Settembre 2005

Contro l’euro

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Nostalgia della lira
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

I casi Parmalat
e Cirio, se fossimo rimasti nel regno della lira,
avrebbero causato uno scenario
argentino.

 

È stato scritto che abbandonare l’euro e rimettersi con la lira corrisponde al sogno di tornare giovani: uno non si ricorda come si stava, ma ha memoria del fatto che aveva qualche anno di meno e c’era quella cosa imponderabile e decisiva che è la speranza. Mettersi in tasca l’euro fu interpretato come il passaporto verso il Paese Opulento e Felice. La delusione è commisurata alle aspettative.
Allora: andarsene? L’idea è venuta ad alcune forze politiche minoritarie, che continuano ad insistere. E sarà certamente una cosa molto stupida, sotto il profilo tecnico, o se si preferisce una provocazione estiva, ma l’economia e soprattutto le monete vivono anche del sentimento di fiducia oppure di scoramento che si respira nelle strade. Dunque, la mossa pesca nella psicologia profonda dei popoli. Ma piuttosto che buttar via l’euro, sarà meglio rendersi conto di ciò che è realmente successo, per mettervi possibilmente rimedio. All’umor nero si risponde con i ragionamenti, ai quali però devono seguire i fatti.
È stato David Hume, precursore dell’empirismo, a mostrare quanto l’uomo sia portato a una sequenza logica errata. Post hoc si trasforma facilmente nel propter hoc: si scambia la successione temporale per la causa. Siccome l’economia dell’Europa continentale non è più competitiva, e questo lo si ritiene coincidere con l’introduzione della divisa unica, ecco che è facile l’equivoco. Ma ci ricordiamo chi siamo? Siamo quelli del terzo debito più alto del pianeta. Francia, Italia e Germania sono appesantite da un welfare arretrato e ingiusto rispetto ai nuovi bisogni sociali. Una volta rimediavano sul piano della concorrenza internazionale con le svalutazioni competitive. Questo permetteva lo sviluppo, ma determinava anche una crescita esponenziale del deficit. L’euro ci ha costretto ad uscire da questa spirale che ci regalava l’ebbrezza della crescita economica, ma ci consumava le ossa. L’euro ha relegato l’inflazione in una cifra modesta, contenuto i tassi di interesse e costretto a una severa politica finanziaria. I casi Parmalat e Cirio, se fossimo rimasti nel regno della lira, avrebbero causato uno scenario argentino.
Se ora tornassimo alla vecchia divisa (ancorata al dollaro? Fantasie da aperitivo: alla Lega, che lo auspica, se proprio vogliamo giocare, proporrei piuttosto di legarla allo “yuan” cinese, un nome – che possiamo pronunciare Giuàn – di familiarità padana), i tassi di interesse del debito pubblico, dei mutui fondiari e il costo del denaro per le imprese sarebbero al 10 per cento, se tutto andasse bene. Con inflazione e tasse alle stelle. Vogliamo farci del male?

La credibilità dell’euro è stata erosa tra la gente per la caduta secca di prestigio delle istituzioni europee. C’è stata una comprensibile identificazione tra l’euro e il modo con cui è stata governata l’Europa degli euroburocrati che hanno dimenticato le linee dei padri fondatori. Fa innervosire l’alterigia con cui i suoi dirigenti guardano l’agitarsi dei popoli, come se fossero questioni di cortile, roba da servi, mentre loro godono del successo di una moneta forte. La quale finora è stata gestita in modo da favorire la finanza e danneggiare l’economia delle famiglie e delle imprese. Si è voluto sopravvalutarla rispetto ai fondamentali dell’economia. O la politica della Banca centrale europea scende dall’empireo, e accetta di servire l’economia reale, o si va in malora. L’euro sarà in salute, ma cadrà l’Europa.
In Italia si deve operare con riforme strutturali permanenti. Liberalizzare l’economia e privatizzare i servizi pubblici e dell’energia per rendere più competitivo il Sistema Paese. Una proposta semplice e, ritengo, saggia: il nostro governo chieda con forza l’introduzione della banconota da un euro e quella da due euro. Questa carta (moneta) aiuterebbe a digerire meglio l’altra più solenne Carta costituzionale, la quale sarebbe comunque da reimpiantare sulle radici cristiane. Che c’entra l’euro? C’entra, eccome! Gli ideali (e i valori) danno fiducia, cambiano l’economia. Possono rendere simpatico persino l’euro.
Se vogliamo dirla tutta, nel nostro Paese si può rilevare l’esistenza di due correnti di pensiero. La prima è tenacemente europeista. I suoi sostenitori vedono nell’Europa un motore virtuoso, l’approdo sicuro che ha dato all’Italia un eccezionale ventaglio di opportunità e, nello stesso tempo, ne ha impedito la deriva. Lontana da Bruxelles e dai suoi vincoli, argomenta questo campo, l’Italia di oggi assomiglierebbe all’immagine di una “repubblica delle banane”.

