Settembre 2005

Quale europa

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Le ragioni del futuro
Pierfrancesco Forte  
 
 

 

 

 

Il giallo della Cina ha la tonalità
del mistero, della paura per questo gigante che si è
levato dal sonno
e invade ogni
angolo del pianeta con i suoi beni
di consumo.

 

Proviamo a rendere l’idea con i personaggi di letteratura fantastica. Come il protagonista del racconto di Robert L. Stevenson, anche il Vecchio Continente ha una sua doppia personalità. Il signor Hyde rappresenta l’anima profonda, orgogliosa del suo modello sociale, attaccata al sistema di garanzie, a costo di continuare a vivere al di sopra delle possibilità effettivamente offerte o consentite. Il dottor Jekyll, invece, ha degli sprazzi di lucidità e tiene a portata di mano l’antidoto che gli permette di ritrovare la propria identità.
Anche il Vecchio Continente – oppresso da apparati di welfare pesanti, da una fiscalità esosa, da un eccessivo statalismo, da una prassi di coesione sociale orientata a preservare l’esistente; condannato a stentate performance di sviluppo; invischiato in una rete di regole del mercato del lavoro che minano la competitività e frenano la crescita dell’occupazione – ha saputo, nei passaggi critici della storia recente, iniettarsi quegli anticorpi che ne hanno impedito l’inesorabile declino.
È la logica del “vincolo esterno” usato per obbligarsi a politiche virtuose sul piano interno. Senza il percorso delineato nel Trattato di Maastricht, l’Unione sarebbe ancora a dibattersi con deficit di bilancio devastanti, con degli stock di debito pubblico gravidi di insostenibili interessi. Senza la moneta unica, (il corollario di Maastricht), negli ultimi anni, la speculazione internazionale avrebbe attaccato, a turno, le diverse divise europee, destabilizzandone le economie.
Proprio quando, nelle opinioni pubbliche, perdeva di tono la “spinta propulsiva” prodotta dall’euro e veniva meno l’impegno a proseguire nel risanamento (fino ad aprire la crisi del Patto di Stabilità), i Paesi dell’Ue hanno fatto nuovamente ricorso al “vincolo esterno”, alla pozione che ridona ad Hyde le sembianze di Jekyll.
Nel nostro caso, si tratta dell’allargamento a Est, già avvenuto. Anche se è prevista una fase più o meno palesemente transitoria, che può durare per un certo numero di anni, è certo che sono venute a contatto realtà tra loro molto diverse, che si influenzeranno sempre più reciprocamente.

La creazione di un vasto mercato interno, del quale fanno parte 450 milioni di persone, è destinata a far camminare più velocemente (anche con riguardo alle condizioni di lavoro e di vita) le nuove nazioni (che pure dall’89 in poi hanno compiuto passi da gigante sul piano del risanamento).
Ma le opportunità che questi Paesi offrono al sistema produttivo (in termini di attitudini della forza-lavoro e di convenienza agli investimenti) promuoveranno una sfida continua alla parte ricca (e pigra) del Continente, sul versante degli ordinamenti sociali e dei sistemi di protezione. Le riforme del mercato del lavoro e del welfare diventeranno indispensabili per non subire ogni possibile forma di dumping sociale. Poi verrà anche il momento di una più massiccia circolazione della manodopera. Non sarà più necessario che le imprese italiane ed europee prendano vie africane, ad esempio, alla ricerca di lavoratori con salari orari pari a sottomultipli di quelli medi dell’Europa dei Venticinque.
Il pericolo, semmai, verrà dalle produzioni e dalle esportazioni cinesi, anche se da qualche tempo a questa parte sono le imprese, le case-madri europee (e italiane) a spostare i propri centri di produzione in Cina, reimportando i prodotti, griffandoli e vendendoli a prezzi che, rispetto ai costi complessivi, sono stratosferici.
Come reagire a quest’ultimo dato di fatto? C’è innanzitutto da attendersi una diversa divisione del lavoro, meglio adeguata ai livelli di tecnologia, di know how, di produttività e di servizi che le aree più sviluppate sono in grado di offrire, a fronte di una più ampia dislocazione, soprattutto nei nuovi Paesi, dei settori manifatturieri a minor valore aggiunto e a maggiore intensità di occupazione. Già sappiamo, però, che continueranno ad esserci, da noi, ulteriori cambiamenti profondi anche per gli assetti contrattuali e retributivi, con riflessi sul mercato del lavoro. È il caso dell’agricoltura, il settore assistito per eccellenza, (assorbe quasi la metà delle risorse comunitarie; ed è sotto assedio da parte delle esportazioni da Paesi con manodopera a basso costo), il quale già divide con i nuovi Paesi le misure di protezione assicurate dalla Pac.
Anche per quanto riguarda l’accesso ai benefici dei fondi strutturali, l’Italia non è messa bene: nell’Europa a 25 c’è posto solo per la Calabria. È bene dunque aprire un dibattito serio e articolato sui temi posti dai nuovi tempi, partendo dal presupposto che Mister Hyde è sempre più uno spirito condizionatore degli investimenti, dello sviluppo e della competitività, in Italia e in Europa.

