Alcune università hanno deciso
di istituire corsi
di italiano,
nel tentativo
di colmare le
gigantesche lacune di molti studenti alle prese
con problemi
di ortografia.
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Riecheggiamo: in principio era la parola. Ora stenta, dopo tutto,
ultima. C’era la scuola. Ormai finge di esistere, sommersa
dal dilagante analfabetismo di ritorno. Il sistema telematico, dal
canto suo, continua a sedurre gli smarriti esuli dell’istruzione:
convinti di essere toccati dalla grazia, hanno fra le mani soltanto
uno strumento. Sparita quasi la parola scritta, si aspira a dissiparne
la memoria. La demolizione dell’intero ciclo scolastico, con
conseguente scomparsa dell’esame di maturità (ogni estate,
nella luce complice, si celebra una triste parodia) e con la nascita
della laurea nana, innalzata al nebuloso biennio, ha condannato
senza appello la conoscenza e il culto della parola nel suo infinito
creare la realtà in sintonia con l’onda del pensiero.

Intanto: che cosa leggiamo? Quel che non è scelto, ma imposto,
in tante circostanze. Le parole che cadono spesso sotto gli occhi,
se si frequentano i quotidiani e i settimanali più diffusi,
e persino se si ascoltano la radio e la televisione: peace keeping,
outing, dream team, docking station, restyling, briefing, meeting,
body building, news, single, beach soccer, early warning, border
line, stand-by, sound & light system, genius, premium, think-tank,
spamming, privacy… E abbiamo ormai digerito parole come show,
shopping, spray, game, final four, regular season, e centinaia di
altre parole che hanno invaso la nostra lingua dove raramente il
dolce sì suona, sostituito dal più moderno okay, mentre
l’aut aut si identifica nell’out out, e l’avvertimento
preliminare o la missione di pace sono trasformati in early warning
e in peace keeping, e mentre tanti di noi si lasciano cadere nel
più tetro sconforto al cospetto di un think-tank che Dio
solo sa come si traduce o che cosa voglia dire.
Sempre più globalizzati, sempre più ingabbiati nella
veicolare lingua ormai anglo-americana, i giovani «non avvertono
più il bisogno di interpretare i segni del linguaggio e ne
decretano così anche la fine delle strutture».
Scomparso l’amore della scrittura, le antiche corrispondenze
fra persone sono materiale archeologico, il postino recapita ormai
soltanto avvisi di pagamento e materiale pubblicitario. Il presente
non ha alcuna vertigine, disancorato dalle sue radici. Riverbera
scialbe luci e sterili ombre con lo zapping. È in circolazione
un lessico «esiguo, omologato e modesto, appena sufficiente
per la sopravvivenza.

C’è chi nello schermo freddo di un computer crede di
vedere il secondo orizzonte delle cose e chi trova nel meccanico
tasto di un cellulare (relitto rumoroso dell’infanzia) l’occasione
di rendere fisica l’anima. E siamo in un gotico incubo di emoticons».
Così Giuseppe Amoroso, secondo il quale sicuramente qualcuno
sfugge all’occhiuta virtù di queste forme vane i cui
molti guasti non finiscono a questo punto: dall’e-mail alla
chat, è una valanga di linguaggi automatici, a volte simbolici
fino all’osso, altre volte eloquenti e macroscopici (dal computerese
all’internettese).
E c’è chi allarga l’orizzonte delle rovine, sostenendo
che siamo ormai infettati dalla dequalificazione del linguaggio
di intrattenimento e da una generale sciatteria. Un cambiamento
linguistico è fisiologico, perché chi parla e chi
scrive modifica la lingua in base alla situazione comunicativa,
agli scopi, alla propria personalità. Ma quel che non è
accettabile è l’impoverimento della lingua, la banalità
comunicativa che è fenomeno culturale. Perciò, si
possono accettare alcuni anglismi (ma soltanto alcuni) entrati nell’uso
comune, ma non è possibile aumentare le pagine del nostro
vocabolario del trenta o del cinquanta per cento per venire in soccorso
di chi non sa più usare correttamente la propria lingua,
ricorre ad una lingua monosillabica, si esprime per sms. Con risultati
che sono stati così riassunti: abbreviati segnali crocifissi,
trascrizioni fonetiche alla buona, ideofoni fumettistici, ellissi
senza fantasmi e senza poesia. Cioè «scheletri inumati
in una piccola bara luminosa, in un’enfatica teca del silenzio,
impastati di presente, messaggi con risposte preconfezionate, che
protraggono l’inganno di un dialogo muto, senza neppure l’alibi
di un sogno».
Voliamo rasoterra, dalle parti dell’“itagliano”.
