
Giugno 2005
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Le Giravolte |
AA.VV. |
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La neve è il vestito che scopre il nostro
candore e stupore per ciò che arriva, non bussa e non turba,
che è lieve, se arriva. Lieve verrà la preda come
la neve, con passo di cielo
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Malesciàna, lultima caccia
Il teatro
nella neve
Borges si allenò, non fece altro in vita. A contenere cioè
luniverso in una scatola di fiammiferi. La sua lente chinata
a vedere oltre, nel labirinto, nella biblioteca dogni possibile
sapienza, dogni accidente, parola, conoscenza. Oltre il tutto
già accaduto, cè il tutto da venire per darne
incanto più che conto, trasfigurare, sfinire per delirio,
gioco, rimescolamento. Per contenere ogni memoria del passato e
ogni certezza che sia stata, insieme allincertezza del tempo
che sarà, che ci spetta o non ci (ri)guarda. Per contenere
tutto, candore, slanci, la voglia, il male, le rinunce, laver
amato o solo vissuto che talvolta è il suo contrario.
Consegnarsi al dopo, di là, nellintrico del bosco dellultima
caccia è la scatola di fiammiferi di Federico Re. Di là
cè lombra dun uomo che sallunga,
si contrae, sguscia, striscia, scampa, insegue, caccia. Nel gioco-delirio
di preda e cacciatore, nellincerto continuo asfissiante calpestio
di ricordi, nei passi confusi duna presenza sospesa soffiata
intrigante, in tutto questo cè Federico. Così
come accade a scuola: la parola, il numero, la chiave del gioco
è appena suggerita, impastata alla tensione, e tu non puoi
che riferirla per come tarriva, spesso fraintesa, alterata.
Oppure immaginata che qualcuno, davvero, te labbia suggerita.
Federico è lattesa. Nel fervore di memorie, nomi, corpi
di donna, conquiste, città, di perdite private e tradimenti,
in questo ricacciare dallammasso del passato ogni ansia, ogni
sete della gloria, ogni fantasma dellimpero, ogni saggezza
di lettura, è nudo Federico nellattesa. Re dun
rettangolo di buio. Dove le sentinelle sono a guardia di un vuoto
senza inizio mentre fine. Il regno di buio su cui ora Federico sa
daver sempre governato.
Limminenza del congedo rischiara dal nuvolo, dona la certezza
del passato; la luce su quel che è stato segna il volto di
chi non ha bisogno di vedere. La luce, nel buio assoluto dello sguardo,
scalda, svela e tanto basta. Proprio ora, a partita ormai conclusa,
a reti inviolate. Nonostante il furore, la forza delle armi, i castelli,
la corona, i libri, i corpi amati e sconosciuti, Palermo, «a
terra sicca, lerba tennira a ventu», è proprio
questa luce immaginata senza gradi a valere quanto e
più della fortuna e degli onori del passato. La luce su un
destino a reti inviolate, che non protesta, non grida al complotto
né si piega allinfortunio. Federico accetta, tutto.
Contiene.
Il suo delirio orfano di figli e figuranti, diviso tra preda e cacciatore,
là nel bosco dellultima caccia ancora da finire, è
il racconto duna solitudine tessuta con bianca leggerezza,
senza peso. Se il racconto ha un colore, bianco è il racconto
di Federico. Non so se per una pace, una quiete delletà,
per la dolcezza di chi ha visto il falco temere in volo la sua fine
come la più indifesa rondine nel cielo. La dolcezza di chi
sa che il potere è solo fumo, grandine magari, comunque vanitas.
La dolcezza dei seppelliti di Dino Campana.
Federico, al limite del tempo, sente il cielo dentro ogni suo respiro,
senza vederlo. Federico-Borges è cieco. Federico contiene.
Il buio degli occhi comprende le frontiere, i dirupi, le maree,
le derive della memoria. Proprio quando ricordare equivale ad un
errore, un acciacco, nulla più. Il Re riconosce la preda
perché sa contenerla. In silenzio lattende e le augura
«che la vita ti sia lieve». È questa la preghiera,
il solo desiderio di Federico dentro il bosco. Sa che preda e cacciatore
non possono tradirsi perché fiati duna sola intimità.
Dice Borges: «Ignoro quale volto fissi il mio / quando guardo
la faccia dello specchio, / non so chi sia là il vecchio
che mi spia / con silenziosa e già caduta ira. / Lento nellombra,
con la mano tento / i miei tratti invisibili. Un bagliore / a un
tratto: ho scorto forse i tuoi capelli, / già di cenere o
forse ancora doro. / Mi ripeto che ho perso solamente / la
vana superficie delle cose /
, / ma io penso alle lettere
e alle rose, / penso che se mi vedessi un istante / saprei chi abita
con me la sera».
Nel buio degli occhi soltanto la neve carezza. La neve dellultima
caccia di Federico Re presto coprirà ogni traccia, sogno,
finzione, ogni presenza, la sorte e la gloria. La neve è
il vestito che scopre il nostro candore e stupore per ciò
che arriva, non bussa e non turba, che è lieve, se arriva.
Lieve verrà la preda come la neve, con passo di cielo. Nel
respiro che Federico ha dentro di sé del cielo, senza vederlo.
E la neve non sarà quella dei giochi, dellattesa dal
balcone e dai banchi di scuola. Cadrà la neve dellinospitalità,
senza clamore, che monta, cresce, serra luscio di casa e rintana.
La neve del cacciatore e la preda, ununica smorfia di cielo
«sognata, adorata, ogni istante perduta, ogni istante cercata».
Un canto sullo spartito di neve.
Contenere. Stringersi in una stagione sola che è congedo
e ritorno, storia e baro, dolcezza e stordimento, delirio e lievità.
Ritorno allorigine, alla voce dun racconto che annienta
la corona, le date, i gradi della corte, le strategie, i tornaconti
dellimpero, le sue gesta e miserie. Ritorno al racconto, al
ricominciamento, al nome. «Tu sei un nome che sanima.
