
altrove.
Accadrà la stessa cosa anche nel nostro Paese? La globalizzazione
dei mercati e lallargamento dellUnione europea rendono
più visibili le differenze fra le ore lavorate e il costo
del lavoro per unità di prodotto in Italia e negli altri
Paesi. Gli europei è stato notato lavorano
meno degli americani. Ed è vero. Uno studio dellUniversità
Bocconi rileva che la prestazione annua per lavoratore occupato
è in Italia di 1.619 ore contro le 1.724 degli Stati Uniti,
ma anche, per esempio, le 1.766 dellUngheria, le 1.979 della
Slovacchia. La retribuzione media è di 28 mila euro lanno
in Italia, di 34 mila in Francia, di 25 mila in Spagna, e scende
a 8 mila 950 in Ungheria, 7 mila 96 in Polonia, 6 mila 30 in Slovacchia.
Di fronte a queste cifre, batte in ritirata il vecchio slogan cislino
lavorare meno, lavorare tutti. Oggi si dovrebbe dire
lavorare di più per non lavorare in meno e per
non distorcere ancora più radicalmente il mercato delloccupazione
nel Belpaese.
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