Settembre 2005

La lezione di Benes

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L’Europa del futuro
Václav Havel Presidente della Cecoslovacchia e primo Presidente della Repubblica Ceca
 
 

Resuscitare
i fantasmi dei vecchi nemici
è diventata una moda nell’Europa centrale: questi
fenomeni non
devono essere
l’inizio discreto
di una deriva
funesta per il
nostro Continente.

 

L’Europa è un continente particolarmente frammentato e differenziato. Ma fin dalla notte dei tempi il destino ha voluto che le sue diverse componenti fossero così strettamente interdipendenti e legate fra di loro che oggi possiamo considerarle come una sola entità. Anche il minimo movimento che si registri in qualsiasi campo dell’attività umana ha degli effetti diretti o indiretti sull’insieme del nostro continente. Ogni volta che un francese, un olandese, un ceco o un tedesco credono di pensare esclusivamente ai fatti propri, compiono in realtà degli atti il cui impatto e significato coinvolgono tutti gli altri Paesi.
La Repubblica Ceca si trova nel cuore stesso dell’Europa, in un’enclave esposta ad ogni forma di violenza. Qui sono nati o finiti buona parte dei conflitti europei. Noi dell’Europa centrale abbiamo un’esperienza diretta del grado di interdipendenza che raccorda le diverse componenti dell’Europa in quanto realtà politica. Ecco perché sentiamo con più forza di altri la nostra responsabilità nei confronti della storia europea e comprendiamo con maggiore chiarezza che la costruzione dell’Europa costituisce un’occasione unica per noi e per tutto il Continente.

Nei momenti cruciali della storia europea la nostra posizione geografica ha sempre messo sia noi sia i nostri dirigenti di fronte a dilemmi terribili. Dobbiamo far soffrire il popolo sottoponendolo a un diktat oppure fargli altrettanto male respingendolo? Dobbiamo optare per una soluzione cosiddetta pragmatica oppure fare una scelta etica?
Fu questa l’alternativa crudele di fronte alla quale il diktat di Monaco mise il presidente ceco Edvard BenesŠ , nel settembre del 1938. Egli sapeva benissimo che le condizioni erano state dettate da un pazzo e che i nostri alleati del tempo le avevano in seguito ratificate, tradendo non solo i trattati internazionali, ma anche i loro valori fondanti. Nell’interesse dell’onore nazionale e per salvaguardare la nazione sarebbe stato giusto non piegarsi. Ma BenesŠ sapeva che questo voleva dire migliaia e migliaia di morti e un Paese distrutto, senza contare la sconfitta militare, quasi certa, nelle mani di un avversario infinitamente più potente.
Negli anni Trenta BenesŠ incarnava le migliori tradizioni del nostro Continente. Aveva preso parte alla creazione della Società delle Nazioni, dedicava il suo tempo alla costruzione di rapporti pacifici tra gli Stati ed era una delle voci autorevoli che metteva in guardia l’Europa contro il pericolo nazista. Con la lucidità e la finezza propria degli abitanti dell’Europa centrale capì in anticipo le atrocità a cui si andava incontro e si adoperò senza successo per svegliare l’Occidente apatico. Sfidando l’opposizione dei nazionalisti cechi e del partito dei tedeschi dei Sudeti di Henlein, egli aprì le frontiere a migliaia di rifugiati tedeschi e austriaci che nella seconda metà degli anni Trenta trovarono in Cecoslovacchia il rifugio più accogliente d’Europa. Hitler scatenò contro BenesŠ una propaganda odiosa, con alcuni stereotipi che riaffiorano oggi come un fiume sotterraneo.
BenesŠ sapeva che la decisione di respingere il diktat di Monaco avrebbe provocato l’opposizione e l’incomprensione del mondo democratico, il quale l’avrebbe stigmatizzato come un nazionalista ceco nemico della pace e un provocatore che sperava ingenuamente di trascinare le altre nazioni in una guerra rischiosa e inutile. Decise di capitolare senza combattere, convinto di fare un gesto più responsabile del capitolare al prezzo di enormi sacrifici. Malgrado tutto, la guerra ebbe luogo e le perdite umane e materiali furono enormi. Sia i cechi sia coloro che a Monaco avevano sperato ingenuamente di salvare la pace dovettero pagare un tributo altissimo.

