Settembre 2005

Problemi della globalizzazione

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Chi ha paura della Cina?
Henry Kissinger  
 
 

 

 

 

 

La sfida
rappresentata dalla Cina,
in un futuro a medio termine, sarà molto
probabilmente
politica
ed economica,
non militare.

 

L’ascesa della Cina – e dell’Asia in generale – nei prossimi decenni porterà a un riordinamento sostanziale del sistema internazionale. Il centro di gravità degli affari si sta spostando dall’Atlantico, dove è rimasto per gli ultimi tre secoli, al Pacifico. I Paesi che godono dei ritmi più alti di sviluppo sono in Asia e la loro crescita giustifica la loro visione dei propri interessi nazionali.
Il ruolo emergente della Cina viene spesso paragonato a quello della Germania imperiale all’inizio del secolo scorso, con l’implicazione che un confronto strategico è inevitabile e gli Stati Uniti farebbero bene a prepararsi. Questa idea è pericolosa quanto sbagliata. Il sistema europeo del XIX secolo presumeva che le maggiori potenze alla fine avrebbero difeso i loro interessi con la forza. Ogni nazione pensava che la guerra, se ci fosse stata, sarebbe stata breve e alla fine avrebbe giovato alle sue posizioni strategiche.

Solo degli avventati potrebbero fare gli stessi calcoli in un mondo globalizzato pieno di armi nucleari. Una guerra tra le maggiori potenze sarebbe una catastrofe per tutti i partecipanti; non ci sarebbero vincitori, e il fardello della ricostruzione farebbe sembrare ridicole le cause del conflitto. Quale dei leader che così spensieratamente si lanciarono nella Prima guerra mondiale, nel 1914, non si sarebbe tirato indietro se avesse potuto immaginarsi il mondo nel 1918? Noi oggi ne conosciamo bene le conseguenze, e statisti saggi faranno il possibile per impedire il ritorno del mortale calcolo che, dopo l’ascesa della Germania, ha trasformato il sistema internazionale in una profezia che si autoavvera.
Oggi l’imperialismo militare non è nello stile cinese. Von Clausewitz, il principale teorico della strategia occidentale, parla della preparazione e della conduzione di una battaglia centrale. Sun Tzu, la sua controparte cinese, focalizza il suo insegnamento sull’indebolimento psicologico dell’avversario. La Cina persegue i suoi obiettivi con lo studio attento, la pazienza e l’attenzione alle sfumature. Solo raramente rischia un showdown del tipo “il vincitore si prende tutto”.
È poco saggio sostituire nella nostra mente l’Unione Sovietica con la Cina e applicare ad essa la politica del contenimento militare della Guerra fredda. L’Unione Sovietica era erede di una tradizione imperialista che tra Pietro il Grande e la fine della Seconda guerra mondiale ha proiettato la Russia dalla regione che circondava Mosca al centro dell’Europa. Lo Stato cinese nelle sue dimensioni attuali esiste da circa duemila anni. L’Impero russo era governato con la forza, l’Impero cinese lo è dalla conformità culturale.
L’equazione strategica dell’Asia è diversa. La politica americana in Asia non deve farsi elettrizzare dalla crescita militare cinese. Non c’è dubbio che la Cina stia accrescendo il suo potenziale militare, trascurato nella prima fase delle riforme economiche. Ma anche prendendo per buone le massime stime, il bilancio militare cinese è del 20 per cento inferiore a quello americano, raggiunge a malapena quello giapponese e ovviamente è di gran lunga inferiore ai bilanci militari sommati dei tre Paesi che confinano con la Cina: Giappone, India e Russia. Per non parlare poi della modernizzazione militare di Taiwan, sostenuta grazie alle decisioni prese in America nel 2001. Russia e India possiedono armi nucleari. In una crisi che minaccia la sua stessa sopravvivenza, il Giappone potrebbe rapidamente dotarsene e potrebbe anche farlo formalmente se il problema nucleare della Corea del Nord non verrà risolto.
Quando la Cina ribadisce le sue intenzioni alla cooperazione e nega di voler lanciare una sfida militare, esprime non tanto una preferenza, quanto la realtà strategica. La sfida rappresentata dalla Cina, in un futuro a medio termine, sarà molto probabilmente politica ed economica, non militare.

