Karajan venne
tradito dai suoi Berliner, che gli tolsero proprio negli ultimi
anni, per dispetto vile,
il titolo di direttore a vita.
|
|
Ripresa da una narrazione: «Non possono chiederci questo
disse un giorno James Levine, il direttore del Metropolitan
di avere la pelle sottile, sensibile per interpretare la
musica, e contemporaneamente una scorza da elefante. O questa o
quella».
Lo sanno bene gli orchestrali, i coristi, quanti vivono in teatro:
la figura davanti a tutti loro sul podio, che li disciplina e li
guida, facendo del mezzo antico del comando la bacchetta
uno strumento magico di interpretazione, è quasi sempre
un musicista di pelle sottile. Ci sono le eccezioni, sicuramente:
ci sono gli elefanti: quelli che disbrigano un concerto con un paio
di prove, quelli che arrivano soltanto alla generale, demandando
ad altri il lavoro preparatorio. E ci sono anche in questo caso
le eccezioni.
Da Arturo Tocanini in avanti, (in sostanza, da quando il direttore
dorchestra è diventato importante al modo del compositore),
di tutti i grandi e grandissimi sono testimoniate le lunghe ore
di lavoro, laffinamento costante delle partiture, la ricerca
della perfezione, la fatica, i momenti di rabbia. E ancora: la cura
nella scelta degli strumentisti, selezionati uno ad uno (sempre
sulla scorta della lezione di Toscanini), la creazione di una compagine
come di una famiglia, con forte investimento emotivo e con dedizione
assoluta. È un rapporto saldo e nello stesso tempo fragile,
quello del direttore con la sua orchestra: la storia testimonia
di clamorose fratture, di tradimenti che restarono poi come ferite
aperte.

Così ricostruisce e racconta quasi testualmente Carla Moreni,
rammentando fra laltro che Karajan venne tradito dai suoi
Berliner, che gli tolsero proprio negli ultimi anni, per dispetto
vile, il titolo di direttore a vita: loro stessi avrebbero dovuto
andarne fieri, e se ne accorsero in seguito, ma troppo tardi. Karajan
li lasciò per sempre. Gli ultimi concerti, memorabili, li
diede con i Wiener.
Il tradimento dellorchestra allora più celebre in Europa
si era negli anni Settanta nei confronti del musicista
che con maggior carisma laveva segnata, ebbe inizi confusi.
Questioni di discografia, si disse, che a posteriori nessuno ebbe
tanta voglia di rivangare. Anziché con i suoi, Karajan preferì
incidere per qualche tempo con lOrchestra di Parigi.
Un flautista importante come James Galway parlò di regime
autoritario del podio e scelse di lasciare il posto. La proposta
di Sabine Mayer, splendida giovane clarinettista, venne duramente
contestata a Karajan dal resto dellorchestra.
Dettagli, tessere dellincomprensione, sottolinea la saggista.
Ma il sasso era stato gettato, e nessuno osò fermarlo in
tempo, sicché lo strappo fu inevitabile. Per Karajan unombra
dolorosa, per i Berliner la fine di unepoca.
Caso unico nella storia delle bacchette? Tuttaltro. Successore
di Karajan a Berlino fu Claudio Abbado, anche lui tradito dalla
sua orchestra, la Scala. Siamo in quel di Milano, verso la metà
degli anni Ottanta, a una recita del Barbiere di Siviglia. È
il cavallo di battaglia del Maestro, il titolo rossiniano che nella
sua lezione ha fatto storia. Durante lintervallo, un gruppo
di orchestrali bussò al camerino e presentò (a
Claudio, visto che si davano del tu) una richiesta
di dimissioni. Quale il motivo di questa presa di posizione? Il
direttore era stato negli ultimissimi tempi poco presente in teatro,
aveva affidato il lavoro un paio di volte ad altri direttori, preferiva
dirigere allestero. Gli orchestrali lo sentivano sempre più
distante e soprattutto questo li aveva offesi aveva
promesso una prestigiosa tournée in Giappone (la prima come
orchestra sinfonica, gli scaligeri dai tempi di Marinuzzi non giravano
più col repertorio sinfonico allestero), ma poi aveva
preferito i più solidi Wiener.
Abbado lasciò, senza clamori, ma non volle più dirigere
quei complessi che aveva guidato per ben diciotto anni, dal 1968
al 1986. Quando fece ritorno alla Scala, (fino alla clamorosa rottura
con Elektra), fu sempre con orchestre straniere ospiti.
Sembra paradossale, ma il disagio e i malumori presenti di recente
tra le file dellorchestra scaligera sembrano mettere in campo
motivazioni opposte rispetto a quelle di allora: Riccardo Muti troppo
presente, troppo autoritario. Verrebbe voglia di obiettare: ma non
è questo il suo dovere? E si può sapere, alla fine,
che direttore volete? Di colpo si cancellano il debutto al Musikverein
di Vienna, le tournée in Giappone (lultima, nel mese
di settembre, trionfale), il ritorno a casa della trilogia verdiana,
Wagner, Gluick, Mozart, lindimenticabile Falstaff. Diciannove
anni. Tutte le prime parti dorchestra scelte e messe sul leggio
dal Maestro. Mai un giorno di assenza dalle prove, Muti era sempre
presente, nel suo camerino, ad aspettare, anche quando lorchestra
per sei prove consecutive bloccò lattività musicale
con assemblee.

Pelle da elefante, per dirla con Levine. Ci vuole pelle da elefante.
Dove ritrovare adesso la spiritualità per muovere la bacchetta
alla musica? Per suonare è necessario guardarsi negli occhi,
ritrovare una civiltà. Non prestare orecchi ai burattinai
che speculano, ma riflettere con pacatezza. La musica ha bisogno
oggi più che mai di serenità, di lavoro proficuo,
di efficienza. Per costruire ci vuole tanto, per distruggere basta
pochissimo. Lo sanno per primi gli strumentisti che a dare identità
e prestigio ad una compagine è soltanto ed esclusivamente
una figura: quella del direttore. Il nome del direttore col
suo lavoro sensibile, di artista segna le età dei
Teatri. Toscanini schienadritta, appena sentiva parlare
di sindacalismo nelle orchestre, se la dava a gambe!
|