Nientaltro che questo. Un nome, parola che mi sfugge e che
inseguo».
Federico è voce del narrare, uomo scomparso dalle trame di
unepica, sottratto alle cronache dun manuale. È
luomo che resta oltre il regale comandare, gli azzardi, lingegno,
il trono, le conquiste. Di lui resta il fiato, il sentiero da risalire,
il resoconto da stilare su quel buio dellimpero che è
tutto dentro. Resta la solitudine del potere, la vana fortuna delle
armi, della baldanza, dellordine civile. Perché se
è vero che nessun sistema mette fine al caos dellesistenza,
se ogni dottrina di governo e di regname è pura arte di comando,
è altrettanto vero che il potere è esercizio di solitudine
che le truppe e le fanfare non sanno mascherare.
Federico è la partita che Antonio Errico ha sempre raccontato,
voce dun richiamo perduto nel fogliame, sagoma impaurita,
desolata, sembianza e mai presenza. Materia impalpabile, trama che
soffia dalle fessure, che sinsinua sotto la porta, che si
rigenera nella scrittura stessa. Occasionale ogni certezza, spoglia
di vanità. Come per Enea, Creusa, Didone, Turno, Cassandra,
Gustave, ogni storia è un pretesto perché la voce
narri le derive che ogni storia non contiene. Antonio Errico ha
sempre scritto di questo agognato sogno di contenere, della conquista
di una fioca serenità. Che dimora solo al confine estremo,
laddove ogni conto è da pagare. Dove si dimentica tutto e
si è saggi per poco, per il primo e già ultimo giorno.
Per Federico la Storia è il monologo dun solitario
dileguarsi, dun lento, sfumato volteggiamento in fiocco, sbuffo,
foglia morta. A ritmo di malesciàna. «Pronunciala,
sire, disse. Malesciàna. Pronunciala ancora. Malesciàna.
Io dicevo malesciàna e sentivo dentro me uno sfinimento dolce».
Malesciàna non è soltanto malinconia, ma il logorio
dellonda sullarenile, incessante, incolpevole, tedioso.
È la rete che strascica sul fondo, è il giorno che
scorre sulle ore senza tempo, senza meta. Il lavorare stanca di
Pavese: «Traversare una strada per scappare di casa / lo fa
solo un ragazzo, ma questuomo che gira / tutto il giorno le
strade, non è più un ragazzo / e non scappa di casa».
Ne è piena la storia, ne è stracolma di sentimenti
che non possiamo contrarre in una nozione, ma solo costeggiare con
i versi, una musica, un racconto. Saudade, ennui, fado, tango, malesciàna.
Ne Lultima caccia di Federico Re di Antonio Errico,
Federico vaga, stretto nella sua divisa di perdite, di perdente.
Perdente è stato Enea e ogni figura del mito che Antonio
Errico ha liberato sulla pagina. Perdenti perché spogli,
inermi, testardi, deliranti tessitori delloblio. Rinati. Come
lAccattone di Pasolini morente sul ciglio di borgata che esala
il suo «mo sì che sto bene». Come il cacciatore
che sabbandona alla preda o il suo contrario, non importa.
«Non importa, non voglio, non ho mai avuto, non ricordo, non
lo so, non tornare, non puoi restare, non basta, non capivo, non
ci sarà». Sono tutte negazioni, sono tutte le certezze
che Federico moltiplica a dismisura nel racconto; se solo una volta
gli accade di inciampare su una presunta verità, subito la
dirotta in mille e più derive, là dove le storie sintrecciano
ai destini di mille e più esistenze, luoghi, prede. Alle
mille e più anime salve. Federico non è lo sconfitto
di alcuna Storia, è il perdente. È diverso. Se laltra
faccia della sconfitta è la vittoria, quella della perdita
è il ritrovamento. Il Fanciullo di Puglia ora è salvo,
anima solitaria che sa, grazie al buio profondo dei suoi occhi.
Che finalmente ritrova e contiene.
Il racconto di Federico è un incessante scorrere di titoli
di coda. Quei titoli che non leggiamo mai nei film, quando in sala
ritornano la luce fredda e il vocio indistinto, quando malceliamo
lo sguardo nello sguardo dellaltro, riflessi deformati di
uno smarrimento. Quei titoli in cui scopri tutto ciò che
del film non ti aspettavi. Quei titoli di coda sono il film di Federico,
i nomi di quelli che non aspirano ad un premio perché la
loro storia comincia e finisce altrove. «Vorrei dirti della
luce alla controra, della luce quando non cè più
quasi sole e non cè ancora luna, e il cielo è
come una soglia, un limite, linizio di una fine».
Ogni immagine è in quei titoli di coda. Ogni storia parla
attraverso quei titoli di coda.
Ogni parola di Federico è destinata ad una preghiera: che
quei titoli di coda ritornino una volta, unaltra sola, a scorrere
sugli occhi ciechi, stanchi, una sola volta ancora. Occhi che sapranno
contenere la fuga e il ritorno, che avranno unallegria indolente
di giullare, che vedranno con gli occhi della preda. Perché
Federico non può, non sa abbandonarsi alla fine senza un
morso alle labbra. Gli manca la preda, la fine, proprio quando lei
viene e la reclama daccapo. Lei era là nel fogliame ad un
passo di neve e una volta fuggita lui già la rivuole. Il
Re sa che nessuna parola potrà più riaprire la caccia,
ma dispera in un ultimo titolo di coda, lo insegue e lo grida, «anche
solo a metà».
Alla fine del tempo, brevemente in corsivo, si scioglie un raccontami
ancora, perché la nenia riannodi ogni filo sospeso. Perché
si srotoli la tela del cantastorie, intrecciata allincanto,
alla fantasia.