Una massaia sarebbe un ammasso di qualcosa. Laconico vuol dire amaramente
ironico. Limiti di ragazzini delle elementari? No, sono risposte
di studenti universitari. Chi stenta a credere, vada a leggersi
il tascabile Dizionario delle parole difficili, di Paola Sorge.
Vi trova termini come abbaglio, ballottaggio, canterano, deroga,
epigramma, fola, graffito, illazione, latitante, mugugno, necropoli,
omelia, postilla, querela, ragguaglio, sproloquio, tracotanza, ubicazione,
vilipendio, zizzania, (tanto per citare un vocabolo per ciascuna
lettera dell’alfabeto): parole, cioè, che dovrebbero
essere d’uso comune, ma il cui significato irrimediabilmente
sfugge alla maggioranza dei giovani. Il fenomeno ha raggiunto livelli
così preoccupanti, che alcune università hanno deciso
di istituire corsi di italiano, nel tentativo di colmare le gigantesche
lacune di molti studenti alle prese con problemi di ortografia,
ma anche di sintesi di un discorso, visto che non sono in grado
di fare il riassunto di un qualunque brano di narrativa.

Cartina di tornasole, gli esami di abilitazione professionale in
cui emergono le difficoltà di futuri avvocati, notai, commercialisti,
eccetera. Lo studente medio, rispetto a quello di trent’anni
fa, ha un vocabolario molto più ristretto ed è molto
meno colto, lamenta il presidente del Consiglio nazionale forense
e docente di Diritto Civile. Agli esami di abilitazione per procuratore
legale i compiti sono infarciti di errori, e niente punteggiatura
né congiuntivo, sottolinea il direttore della Scuola del
Notariato del Triveneto, per il quale gli imputati non sanno andare
a capo e hanno scarsa capacità di argomentare: a rimetterci
è la qualità professionale.
E i giornalisti? Notte fonda, parola del presidente dell’Ordine
Nazionale, secondo il quale agli esami per diventare professionisti
il livello è davvero medio-basso: estrema difficoltà
nello scrivere, errori di ortografia e di sintassi, nessun gusto
per la qualità; e, malgrado questo, ci si trova di fronte
ad elementi presuntuosi e saccenti. La civiltà della parola
scritta e pensata, la civiltà che ha al suo apogeo i libri
e la memoria culturale, la civiltà in cui sapere di che cosa
si sta parlando è profondamente diverso dal fare danni con
la penna o rumore con la bocca: ecco che cos’è sotto
assalto, a rischio di uno tsunami disgregatore.
Non a caso alcune ricerche internazionali collocano l’Italia
piuttosto in basso nella classifica sui livelli di apprendimento:
lo studente italiano di nove anni viene dopo il lettone, il bulgaro
e il greco; e quello di quindici è al ventesimo posto, ben
al di sotto della media. Sicché il linguista Tullio De Mauro
può lanciare un allarme preoccupante: nel Belpaese circa
15 milioni di uomini sono semianalfabeti e altrettanti rischiano
di ripiombare nella stessa condizione.
Colpa della scuola, si dice. Come se non si sapesse che un insegnante
ha a disposizione poche ore per l’italiano, la storia, la geografia,
cui le anime belle della politica e i genitori desiderosi di ulteriori
parcheggi dei figli vorrebbero aggiungere lo studio della segnaletica
stradale, l’educazione sessuale, gli studi sociali e altre
cose di cui dovrebbero occuparsi proprio le famiglie. Colpa della
società dell’immagine, che ha determinato una mutazione
antropologica, si aggiunge: molti studenti sono convinti di avere
appreso qualcosa solo per aver visto un film o uno spettacolo televisivo;
e a chieder loro se abbiano capito qualcosa, difficilmente si riceveranno
risposte positive. E a fare il resto dei danni ci pensano i cellulari.
Riecheggiamo ancora: il teatro che accoglie il tessuto della comunicazione
odierna – soprattutto nelle funzione banale di sostituire lo
scambio epistolare di una volta – ha un che di metafisico,
schiaccia il vasto universo in un segmento labile. Emerge una deriva
dei sentimenti dove vite di supplenza si riconoscono grazie ad impulsi
elettrici, o elettronici, in questo nostro tempo che considera una
perdita di tempo leggere un libro, e che guarda senza soluzione
di continuità uno spettacolo. Stiamo uccidendo la nostra
capacità di esprimerci, senza opporre alcuna resistenza,
come fossimo ipnotizzati.
