Settembre 2005

Oltre il petrolio

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Strategie divergenti
Jeremy Rifkin Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

A quel punto
i Paesi ancora
dipendenti dal
petrolio saranno costretti ad una feroce lotta
geo-politica che garantisca un
accesso ai
rimanenti pozzi mediorientali.

 

Il 26 settembre 2002 il mondo diede uno sguardo al futuro. La General Motors aveva debuttato al Paris Motor Show con una rivoluzionaria auto a idrogeno, l’elemento più basilare e leggero dell’universo, che, bruciando, emette soltanto acqua pura e calore. Quell’automobile è costruita su un telaio a pila a combustibile che dura vent’anni. Gli acquirenti potranno così cambiare modello ogni volta che lo desiderino. Niente volante, pedali, freni, motore: si guida con un joystick. È una vettura d’avanguardia, adatta alla generazione “dot.com”.
Un dettaglio molto interessante è che, sebbene il prototipo sia stato finanziato dalla GM, gran parte dell’ingegneria, del design e del software è stata sviluppata in Europa. Il veicolo indica l’inizio della fine del motore a combustione interna, e il passaggio da una civiltà basata sul petrolio ad una civiltà fondata sull’idrogeno. E il debutto in Europa la dice lunga sul grande mutamento, ma anche sul diverso modo in cui Europa e America vedono il proprio futuro.
L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno iniziato a percorrere strade divergenti su uno degli aspetti fondamentali che caratterizzano una società: il suo regime energetico. Questa nuova realtà è emersa particolarmente evidente al vertice mondiale tenuto a Johannesburg, dove l’Unione europea ha insistito perché tutti i Paesi del mondo raggiungano entro il 2010 un target del 15 per cento di energia rinnovabile, iniziativa che gli Usa hanno fortemente contrastato. L’Ue ha già stabilito l’obiettivo interno, che prevede il raggiungimento, entro quella data, del 22 per cento di energia rinnovabile per la produzione di elettricità, e del 12 per cento per tutta l’energia proveniente da fonti rinnovabili.
La differenza di approccio per quanto riguarda il futuro dell’energia non potrebbe essere più assoluta. Mentre l’Ue inizia a mobilitare il proprio settore industriale, i propri istituti di ricerca e l’opinione pubblica per una storica transizione che li allontanerà dai combustibili-fossili e li condurrà verso un futuro di idrogeno e risorse rinnovabili, gli Usa cercano disperatamente di assicurarsi un maggiore e più sicuro accesso al petrolio. Ne è una prova l’ossessione quasi fanatica del presidente Bush di voler aprire in Alaska una riserva-rifugio per l’estrazione del petrolio mai utilizzato finora, sebbene le stime più ottimistiche indichino in quell’oro nero un livello del solo 1 per cento rispetto alla produzione globale.
Nei circoli politici americani si sta facendo strada l’ipotesi che l’attacco all’Iraq sia stato determinato anche dal fatto che questo Paese possiede la seconda più grande riserva petrolifera del mondo dopo l’Arabia Saudita. Controllati quei pozzi, gli Usa godrebbero di una nuova strategica posizione di influenza nel Golfo Persico, facendo così da contrappeso all’influenza saudita nell’area. Nel frattempo, se dovesse fallire questa strategia, un accordo con Putin garantirebbe all’America il petrolio della Siberia. Certo, quel che non è stato detto nell’euforia che circola intorno alla ricerca di una possibile alternativa al petrolio del Golfo è che le riserve petrolifere rimaste alla Russia sono pari a meno della metà di quelle arabe. Esse si stanno esaurendo velocemente, con l’entrata nel mercato mondiale di compagnie petrolifere russe. È allora evidente che, mentre l’Ue guarda al futuro, gli Usa cercano disperatamente di aggrapparsi al passato.
Il mondo si sta muovendo verso un’era che vede il tramonto della grande cultura del combustibile-fossile, una cultura avviata oltre trecento anni fa con l’utilizzo della forza motrice del carbone e del vapore. I più eminenti petro-geologi del mondo non sono concordi nel definire quando esattamente la produzione globale di petrolio raggiungerà la sua punta massima, cioè il momento in cui la metà delle riserve di petrolio conosciute e quelle già individuate o ancora da scoprire saranno già state utilizzate.
Una volta raggiunto quel punto, il prezzo del petrolio sui mercati mondiali salirà costantemente, mentre la produzione di oro nero diminuirà, tracciando la classica curva a forma di campana.
Le Cassandre del settore affermano che la punta massima di produzione sarà raggiunta con ogni probabilità alla fine di questo decennio, e comunque non più tardi del 2020. Gli ottimisti, invece, sostengono che il picco di produzione globale non si verificherà fino al 2040. Ciò che in ogni caso colpisce è che, in entrambi i casi, si parla di un breve arco di tempo: venti, al massimo trent’anni. L’elemento su cui tutti sembrano concordare è che una volta raggiunta la punta massima di produzione globale di petrolio, i due terzi delle rimanenti riserve saranno in Medio Oriente, la regione politicamente più instabile e volubile del pianeta. Ciò significa che a quel punto i Paesi ancora dipendenti dal petrolio saranno costretti ad una feroce lotta geo-politica che garantisca una continuità di accesso ai rimanenti pozzi del Medio Oriente, con tutti i rischi e le conseguenze che una realtà del genere comporta.
In prospettiva, la differenza tra Europa e America su questo punto si riscontra negli atteggiamenti delle grandi compagnie petrolifere mondiali. I giganti europei del petrolio, come la British Petroleum e la Royal Dutch Shell, hanno preso un impegno a lungo termine per prepararsi alla transizione che li porterà fuori dal mercato dei combustibili-fossili, e stanno investendo grosse cifre sulla ricerca o lo sviluppo dell’idrogeno e di altre forme di tecnologia rinnovabile.
Il nuovo slogan della Bp è “Beyond Oil” (“Oltre il petrolio”). E il presidente del CdA della Dutch Shell ha pubblicamente affermato che la sua compagnia si sta preparando per la fine dell’era degli idrocarburi e sta attivamente esplorando la promessa dell’economia a idrogeno.
Al contrario, le compagnie americane, come la Exxon Mobil, sono rimaste ancorate ai combustibili-fossili e dedicano ben pochi sforzi alla ricerca di fonti di energia rinnovabile e allo sviluppo dell’idrogeno. L’Unione europea si trova in una posizione unica per avanzare una pretesa sul futuro e diventare la prima superpotenza a dire addio all’oro nero e ad entrare nell’era dell’idrogeno. Con tutta probabilità, un cambiamento di regime energetico di queste proporzioni avrà nel corso del prossimo mezzo secolo un impatto sociale tanto profondo quanto quello del carbone e del vapore di tre secoli fa.
L’era del combustibile-fossile cambiò il nostro stile di vita, la nostra idea di commercio e di governo, nonché i valori secondo i quali ancora oggi viviamo. La prossima economia a idrogeno farà altrettanto. Ad un certo momento, l’Europa si dirigerà verso un nuovo futuro energetico. Quando ciò accadrà, come per effetto di un grande maremoto, gli Stati Uniti saranno costretti a ripensare il proprio futuro energetico. L’ultima volta che gli Usa sono stati risvegliati dal proprio sonnambulismo fu nel 1956, quando i russi mandarono il loro primo satellite nello spazio. Colti di sorpresa, mobilitarono ogni risorsa della società americana pur di raggiungere e sorpassare i sovietici. Forse questo è il tempo di un altro scossone.

 

   
   
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