E sarà il racconto che forse un puparo inscena per strada,
la ventura e la malasorte di Re Federico che cieco nel bosco segue
una preda, che lui cacciatore dolcemente stana con sole parole.
Il monologo di Federico è un teatro in cui le voci si frantumano
in rivoli di voci nascoste che prendono la forma di falco e di nube,
valle e ficodindia, foglia e cavallo, pozzo di chitarra. E neve
soprattutto, dolce lieve carezzevole ossessione.
E teatro sarà.
pierluigi mele
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Alla destra del portale centrale si nota un
antico affresco, dai colori ormai sbiaditi, di epoca probabilmente
corrispondente a quella delle due colonne. Lopera raffigura
un vecchio che costruisce croci
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Rebus della città bianca
I templari
nella cattedrale
Considerata una delle più importanti chiese di Puglia, la
cattedrale di Ostuni si erge nella parte alta della città
antica. Realizzata nella seconda metà del XV secolo in stile
gotico-romanico, con tutta probabilità su una cattedrale
preesistente, si offre alla vista con la sua facciata originaria,
nella quale si aprono tre portali ogivali, ciascuno contenente una
lunetta con bassorilievi raffiguranti San Giovanni, la Vergine e
San Biagio.
Il portale centrale è sormontato da due rose laterali di
dimensioni ridotte e da un rosone dalla triplice cornice nel quale
sono rappresentati Cristo, al centro, e i dodici apostoli e sette
cherubini negli anelli esterni. Il rosone ricorda quello di un altro
gioiello architettonico salentino, la cattedrale di Otranto.
Ledificio è sormontato da un puntale fiancheggiato
da due esili edicole laterali. La pianta è basilicale a tre
navate, separate da arcate poggianti su due file di cinque colonne,
con transetto, coro e abside.
Una volta entrati, appare subito evidente che la chiesa ha subìto
notevoli modifiche rispetto alla struttura originaria indubbiamente
alterata da restauri e modifiche posti in essere a far data dal
1668 sino agli anni Sessanta del secolo scorso. In particolare,
nella seconda metà del Settecento furono introdotte decorazioni
barocche, mentre nellOttocento si procedette, tra laltro,
allabbattimento degli archi gotici e al rivestimento delle
colonne.
Tra il 1964 e il 1968 vennero effettuati, poi, ulteriori interventi,
durante i quali furono rinvenuti affreschi e colonne che, secondo
le pubblicazioni a disposizione, risalirebbero ai secoli XV e XVII.
In effetti, ciò che colpisce il visitatore più attento
si trova allinterno della chiesa e precisamente sulla controfacciata.
Lattenzione, infatti, è subito attratta dalla presenza
di due colonne cruciformi medioevali, di epoca evidentemente precedente
a quella di costruzione della cattedrale, tantè che
su queste poggia la prima arcata di ciascuna corsa delle colonne
che separano le navate.
Le colonne medioevali sono sormontate da due capitelli scolpiti
con immagini religiose, in particolare la scultura sulla colonna
posta alla destra del portale centrale è sostanzialmente
andata perduta, mentre è discretamente conservata quella
del capitello alla sinistra dellingresso.
Le guide e le pubblicazioni indicano, come epoca di realizzazione
delle colonne e dei capitelli, il XV secolo, ma la datazione non
appare condivisibile, dato che le opere in questione sembrerebbero
risalire al XIII-XIV secolo. Le due colonne sarebbero riapparse
negli anni Sessanta durante i citati lavori di restauro, che avrebbero
portato alla rimozione del corale sotto il quale i due pilastri
erano stati celati per secoli.
Ciò che le pubblicazioni però non rilevano è
la presenza, su ciascuna delle due colonne, di due croci patenti,
ben scolpite e ancora con la colorazione rossa originaria, sebbene
leggermente sbiadita. La fattura delle due croci è talmente
inconfondibile che non si può seriamente dubitare che le
stesse siano di origine templare.
Alla destra del portale centrale si nota un antico affresco, dai
colori ormai sbiaditi, di epoca probabilmente corrispondente a quella
delle due colonne. Lopera raffigura un vecchio che costruisce
croci. Alla sua sinistra alcune croci, già ultimate, sono
accatastate luna sullaltra. La figura si trova sulla
sinistra del dipinto, mentre al centro del medesimo si erge unaltra
croce, senza alcun crocefisso, ai piedi della quale una donna, avvolta
in un mantello rosso, prega inginocchiata.
Il volto della donna è mancante e al suo posto si nota una
macchia di cemento. In realtà, è lunica parte
mancante dellaffresco, ai piedi del quale è agevole
individuare un teschio e una più piccola figura inginocchiata,
oltre ad alcune scritte sostanzialmente indecifrabili.
Le pubblicazioni in circolazione, contrariamente a quanto accade
per le croci templari, fanno invece riferimento allaffresco,
che viene congedato come una raffigurazione di Santa
Elisabetta dUngheria risalente al XV secolo. Lattribuzione
appare priva di fondamento sia per le fattezze dellopera,
tipiche di epoca precedente, sia per la totale mancanza di collegamenti
iconografici tra la rappresentazione e la Santa in questione vissuta,
secondo la tradizione, nel XIII secolo.
Allosservazione, infatti, è quasi istintivo il riferimento
mentale al Vangelo di Filippo: «Giuseppe il falegname ha piantato
un giardino, perché aveva bisogno di legna per il suo mestiere.
È lui che ha costruito la Croce con gli alberi che ha piantato.
Il suo seme è stato Gesù, la Croce la sua pianta».