E apriamo l’altro discorso delicato, al quale abbiamo accennato poco più su. In Italia, in particolare, il giallo della Cina sembra prendere tinte sempre più vive. Ha la tonalità del mistero, della paura per questo gigante che si è levato dal sonno e invade ogni angolo del pianeta con i suoi beni di consumo. Guardando il fenomeno da Pechino, tra le poco più di mille aziende italiane presenti sul territorio, la Cina sembra avere spesso il dolce sapore del miele. Nessuno ha voglia di urlare, soprattutto per non far vedere al fisco le storie dei suoi guadagni e le vicende dei propri successi. Ma alla Camera di Commercio italiana in Cina sembra un coro intonato: storcono la bocca, si aprono i sorrisetti, allargano le braccia quando sentono le vicende della competizione cinese che toglie quote di mercato, invadendo il Belpaese. Dicono: il disavanzo commerciale della Cina con l’Italia aumenta, ma una parte di questo disavanzo è utilissima. Infatti sono cresciute le importazioni italiane di prodotti semilavorati, dunque prodotti che sono finiti in Italia e poi riesportati in Paesi terzi: senza questi semilavorati cinesi, le esportazioni italiane sarebbero più deboli. E lo stesso discorso vale per non pochi altri Paesi dell’Ue. Inoltre, si dice ancora, le esportazioni cinesi, che si concentrano in prodotti di consumo di fascia bassa, frenano l’inflazione e accrescono il potere d’acquisto dei salari. Un televisore cinese costa la metà di uno giapponese, quindi rende più accessibile un grande bene di consumo.
Sostengono a Pechino: – Nei prossimi otto anni prevediamo che in Cina si venderanno 25 milioni di nuove automobili. La vendita di vetture, che ha un prezzo medio unitario di circa 11 mila euro, e che coinvolge tantissime industrie, da quelle elettroniche alla gomma, all’acciaio, alla plastica, dovrebbe comunque garantire una crescita del Paese in questo periodo intorno al 9 per cento annuo.
È a una fetta di questa torta che mira, ad esempio, la Fiat, che a Nanchino ha due joint venture: una sull’auto e un’altra con l’Iveco. In questo settore ormai la Volkswagen venderà più auto in Cina che in Germania e la General Motors, che alla fine degli anni Novanta piangeva le sue perdite nel mercato cinese, oggi tace, e di certo l’unica cosa che si sa è che le attività del colosso di Detroit in Cina sono in forte attivo.
Non si tratta solo di successi per le auto fabbricate in Cina. Per la Mercedes classe SE, quella superlusso, che stava per essere cancellata, la produzione è stata salvata dagli acquisti cinesi. La Bmw ha avuto una crescita di acquisti tale che ha avviato una joint venture, e la Maserati è entrata con la sua nuova quattro porte in Cina, per fare concorrenza alle tedesche.

Al mutismo della grande GM fa eco quello dell’italiana De Longhi, che in Cina produce condizionatori d’aria di alta qualità. L’esposizione cinese è bassissima, neppure aderisce alla Camera di Commercio italiana. Le leggende metropolitane comunque riferiscono di oltre 100 mila pezzi esportati ogni anno da quelle latitudini. La stessa storia di grande successo è dei gran produttori di tappi piemontesi Guala. In un primo momento semplicemente vendevano le loro macchine, poi, con una domanda che è cresciuta in modo esponenziale, hanno costituito una joint venture. Altri esempi: la Sipa, che produce ormai il 50 per cento del suo fatturato complessivo proprio in Cina, o il Gruppo Cannon, che ha il 60 per cento del mercato cinese delle macchine per assemblare frigoriferi. Fra gli ultimi in ordine di tempo, Mario Moretti Polegato, giunto in Cina per produrre le sue scarpe Geox, destinate al mercato americano.
Chiariscono diplomatici stranieri: – Il problema in Italia non è tra chi può e chi vuole venire in Cina, ma il rubinetto di qualità medio-bassa che si vede messo in crisi e marginalizzato dai rubinetti cinesi. Quel rubinettaio dovrebbe cercare di muoversi in una fascia di qualità più alta –.
Il maggior paradosso è questo: il marchio “Italia” in Cina è sinonimo di prodotto di consumo di alta qualità, ma tali prodotti in realtà sono rarissimi, non si vedono, o sono copiatissimi, ma gli originali non sono distribuiti, sono quasi del tutto assenti. La maggior parte dei produttori sono troppo piccoli per il mercato cinese; d’altro canto, c’è una difficoltà italiana a creare dei consorzi, ad associarsi. Forse anche per questo a Pechino ci sono almeno una dozzina di sale di esposizioni che vendono mobili italiani, l’una separata dall’altra, ma i cinesi che vogliono comprare modernità e bellezza si affollano ogni giorno al palazzone dell’Ikea!

 

   
   
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