Gli accordi di Monaco sono stati un trauma storico che continua a pesare sul modo di ragionare dei cechi di oggi. Nella sua frustrazione, BenesŠ decise di impedire ad ogni costo che accordi del genere potessero essere sottoscritti una seconda volta. La sua famiglia fu deportata per ordine di Hitler e dall’esilio londinese BenesŠ divenne il simbolo della tradizione democratica e della lotta dei cechi contro il nazismo, alla stessa stregua di de Gaulle per i francesi, della regina Wilhelmine per gli olandesi e di Churchill per il popolo britannico. Ricordo ancora quante speranze erano riposte su di lui. Agli occhi del Paese BenesŠ era il garante della libertà, della democrazia, dell’indipendenza, delle prospettive di futuro.
Com’è stato possibile che quest’uomo vecchio e distrutto si sia arreso senza lottare ai golpisti comunisti nel 1948? E ancora, cosa ha condotto questo sostenitore delle migliori tradizioni liberali e democratiche europee, odiato sia dai nazisti sia dai comunisti, a maturare progressivamente l’idea che la pace a lungo termine non poteva essere garantita se non al prezzo dell’espulsione di milioni di tedeschi? Altri uomini politici del tempo, fra i quali Churchill, Roosevelt e i polacchi Sikorski e Mikolajczyk erano dello stesso avviso.
Il comportamento di BenesŠ nelle giornate tragiche di Monaco e nel dopoguerra non cesserà di essere motivo di discussione. Da parte mia, continuo ad avere un giudizio critico sulle decisioni che egli prese nei momenti cruciali. Tutte avevano un punto in comune: il pragmatismo posto al di sopra della soluzione morale.
Ma più che la critica alla capitolazione di fronte al male, mi interessa l’origine del male, il percorso e i meccanismi sociali che lo resero tollerabile. È un fenomeno troppo nascosto, anche se rivelatore della nostra singolare capacità di proiettare le sconfitte su capri espiatori. Non smettere di criticare le loro scelte è un modo di lavare la nostra cattiva coscienza. Anziché seguitare a interrogarmi sulle ragioni che spinsero BenesŠ ad accettare gli accordi di Monaco e l’idea dell’espulsione, voglio pormi un’altra domanda: come ha potuto farlo e perché non ha incontrato alcuna resistenza? Non voglio assolutamente relativizzare il peso della decisione e le responsabilità individuali. Un uomo politico ha il compito di prendere delle decisioni in nome degli altri e ne porta la responsabilità davanti ai propri concittadini, nonché al tribunale della storia.
Sottolineo soltanto che, se vuole essere equo, questo tribunale non deve scaricare l’intera responsabilità su un solo individuo. Gli uomini politici dell’Europa, i giornalisti e le figure pubbliche in genere dovrebbero capire che sono responsabili e delle proprie azioni e della propria passività, specialmente quando soccombono alla tentazione di permettere che il genio malefico del nazionalismo esca dalla lampada o ne ignorano le conseguenze.
Resuscitare i fantasmi dei vecchi nemici è diventata – ahimè – una moda nell’Europa centrale. Non dobbiamo permettere che questi fenomeni siano l’inizio discreto di una deriva funesta per il nostro Continente. Sono certo che i tempi in cui un uomo politico europeo come Edvard BenesŠ fu chiamato ad affrontare dei dilemmi terribili sono lontani. Ma credo che la storia del BenesŠ uomo e statista sia una lezione per il futuro, oltre che una grande tragedia dell’epoca contemporanea. Ogni tragedia è una sfida per l’umanità. La lettura che ne facciamo e le conclusioni che traiamo dipendono prima di tutto dalla nostra coscienza.

 

   
   
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