Limmagine del vecchio sembra invece raffigurare con tutta
probabilità Giuseppe nellatto di costruire croci. La
croce infissa è la sua pianta: Gesù. La figura femminile,
a questo punto, potrebbe essere quella di Maria Maddalena. Le caratteristiche
iconografiche non lascerebbero alcun dubbio. È infatti noto
come nelliconografia classica Maria Maddalena indossi un mantello
rosso, segno della sua dignità sacerdotale, mentre ulteriori
attributi iconografici siano, tra gli altri, il vaso contenente
lunguento, la croce, il libro, la nudità, il teschio
Nellaffresco in questione la figura femminile priva di volto
indossa un manto rosso e ai piedi dellimmagine è raffigurato
un teschio. La raffigurazione, inoltre, è incredibilmente
simile ad altra di epoca successiva, realizzata nel XV secolo dal
pittore toscano Filippino Lippi.
Si aggiunga poi che laffresco è ubicato tra le due
colonne templari ed è nota lattenzione che questordine
manifestò per la figura di Maria Maddalena (si pensi alle
innumerevoli chiese intitolate a Santa Maria e realizzate dallOrdine
del Tempio).
A questo punto, però, è necessario valutare la presenza
delle colonne con le croci patenti e dellaffresco in rapporto
con lepoca di realizzazione della cattedrale. Essendo, infatti,
iniziati i lavori di realizzazione dellopera verso la metà
del XV secolo, si deve tener presente che lOrdine del Tempio
in quellepoca era stato già sciolto da oltre un secolo.
Ne consegue, pertanto, che allatto della costruzione la cattedrale
sorgesse su altra struttura precedente, realizzata, appunto, da
Templari o in ogni caso interessata da interventi facenti capo allordine
del Tempio e, con tutta probabilità, intitolata a Maria Maddalena.
I documenti a disposizione degli studiosi condurrebbero a tale conclusione.
Verso il X secolo, infatti, Ostuni divenne sede episcopale ed è
evidente come dovesse esistere una primitiva chiesa matrice. Già
nel 1324, infatti, in base alle Rationes Decimarum, era nota lesistenza
di una chiesa allinterno del castello di Ostuni. Peraltro,
da documenti risalenti al 1182 risulta la presenza di componenti
il Capitolo della Cattedrale di Ostuni.
In realtà, il primo documento di età normanna nel
quale compare la chiesa di Ostuni risale allagosto del 1099,
che è anche lanno della presa di Gerusalemme nel corso
della prima crociata. È pertanto presumibile che la chiesa
matrice altomedioevale subisse alcuni rimaneggiamenti e ampliamenti
successivi, nel corso dei secoli XII-XIII, epoca in cui lOrdine
del Tempio era fiorente, specie nel Salento, zona di transito dei
pellegrini e degli armati per la Terra Santa (attraverso i porti
di Brindisi e di Otranto), dato che le due mezze colonne non potrebbero
risalire allepoca della prima chiesa matrice non essendo stato
ancora costituito lOrdine.
Peraltro, essendo divenuta, come più sopra ricordato, Ostuni
sede vescovile nel X secolo, fu necessario, nelle epoche successive,
dotarla di una residenza ufficiale per il vescovo.
La chiesa originaria, e comunque quella successiva allintervento
templare, sembrerebbe intitolata a Santa Maria. Diversi documenti
di età normanna, infatti, fanno riferimento a tale intitolazione:
«et dominio sit Sancte Marie ecclesie nostri episcopi
»
(pergamena del febbraio 1154); «ecclesie Beate Marie episcopatus
Ostunii affidatus
» (pergamena del gennaio 1163); «ecclesie
Sancte Marie nostri episcopii ipsas olivas omnes et terras
»
(pergamena dellottobre 1217).
In altri documenti si fa riferimento a nomi di presbiteri: «Leo
presbiter et Beate Marie precentor» (pergamena agosto 1155);
«Urso presbiter et Beate Marie precentor» (pergamena
marzo 1192). Deve inoltre evidenziarsi come, con riferimento alla
Madre di Cristo, i documenti utilizzino invece, quasi sempre, la
dizione beate Virginis Marie o sancta Dei genitrice
Maria.
La presenza delle colonne templari e dellaffresco porterebbe
a concludere che lattuale cattedrale fu realizzata sul sito
già occupato dalla primitiva chiesa matrice, oggetto successivamente
di interventi o di realizzazioni ex novo che subirono in ogni caso
linfluenza templare: una chiesa, appare ipotizzabile, intitolata
a Maria Maddalena, stante lattenzione notoriamente posta dai
cavalieri del Tempio per il culto della Santa.
Laffresco, con il chiaro riferimento al Vangelo di Filippo,
da un canto confermerebbe tale tesi, dallaltro si presenta
come prova interessante in ordine alla tesi della conoscenza, da
parte dei Templari, del contenuto dei Vangeli apocrifi in epoca
precedente alla scoperta dei testi di Nag Hammadi.
giovanni bellisario
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Il buon utilizzo del tempo, la continua ricerca
della saggezza, la lotta contro il furor delle passioni e degli
istinti: ecco le armi che ci consegna Seneca per la salvezza delluomo
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Dentro il fiume del tempo
Seneca,
inquieta modernità
«Tutte le tesi filosofiche che non siano terapeutiche
per la sofferenza umana sono prive di valore; come la medicina che
non espelle il male dal corpo così la filosofia che non scaccia
il dolore dallanimo non arreca alcun vantaggio»: parole
di Epicuro, per il quale il pensiero filosofico ha valore di farmaco
privilegiato dello spirito. Leggendo Seneca ci ritroviamo perfettamente
con quanto sostenuto dal fondatore dellEpicureismo: il suo
pensiero, infatti, ha incontrato al massimo grado il favore della
coscienza, di cui il grande filosofo stoico è stato un cantore
brillante e incisivo. Non per tutti, però. Se Lattanzio lo
giudicò «omnium Stoicorum acutissimus», limperatore
Caligola (stando a quanto afferma Svetonio) definì il suo
stile «vaniloquio da parata, simile a sabbia senza calce».
Nemmeno Quintiliano lo amò molto, contestandogli labuso
nei suoi scritti di minutissimae sententiae, mentre Gellio lo definì
impietosamente homo nugator («un chiacchierone») e gli
rimproverò leloquenza «volgare ed abusata»
(Noctes Atticae, XII 2).
