Il vero problema del nostro mercato del lavoro
resta quello del
dualismo tra
lavoro regolare
e lavoro nero.
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Una conferma della necessità di attuare le riforme, senza
ulteriori perdite di tempo: questo, il messaggio per il nostro Paese
che emerge dal Rapporto Ocse che riguarda loccupazione. Il
tasso occupazionale italiano rimane ancora eccessivamente basso:
ha un posto di lavoro soltanto il 56 per cento della popolazione
in età lavorativa.
La media Ocse, per contro, si attesta attorno al 65 per cento, e
Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, lOlanda
e la Svezia si collocano addirittura oltre il 70 per cento. Troppo
poche persone concorrono dunque, nel nostro Paese, allo sviluppo
della società e alla formazione della ricchezza.
È certamente vero che, grazie alle recenti riforme del mercato
del lavoro, lItalia ha registrato una delle maggiori performances
in area Ocse, raggiungendo una crescita delloccupazione pari
a 4,6 punti percentuali. Ma ancora non basta, perché la bassa
dotazione di capitale umano, resa ancora più evidente dal
confronto con i principali competitori europei e internazionali,
frena drasticamente le immense potenzialità di sviluppo della
nostra economia.

Esiste sicuramente anche il problema della qualità del lavoro
creato negli ultimi anni, con un effetto negativo sulle prospettive
di crescita professionale e sulla produttività. Il Rapporto
Ocse segnala, infatti, il rischio della proliferazione di forme
di lavoro atipico e precario a fronte di livelli troppo elevati
di protezione contro i licenziamenti senza giusta causa. È
il noto dualismo tra insider e outsider, reso particolarmente accentuato
in Italia dalla presenza di un regime di reintegrazione nel posto
di lavoro quello dellarticolo 18 dello Statuto
che non trova eguali negli altri Paesi. Le tutele di chi ha la fortuna
di stare nella cittadella del lavoro protetto rischiano così,
in assenza di unoperazione di riallineamento, di diventare
vere e proprie barriere allingresso nel mercato del lavoro
delle fasce più deboli. E questo spiegherebbe anche i bassissimi
tassi di occupazione di giovani, di donne, di over 50. Tuttavia,
il vero problema del nostro mercato del lavoro resta quello del
dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero. Secondo gli analisti
più attenti, si tratta di unemergenza nazionale che
coinvolgerebbe (come dicono le stime più accreditate) un
vero e proprio esercito di lavoratori: oltre quattro milioni di
persone che operano al di fuori delle regole di tutela del lavoro,
ma anche delle logiche che sono chiamate a governare una leale competizione
tra le imprese.
Ad alimentare questo fenomeno, oltre al cattivo funzionamento del
mercato del lavoro e alle storiche condizioni di sottosviluppo di
una parte significativa del nostro Paese, concorre senza alcun dubbio
un sistema contributivo distorto, che penalizza decisamente il fattore
lavoro. LItalia è caratterizzata dalle aliquote contributive
più elevate di tutti i Paesi europei, aliquote che per il
lavoro dipendente raggiungono il 32,7 per cento, contro il 16,5
per cento della Francia, il 19,10 per cento della Germania, il 21,90
per cento del Regno Unito e il 21,63 per cento della media Ue. È
evidente come questo netto divario costituisca uno dei maggiori
ostacoli allo sviluppo delleconomia e delloccupazione
regolare. Questa, certamente, è una delle principali ragioni
dellabnorme dimensione del lavoro irregolare, che pure può
essere visto come un sintomo della vitalità e delle enormi
potenzialità del nostro Paese.
Il lavoro sommerso ed è questo laltro importante
messaggio contenuto nel Rapporto rappresenta infatti unarea
importante di sottoimpiego del capitale umano che va al più
presto riconsegnata alleconomia formale e istituzionale. Non
solo il mercato del lavoro risulterebbe più equo e coeso,
ma verrebbero anche rese disponibili quelle risorse necessarie a
superare i dualismi tra lavoro stabile e lavoro precario mediante
un progressivo riallineamento delle aliquote contributive. Secondo
le stime Ocse, il gettito effettivo dei contributi sociali sarebbe
infatti inferiore del 20 per cento rispetto al gettito potenziale:
una cifra comparabile a quella stimata per la Turchia e molto al
di sopra di quella dei restanti Paesi Ocse.
È fuori discussione: non esistono ricette magiche. Ma dovrebbe
essere ormai ben chiaro che i quattro milioni di lavoratori in nero
e laltrettanto imponente esercito di lavoratori a bassa contribuzione,
mediante schemi contrattuali il più delle volte di dubbio
utilizzo, non possono essere realisticamente governati soltanto
mediante unimponente campagna repressiva. Le dimensioni del
fenomeno sono una chiara spia delle disfunzioni di un quadro regolatorio
che non sembra in grado di gestire e regolare i cambiamenti nellorganizzazione
del lavoro e nei modi di produrre ricchezza.
È vero, infatti, che il lavoro nero è stato fino ad
oggi ampiamente tollerato non solo in ragione di un improprio pragmatismo,
ma anche in virtù dellassurdo ideologismo di chi lo
considera il prezzo inevitabile di un mercato del lavoro condannato
a rimanere rigido, in omaggio alle conquiste dellepoca
fordista e al ruolo politico di alcuni attori sociali. E questo,
anche a costo di pagare un prezzo elevato sul piano delleffettività
del quadro regolatorio. Gli scenari della nuova economia e della
competizione internazionale non consentono tuttavia, e fortunatamente,
di proseguire su questa strada compromissoria, che non giova né
ai lavoratori né al sistema economico nel suo complesso.
Unulteriore conferma che soltanto le riforme possono prevenire
i rischi di destrutturazione e di deregolazione strisciante del
mercato del lavoro, e guidare il mutamento in atto nei rapporti
economici e sociali, alla ricerca di nuovi equilibri più
efficaci e sostenibili e, di conseguenza, di nuove sicurezze.
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