Il problema di Taiwan è un’eccezione e spesso viene menzionato come qualcosa in grado di far accendere la miccia. Ciò potrebbe accadere se entrambe le parti abbandoneranno il vincolo che per più di una generazione ha condizionato i rapporti tra Usa e Cina in merito. Ma non è affatto inevitabile.
Quasi tutti i Paesi – e tutte le maggiori Potenze – hanno riconosciuto le rivendicazioni della Cina, che considera Taiwan parte del suo territorio. Così hanno fatto anche sette Presidenti americani di entrambi i partiti, e nessuno con più enfasi di George W. Bush. Entrambe le parti hanno gestito con qualche abilità gli eventuali imbarazzi provenienti da questo stato delle cose. Le relazioni cino-americane migliorarono basandosi su tre princìpi: il riconoscimento americano del principio di “una sola Cina” e l’opposizione a una Taiwan indipendente; la comprensione da parte della Cina del fatto che l’America chiede una soluzione pacifica ed è pronta a difendere questo principio; il vincolo assunto da tutte le parti di non esacerbare la tensione negli Stretti di Taiwan.
Questo equilibrio delicato si è mantenuto per 33 anni. L’obiettivo è ora inserire l’argomento di Taiwan in un contesto negoziale. La recente visita a Pechino dei leaders di due dei tre maggiori partiti taiwanesi potrebbe esserne un presagio. Negoziati sulla riduzione della tensione negli Stretti di Taiwan sembrano fattibili.
Con rispetto per l’equilibrio globale, la numerosa e istruita popolazione cinese, i suoi vasti mercati, il suo ruolo ormai di spicco nell’economia mondiale e nel sistema finanziario globale, tutto ciò prospetta una crescente capacità di imporre incentivi e rischi, di avere una moneta di influenza internazionale. Piuttosto che pensare di distruggere la Cina come entità funzionante, bisognerebbe pensare a questa capacità come intrinseca nell’economia e nei processi finanziari globali, ed è l’America stessa ad aver contribuito ad alimentarla. In questo contesto, lo storico obiettivo americano di opporsi all’egemonia in Asia – annunciato per la prima volta nel 1972 come obiettivo comune con la Cina nel Comunicato Ufficiale di Shanghai – resta valido. Ma dovrà venire raggiunto con strumenti politici ed economici, già sostenuti dal potere americano.
Ci sarà un test per le intenzioni cinesi: se la Cina userà la sua potenza montante per cercare di escludere l’America dall’Asia o se essa farà parte di uno sforzo congiunto. Paradossalmente, la migliore strategia per conseguire obiettivi anti-egemonia è mantenere rapporti stretti con tutti i maggiori Paesi asiatici, Cina inclusa. In questo senso, l’ascesa dell’Asia sarà un test per la competitività americana nel mondo che sta emergendo, specialmente nei Paesi asiatici.
La grande maggioranza delle nazioni vede il proprio rapporto con l’America attraverso la lente dei propri interessi. In un confronto tra Cina e Usa cercheranno di evitare di schierarsi. Nello stesso tempo hanno maggiori incentivi a partecipare a un sistema multilaterale con l’America piuttosto che optare per un nazionalismo esclusivamente asiatico. Non vorranno venire visti come tasselli di un mosaico americano. L’India, per esempio, ha con gli Usa interessi comuni persino più importanti per quanto riguarda la lotta all’Islam radicale, alcuni aspetti della proliferazione nucleare e l’integrità dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico. Non sente alcun bisogno di conferire a questi obiettivi comuni un carattere ideologico oppure anticinese. Non trova nessuna contraddizione tra i propri rapporti con gli Usa, in netto miglioramento, e la proclamazione di una partnership strategica con Pechino.
La Cina sta cercando una cooperazione con gli Stati Uniti nel proprio interesse e per numerose ragioni, inclusa la necessità di colmare il divario tra le proprie regioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, o l’imperativo di adeguare le proprie istituzioni politiche all’acceleramento della rivoluzione economica e tecnologica. Una Guerra fredda con l’America potrebbe avere un impatto catastrofico sull’incremento del tenore di vita, dal quale dipende la legittimazione del governo. Ma da tutto ciò non consegue che ogni danno inferto alla Cina in una Guerra fredda si trasformerebbe in un beneficio per l’America. Avremmo pochi seguaci in Asia, i cui Paesi continuerebbero a commerciare con la Cina.
L’argomento dell’arsenale nucleare nordcoreano è un test importante. Esso viene spesso presentato come un esempio dell’incapacità dei cinesi di sfruttare tutto il loro potenziale. La pazienza della Cina nel maneggiare questo problema irrita alcuni politici americani. Ma essa parzialmente riflette la realtà: il problema nordcoreano è molto più complesso per la Cina che per gli Stati Uniti. L’America si concentra sulle armi nucleari, ma la Cina teme il potenziale caos lungo le sue frontiere. Queste preoccupazioni non sono in contraddizione e possono richiedere l’estensione del dibattito dalla Corea del Nord a tutto il Nord-Est asiatico.
I comportamenti sono psicologicamente importanti. La Cina deve essere prudente con le politiche che sembrano escludere l’America dall’Asia, e con la nostra sensibilità ai dossier sui diritti umani che influenzerà la flessibilità e le azioni dell’America nei confronti della Cina. L’America deve capire che un tono minaccioso evoca in Cina ricordi di arroganza imperialista e non è adatto a trattare con un Paese che ha alle spalle quattromila anni di sovranità ininterrotta.
All’inizio del nuovo secolo le relazioni tra Cina e Stati Uniti possono decidere se i nostri figli vivranno uno sconvolgimento persino peggiore di quello del Novecento, oppure se assisteranno alla nascita di un nuovo ordine mondiale compatibile con le aspirazioni universali per la pace e il progresso.

 

   
   
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