Se i suoi contemporanei non lo apprezzavano (ma, secondo Cicerone,
lo stoicismo non aveva uno stile e Seneca glielo diede), diverso
è il giudizio degli studiosi moderni, per i quali quello
di Seneca «è lo stile drammatico dellanimo umano
in guerra con se stesso» (C. Marchesi), mentre per A. Traina
«la trama logica del discorso si smaglia in un fitto balenio
di sententiae, ognuna fine a se stessa».
Al di là delle dispute sullo stile, illuminante è
lo stesso Seneca, nelle lettere a Lucilio: «Haec sit propositi
nostri summa: quod sentimus loquamur, quod loquimur sentiamus; concordet
sermo cum vita», «Questo sia il principale nostro proposito:
dire quello che sentiamo, sentire quello che diciamo; si accordi
il linguaggio con la vita» (Ep. 75, 4). Se questo era lobiettivo,
scorrendo le sue pagine possiamo dire che Seneca lha raggiunto
egregiamente.
Come moralista Seneca, più che banditore di una morale, aiuta
a coglierci in errore prima di correggerci (deprehendas te oportet,
antequam emendes, «bisogna che tu ti colga in fallo, prima
di correggerti»), esorta a curare lanima, vero campo
di battaglia delluomo che vuole vincere le passioni nefaste
(in primis lira) e conquistarsi unautentica libertà.
Qualcuno ha scritto che la sua filosofia è filosofia per
i tempi di sventura e dobbiamo dargliene atto se è vero che
sotto il Terrore gli intellettuali francesi si confortavano con
la lettura di Seneca in attesa della ghigliottina. Quando lirrazionalità
delluomo sfocia in ogni sorta di scelleratezza, il celebre
«vindica te tibi» o il «recede in te ipse»
suonano come i richiami più alti allinteriorità
e alla cura di sé.
Il buon utilizzo del tempo, la continua ricerca della saggezza,
la lotta contro il furor delle passioni e degli istinti: ecco le
armi che ci consegna Seneca per la salvezza delluomo. Quando
fuori infuria la tempesta è dentro di sé
che luomo deve ritrovarsi e riconquistare la libertà;
e Seneca questo lo sapeva benissimo: fu, infatti, esiliato da Claudio,
minacciato da Caligola e messo a morte da Nerone: è su questo
sfondo, cupo, della Roma imperiale che nasce e si articola il suo
pensiero, pensiero che non deve essere visto come un invito alla
chiusura individualistica: la cura dellio serve, nella visione
stoica, a perfezionarsi ed essere pronti ad agire, ad «iuvare
alios» attraverso lazione politica ed è utile
anche, come diceva Seneca di Nerone, per affrontare il mostro e
addomesticarlo.
Se la ricerca della saggezza è uno dei doveri fondamentali
delluomo, luso del tempo fa da spartiacque tra chi sa
e chi non sa vivere. Per il filosofo stoico il tempo non è
puro oggetto di speculazione, come invece lo sarà in SantAgostino,
ma è visto (e vissuto) nellansia della sua fugacità.
Tre sono le metafore preferite: il fiume, il punto e labisso.
Il fiume del tempo è unimmagine scontata, ma è
caratteristico di Seneca vederlo non come un movimento chiuso in
se stesso ma come una piena che abbatte, travolge e porta via: «Il
tempo ti scalza in silenzio» (Phaedr. 775).
Se il fiume è il tempo nella sua dilatazione inarrestabile,
la metafora del punto ne mette in risalto la durata, fin quasi a
vanificarla: «È un punto quello che viviamo, e ancor
meno di un punto» (Ep. 49,3). Per luomo, spazio e tempo
hanno la stessa, esigua, dimensione: «Questa terra con le
città e le popolazioni, i fiumi e il cerchio del mare, è
per noi un punto di fronte alluniverso: la nostra vita è
meno di un punto in paragone delleternità» (Ad
Marc. 21, 2).
Infine, labisso: «Verrà su noi labissale
profondità del tempo» (Ep. 21, 5), il tempo visto come
un vuoto a togliere profondo che incombe sulluomo, essere
instabile, in bilico sulla fune della vita, sempre pronto a precipitare.
Da tutte questa metafore emerge il senso di unesistenza sempre
minacciata e messa in pericolo: «In tanta fluttuazione delle
cose umane niente per luomo è certo se non la morte»
(Ep. 99, 9).
Tuttavia luomo nella lotta contro il tempo non è destinato
alla sconfitta: solo la saggezza faticosamente conquistata gli permette
di sfatarne il tabù. Tempo e saggezza sono correlati:
«Pensa sempre alla qualità della vita, non alla sua
quantità» (Ep. 70, 5), solo il saggio trionfa sul tempo
perché ne trasforma il valore da quantitativo in qualitativo.
Secco lammonimento: una vita lunga ma non vissuta non vale
niente. Ecco, quindi, che luso del tempo diventa il vero banco
di prova per la saggezza: da una parte chi lo spreca imprudentemente,
la massa degli occupati, dallaltra, in aristocratica solitudine,
il sapiens, che libera il suo tempo da ogni futile costrizione ed
è in grado di viverlo pienamente: «Tra tutti, solo
coloro che si dedicano alla saggezza sono nella quiete, solo essi
vivono» (De brev. 14, 1).
Con il piglio del grande moralista (nel senso più ampio di
indagatore di mores) Seneca passa in rassegna il desolante spettacolo
dellalienazione umana: «suus nemo est», sentenzia
il filosofo osservando le vite non vissute, il tempo dissipato,
la saggezza trascurata. Solo il saggio sa che la vera cassaforte
è lanima, perché racchiude e protegge beni che
non si disperdono.