Di qui, il “trionfo degli ideogrammi totalitari”: si agitano
nei quadranti delle attese prive di tremori, forse per meglio sperdersi
e svanire, fossilizzati in parentesi, cancelletti, chiocciole, trattini,
punti di sospensione e di domanda, frecce, siparietti di lettere
obsolete, ghiribizzi geometrici del vuoto. Accade così che
i grafici del messaggio elettronico e la isterilita lingua quotidiana
consumino la residua cifra di calore della nostra società
massificata: all’interno di un transitorio vivere correndo,
senza ricordi, senza paesaggi, è una società afasica,
indifferente a qualsiasi risorsa verbale che non sia di conforto
immediato, di appagamento del corpo. Retorica della sciatteria.
Insipienza come trofeo. Malinconici graffiti che cancellano il piacere
di un libro (come diceva Daniel Pennac) toccato, letto, tenuto dentro,
gelosamente segreto.
Mandati al rogo i libi, banditi i mondi della narrativa e della
storia e della poesia, irrompono scuole di debiti e crediti, progetti
e recuperi, percorsi, accoglienze, moduli. Si esilia il corpo estraneo
dello studio, si dispiega un ventaglio di corbellerie ludiche. Si
spalancano le vie agli “studenti liquidi”, il cui linguaggio
dice una sola cosa, ed esige dunque una sola risposta. E sinonimo
di cultura diventa sempre più frequentemente parlare-domandare-rispondere
senza farsi capire: cioè ascoltando solo se stessi.
E oltre i confini? Sembra sventato (fino a quando?) il tentativo
di abolire le traduzioni in lingua italiana in sede Ue. Ma questo
ha fatto accendere i riflettori su quanto sta accadendo nel panorama
delle lingue, in particolare della nostra, che è in difficoltà
un po’ ovunque. Persino in Svizzera, dove pure è tra
le lingue nazionali.
La Confederazione elvetica è infatti l’unico luogo al
mondo fuori dalla Penisola, ad eccezione delle piccole realtà
di San Marino e del Vaticano, in cui l’italiano ha un ruolo
ufficiale. Ma anche in territorio svizzero incombe il forte peso
delle altre lingue. Il tedesco, anzitutto, poi il francese, e, ovviamente,
l’inglese delle tecnologie informatiche e dell’attività
commerciale delle grandi industrie e della grande finanza.
L’italofonia è messa in crisi dalle decisioni prese
in alcune università. Il Politecnico di Zurigo ha soppresso
la cattedra di Lingua e letteratura italiana; l’università
di Neuchâtel ha abolito le cattedre di italiano e di greco
antico. Motivazioni: costi elevati, domanda insufficiente. Docenti
e studenti di Neuchâtel sono sul piede di guerra.
La Svizzera ha 7,3 milioni di abitanti: secondo il censimento del
2000, il tedesco è parlato dal 63,9 per cento, il francese
dal 19,5 per cento, l’italiano dal 6,6 per cento, il romancio
(Grigioni) dallo 0,5 per cento.
La percentuale restante è composta da varie altre lingue
parlate da stranieri residenti. Ma i dati non dicono tutto, in particolare
sull’italiano e sull’inglese. È vero che la nostra
è lingua dominante solo in Canton Ticino e in una parte del
Canton Grigioni, ma è anche vero che alcune quote di popolazione
classificate sotto il tedesco o il francese sono comunque interessate
all’italiano. Basti pensare ai nostri immigrati, ai loro figli
e nipoti. Per quel che riguarda l’inglese, è proprio
la sua emersione a mettere in crisi il delicato incastro elvetico
di federalismo linguistico.
Nelle scuole e nelle università cresce la domanda di inglese,
mettendo in discussione le seconde o le terze lingue, che sono spesso
l’italiano o il francese.
Oltre la scuola, la politica. Il federalismo nasce anche dalla tutela
delle minoranze, ma questa tutela a volte deve attuarsi controcorrente.
Il Governo federale è composto da sette ministri, e allo
stato attuale nessuno di essi è italofono: prevalgono i tedescofoni
e, in seconda linea, i francofoni. Nell’amministrazione stessa
è scesa la presenza di funzionari italiani. Per questo è
stato tirato il segnale d’allarme, che ha dato luogo ad alcune
reazioni. Si stanno studiando iniziative, anche di legge, per far
barriera sull’italiano nelle scuole. E l’Usi (Università
della Svizzera italiana) di Lugano, plurilingue, ma con l’italiano
come lingua base, si sta adoperando per difendere la lingua di Dante,
soprattutto nelle discipline umanistiche.
La Svizzera non fa guerre guerreggiate, dunque neanche per le lingue.
Ma è chiaro che nell’intreccio federalista i timori
sulla tenuta della lingua italiana stanno assumendo un ruolo centrale,
con implicazioni politiche e sociali. Mentre da noi gli esami scritti
sono sostituiti dalle crocette da mettere nelle caselle dei quiz!
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