Ma luomo può contare per la sua anima su una prospettiva
ultraterrena? Nelle Lettere a Lucilio Seneca accenna a questo: «Come
il grembo materno ci tiene nove mesi per sé, ma per prepararci
a quel luogo in cui veniamo alla luce, così, nel periodo
della nostra vita che va dallinfanzia alla vecchiaia, diventiamo
maturi per un altro parto. Ci attende unaltra nascita, un
altro ordine di cose. Perciò, rivolgi il pensiero senza trepidazione
a quellora decisiva: non è lultima per lanima,
ma per il corpo... quel giorno che temi come lultimo è
il primo delleternità». Qui emerge la consapevolezza
di essere parte di un disegno divino che ci proietta oltre, verso
quelle realtà ultime che ci trascendono. La nostra anima,
nella quale tutto custodiamo gelosamente, ci traghetta nelleternità,
oltre gli angusti limiti della condizione umana.
A poco meno di duemila anni dal suo suicidio, Seneca resta una delle
voci più alte dellantichità e un monito per
i nostri giorni, nei quali la ricerca della saggezza, la cura interiore,
la politica dello «iuvare alios» sembrano voci sistematicamente
fuori dal coro. E poi, in tempi in cui la dissipazione della propria
vita sembra un imperativo tragico e irrinunciabile, questi nostri
terribili anni ruggenti e famelici, quellinquieto cantore
dellanimo umano insegna a non sprecare nulla del nostro tempo,
neppure un giorno. E in un giorno lo sappiamo cè
tutto: la luce, la penombra, lombra.
antonio sanfrancesco
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Non è solo la sussidiarietà che
può sanare lo storico disagio della nostra scuola, Occorre
investire di più e in maniera migliore nella scuola per avere
più laureati, più personale specializzato, strutture
adeguate, meno analfabeti
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Autonomia & riforme
La sussidiarietà
fa scuola
Tra i settori della vita umana e pubblica, quello scolastico rappresenta
sempre di più un aspetto rilevante per i suoi riflessi di
ordine sociale, politico ed economico. La scuola in Italia interessa
milioni di famiglie e il suo funzionamento richiede allo Stato centinaia
di milioni di euro ogni anno. Pertanto, deve ritenersi necessario
il coinvolgimento generale di cittadini, enti e istituzioni, perché
sia salvaguardato il rapporto qualità-prezzo.
Il nuovo sistema scolastico in corso di attuazione è il risultato
di un insieme di leggi e decreti varati nellultimo decennio
o, comunque, conseguenza di un processo che mira a decentrare poteri
e responsabilità dello Stato verso le autonomie locali, Regioni,
Province, Comuni e istituzioni scolastiche periferiche della stessa
amministrazione.
Si è andata accreditando sempre più la convinzione
che in una nazione moderna meglio dello Stato, gli Enti locali e
gli stessi cittadini possano organizzare e gestire i servizi e le
prestazioni necessari per soddisfare i bisogni del loro territorio.
Questa convinzione si fonda su un concetto denominato sussidiarietà,
entrato nel nostro ordinamento attraverso la Carta europea delle
autonomie locali firmata a Strasburgo nel 1985, riconosciuto dal
Trattato di Maastricht nel 1991 e più vicino a noi affermatosi
con la legge Bassanini, nel 1997.
Ne è scaturita unopera di semplificazione nei rapporti
tra cittadini e pubblica amministrazione dettata dalle nuove norme
che, pur lasciando allo Stato per ora poteri unificanti
di indirizzo generale, di salvaguardia al tempo stesso dellunità
nazionale e delle esigenze proprie delle comunità locali,
ha distribuito tra Regioni, Province, Comuni un complesso di funzioni,
compiti e responsabilità amministrative. Ciò è
avvenuto anche nella gestione del servizio scolastico con il ridimensionamento
delle competenze dello stesso Ministero della Pubblica Istruzione
che ha passato molte delle sue tradizionali e storiche funzioni
alle nuove Direzioni scolastiche regionali, ai Centri scolastici
amministrativi provinciali; a loro volta, hanno assunto compiti
di funzionamento scolastico le Province, i Comuni, mentre alle Istituzioni
scolastiche sono stati concessi larghi margini di autonomia in campo
organizzativo, didattico e di ricerca e sviluppo.
È noto che il perfezionamento di questo processo si avrà
con la definitiva approvazione della legge sulla Devolution,
che assegna esclusiva (non più concorrente) potestà
legislativa alle Regioni anche in materia di istruzione.
Il principio di sussidiarietà, limitando i poteri dello Stato
a favore della società, vietandogli di intervenire di sua
iniziativa su ciò che i cittadini possono fare da soli, rafforza
i princìpi generali di libertà e di democrazia. LAmministrazione
centrale dello Stato, quindi, ha il dovere di creare le condizioni
che permettano alla persona e alle aggregazioni sociali, famiglia,
associazione, gruppo, scuola, di agire liberamente, secondo i propri
bisogni ed esigenze, senza decidere per loro. Lintervento,
che potremmo chiamare subsidium, dalla radice di sussidiarietà,
dello Stato è giustificato, e in modo temporaneo, solo nelle
situazioni, nei casi in cui i singoli gruppi che compongono la società
non siano in grado di farcela da soli. Inoltre, è da ricordare
che per il principio di sussidiarietà lintervento della
mano pubblica deve essere portato dal livello più vicino
al cittadino; da ciò deriva che, in caso di necessità,
il primo ad agire sarà il Comune, quindi le altre istituzioni.
Per completezza, va detto che questo tipo di sussidiarietà
si chiama verticale, per distinguerlo da quello orizzontale,
dove tra enti o gruppi non cè dipendenza, come è
nel rapporto tra scuola e famiglia.
Che il principio di sussidiarietà si ispirasse a criteri
di giustizia, libertà e democrazia fu avvertito storicamente
già dalla dottrina sociale della Chiesa, come si desume dallEnciclica
Rerum Novarum (1891, Papa Leone XIII) e, soprattutto, dalla formulazione
che ne fa la Quadragesimo Anno di Pio IX (1931), dove si afferma
che «non è lecito togliere agli individui ciò
che essi possono compiere con le loro forze e lindustria propria,
per affidarlo alla Comunità
».
La sussidiarietà è un concetto che riguarda ormai
tutti i sistemi organizzativi ed è presente nella nostra
Costituzione allorché, al nuovo art. 118 del Titolo V, attribuisce
ai Comuni, Province e Regioni le funzioni amministrative prima esercitate
dallo Stato e lautonoma iniziativa sulla base dei princìpi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
La riforma della scuola, conferendo alle istituzioni scolastiche
la capacità di autogestione, ha applicato il principio di
sussidiarietà che, nelle sue articolazioni, implica i seguenti
assunti:
a) i livelli più elevati non devono prendere decisioni che
concernono quelli più bassi e a dimensione minore, se questi
ultimi sono capaci di farlo da soli;
b) i livelli superiori o di maggiore dimensione non devono limitare
il pieno manifestarsi delle capacità dei singoli e delle
comunità a fare da soli;
c) ad ogni livello e dimensione della società va rafforzata
la capacità di autogoverno del cittadino e della sua comunità
di riferimento, assegnando loro il diritto di organizzare e gestire
direttamente funzioni di carattere pubblico.
Se così stanno le cose, perché stracciarsi le vesti,
remare contro, rifiutare e boicottare la riforma della scuola, dal
momento che il nuovo impianto non fa che consegnare il funzionamento
del sistema dalle mani dello Stato a quelle dei cittadini, delle
istituzioni amministrative e scolastiche locali e delle famiglie?
In sede di programmazione, realizzazione, valutazione del processo
educativo, le nuove norme non fanno che ribadire:
- «la primaria responsabilità educativa dei genitori»;
- «la personalizzazione dei piani di studio, tenendo conto
delle prevalenti richieste delle famiglie»;
- «lorganizzazione in rete delle istituzioni scolastiche,
al fine di ampliare e razionalizzare le scelte delle famiglie»;
- «il costante rapporto con le famiglie e con il territorio
nello svolgimento delle funzioni di orientamento in ordine alla
scelta delle attività didattiche».
Anche se il principio di sussidiarietà ha una matrice essenzialmente
economica, vediamo subito che è ravvisabile lestensione
alla vita scolastica. Scaturiscono, infatti, dallo stesso principio
lautonomia didattica, organizzativa, di ricerca e di sviluppo
attribuita alle scuole, la facoltà concessa alle istituzioni
scolastiche e ai singoli insegnanti di elaborare i percorsi didattici
personalizzati sulla base di obiettivi specifici di apprendimento
non più inseriti in un programma nazionale prescrittivo.
Tutor, portfolio, apporto diretto e indiretto
delle famiglie sono gli strumenti di una nuova scuola che intende
crescere accanto e non al di sopra dello studente e delle famiglie.
Né va dimenticato che la nuova normativa scolastica è
il prodotto di mezzo secolo di studi, di ricerca e di sperimentazioni
e, pertanto, merita la fiducia dei docenti e dei genitori, ai quali
la riforma riconosce libertà di scelta e responsabilità
nelle decisioni dei percorsi formativi, senza i defatiganti obblighi
di assicurare lo svolgimento dei programmi ministeriali prescrittivi
e generalizzati in un tempo definito che non è mai bastato,
come sanno bene gli insegnanti. Il peso e lonere di questa
libertà e responsabilità possono sì frastornare
gli addetti ai lavori e le stesse famiglie, refrattari, come sempre,
a condividere nuove strategie e nuovi ordinamenti, ma non sono che
lapplicazione scolastica del principio di sussidiarietà
su cui si fonda ogni autentica vita democratica, che nel passato
è stato ignorato o sostituito da certezze nella delega ai
poteri dellamministrazione centralizzata.
Occorre, però, anche dire che la sussidiarietà può
comportare a volte ombre nel nuovo welfare state, per
la gestione e luso delle risorse, linesorabile logica
del mercato, gli antichi e presenti problemi della scuola italiana,
primo fra tanti quello di natura economica. Infatti, non è
solo la sussidiarietà che può sanare lo storico disagio
della nostra scuola, dovuto soprattutto a fattori di natura economica.
Occorre investire di più e in maniera migliore nella scuola
per avere più laureati, più personale specializzato,
strutture adeguate, meno analfabeti; si auspica una scuola di qualità
che non si trascini da un contratto allaltro, da una riforma
allaltra, sempre lesinando risorse e influendo negativamente
sul complesso sistema sociale. Infatti, non è del tutto estranea
la nostra precarietà scolastica al fatto che, pur «essendo
lItalia la sesta economia del mondo, [
] per reddito
lordo pro capite corretto in base al potere dacquisto, scivoliamo
al ventottesimo posto, mentre la nostra quota nel commercio mondiale
è diminuita di un quinto».
Ben venga, quindi, la devolution in fatto di istruzione, a condizione
che listituto regionale riesca a dare una sterzata nellamministrazione
della scuola pubblica tale da farla uscire dalle secolari incertezze,
assicurando prospettive e risultati degni della nostra storia culturale.
raffaele greco
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Laltra guerra del Sud
E non verranno i
briganti
A presentare lAutore bastano la chiarezza della sua prosa,
la cura insolita della bibliografia e delle fonti storiche, limpianto
finalmente chiarificatore di un argomento non sempre trattato con
il rispetto che meritava e la tesi, una buona volta «dissacrante
e decisamente critica nei confronti della vulgata filorisorgimentale».
In epoca di rispolverate marce, in mezzo a bandiere che retoricamente
sventolano oserei dire per esorcizzare gli spiriti
maligni..., una lettura in chiave non deamicisiana fa bene alla
nostra salute culturale.
Intanto, il termine brigantaggio aveva bisogno di essere
rivisto e corretto. Troppo facile e superficiale quel «si
gettavano alla campagna e alla foresta per far guerra al governo
costituito» di certi spicciativi vocabolari etimologici
(?), troppo disinvolti, se non romantici.
Rimando perciò alle pp. 64 e 65 del primo libro citato, dove
spicca una provvidenziale quanto poco nota definizione del termine,
fornita «il 6 agosto 1993 dallo storico Francesco Pappalardo,
durante una lezione tenuta presso lUniversità di Madrid».
Pochi lo sapevano, in verità. Io no.
Questa è una delle tante scoperte che Carlo Coppola ci regala
allimprovviso, senza alcun sussiego accademico. Leggetela
e meditatela con attenzione. Non mancano poi riproduzioni di rarissime
foto, che valgono un capitolo sulla controffensiva governativa,
caratterizzata dalla Legge Pica (15 agosto-31 dicembre 1865). Vedasi
a pag. 72: «La brigantessa Michelina De Cesare in posa nel
1862, con fucile e pistola; e in una foto piemontese del 1864 denudata,
seviziata e uccisa». Chi lavrebbe detto!
Ma il grande pregio di questo libro troppo breve consiste nellaver
saputo evidenziare, pur tra un dotto particolare e laltro,
verità nascoste, più una sacrosanta guerra che non
conoscevamo nel giusto: quella che il meritevole Autore chiama,
a buon diritto, «la guerra dindipendenza del Sud».
Purtroppo la mia è soltanto una segnalazione, non una vera
e propria recensione. Amo questa terra e la sua gente: ovviamente
non potevo esimermi...
Dalla presentazione di Rocco Alberto De Luca, per segnalare anche
il secondo libro: «[...] Le popolazioni salentine si ribellarono
con forza allinvasione piemontese e formazioni di ribelli,
composte da ex soldati borbonici, da giovani renitenti di leva,
da semplici contadini che non difendevano nientaltro che il
proprio diritto di sopravvivere e persino da preti, dettero battaglia,
per anni, alla Guardia Nazionale e ai reparti piemontesi giunti
ad imporre il nuovo ordine di cose».
In unepoca in cui gli eroi si sprecano, mi sia lecito sottoscrivere
in pieno questaltra citazione amara: «Fu una resistenza
disperata ed irriducibile quella che operarono i nostri padri in
quello che rappresentò, forse, lultima fiammata di
un orgoglio meridionale del quale sembra si sia persa traccia».
Fra le tante affermazioni che hanno fatto bene alla mia salute culturale,
vè subito questa, a pag. 11 della Premessa: «LItalia
una è, purtroppo, un abile falso, una menzogna e una vergogna».
Questo è parlar chiaro!
Seguono le non prevenute spiegazioni di una simile coraggiosa affermazione.
Niente paura. Carlo Coppola ama appassionatamente lItalia
«divorata» (Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, 1954),
però ama anche la storia che non dice bugie, non certo quella
delle «favole ancora oggi pervicacemente tramandata dai libri
di storia scolastici».
Seguono pagine che meriterebbero ben più attenta e profonda
lettura. Qui, posso appena complimentarmi per gli Elementi Generali,
che danno corpo, commosso e documentato in una, al primo capitolo.
Dopo, ve nè per tutti i gusti. A mio avviso, Il
Salento e la questione agraria e La repressione e la
fine delle speranze borboniche si distinguono veramente come
chicche culturali per palati fini.
Insomma, sono state due letture nuove e sorprendenti, delle quali
confesso avevo un grande bisogno. Le Conclusioni
dellAutore sono di una severità storica assai rara
di questi tempi. Il fatto è che soltanto ora molte cose appaiono
chiare.
Quale vecchio, stantio professore di storia, ho imparato molta storia
da uno scritto non destinato ai professori di storia (tautologia
intensiva!). La sola volta che non sono daccordo con lAutore,
quando con eccessiva umiltà scrive: «Uno scritto più
articolato e completo esula dalle mie possibilità di studioso
amatoriale e forse anche dalle mie capacità di apprendista
scrittore». Nientaffatto, è riuscito benissimo
nel suo intento, senza rinunciare alla necessaria crudeltà
del chirurgo determinato
florio santini
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Ballata per un fascio di luci
Se ha un colore la
bellezza
Se esiste un mondo fatto tutto di colore, se può essere
solo colore lesistenza e lessenza delle cose, del paesaggio,
solo colore un raggio di sole, solo colore il tempo che passa, la
dolcezza o la rabbia, la disperazione o la speranza, se il buio
e la luce, la memoria e la storia, un passo di madre nella penombra
di una stanza, possono essere solo colore, allora tutto questo può
accadere, tutto questo può essere negli oggetti della pittura
di Pasquale Pitardi. Nelle sue forme, nelle sue riverberanze, nelle
sue opacità o nelle sue trasparenze, nelle sue pennellate
rapide o lente, che esprimono lansia della ricerca di una
coincidenza con il respiro delluniverso.
Se esiste unorigine e un fine che non sia altro che colore;
se la morte e la vita hanno un colore; se il respiro di un uomo,
il silenzio, la parola, un ritmo, un pensiero, unillusione,
un dolore, un amore non sono altro che grumo di colore, e se poi
una dolcezza o unamarezza, una stagione presente o passata,
un sentimento o una foglia accartocciata hanno un colore, allora
tutto questo ha il colore che dà Pasquale Pitardi.
Se il giorno che va e il giorno che viene hanno un colore. Se quello
che è stato e che sarà hanno un colore. Se ha un colore
la bellezza, la continua scoperta della propria presenza in un luogo
e in un tempo, se hanno un colore la felicità e lo spavento
che può venire e viene da questa scoperta.
Se ha un colore ogni cosa perduta e ogni cosa che resta, allora
tutto questo ha il colore di quella stanza in cui Pasquale Pitardi
impasta i suoi colori.
antonio errico
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