Sul fronte degli euroscettici si obietta che la fisionomia delle regole europee ha rappresentato un ostacolo allo sviluppo, perché ha finito con l’ingabbiare l’economia italiana dentro le maglie troppo rigide del Patto di Stabilità. E ciò per un Paese gravato da un debito pubblico sproporzionato è un freno costante a qualunque ipotesi di rilancio.
Entrambi i punti di vista sono in fondo plausibili. L’Italia è innegabilmente oberata da una pesantissima eredità e le sue difficoltà, se da un lato hanno beneficiato dell’inquadramento europeo, dall’altro ne sono state accentuate. Proprio perché strutturali, però, i problemi dell’economia nazionale non possono essere risolti nel volgere di una notte o con misure temporanee. L’unica via per porre rimedio al declino sembra essere quella di ridiscutere i vincoli codificati nel Patto di Stabilità, spostando il baricentro del problema dal campo meramente economico a quello politico.
Nel caso dell’economia italiana, un’azione riformatrice che punti al rilancio del sistema produttivo dovrebbe intervenire su alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, devono essere consentiti massicci investimenti nella ricerca, perché, se l’Italia è indietro rispetto a molti dei maggiori partner europei, anche l’Europa in complesso non regge il passo dei competitor globali. Il nodo delle riduzioni fiscali, poi, è l’ambito in cui si delinea con maggior chiarezza l’importanza di un approccio flessibile, dunque politico, alla revisione del Patto. Le riduzioni del prelievo fiscale sono misure che producono effetti benefici solo nel medio o nel lungo termine. Proprio per questo nessun governo può assumersi l’onere di intervenire in maniera incisiva e duratura sul fisco, perché non possiede, a causa dei vincoli posti dal Patto, l’orizzonte temporale indispensabile.
In altri termini, serve all’Europa una valutazione in due tempi degli effetti di una riforma fiscale: un primo tempo in cui il bilancio soffre l’aumento del deficit dovuto alle entrate ridotte, un secondo in cui tale deficit viene coperto con il maggior gettito derivante dall’espansione indotta dagli sgravi. La soluzione sarebbe quindi quella di una dilazione temporale della valutazione della politica economica nazionale, che conceda al Paese il tempo necessario perché le riforme avviino il loro ciclo virtuoso.
L’Europa non può configurarsi sempre più come una mannaia sospesa sulla testa dei governi. Per evitare le ricadute delle decisioni, facendosi guidare da un imperativo, non vi può essere politica economica che non sia innanzitutto politica e poi economia. L’Italia costituisce un importante “case study” per la discussione della riforma delle regole europee. La soluzione sta in un approccio che suggerisca ciò che va chiesto all’Europa al momento in cui è necessario chiedere, sollecitando una risposta che si basi su valutazioni non burocratiche e, possibilmente, lungimiranti.
E volete vedere che, alla fine, a chiedere di abbandonare l’euro potrebbero essere i Paesi che hanno un debito basso e che vogliono una moneta forte, come la Germania, per la quale i costi del break-up sarebbero economicamente più sopportabili, e non quelli che hanno un debito alto e chiedono una moneta debole, appunto, come l’Italia?
Sostiene una tesi controcorrente Thomas Mayer, capo economista della Deutsche Bank, già alla Bundesbank. Il quale peraltro ammonisce che le sue osservazioni seguono un modello teorico, che tuttavia «potrebbe diventare realtà, magari fra venti o trent’anni». Quel che è importante, però, secondo Mayer, è rendersi conto che oggi siamo a un punto critico della vita dell’Uem, in cui sono emersi inevitabili fattori di stress, e che le decisioni prese in questi tempi potrebbero poi riflettersi in conseguenze di lungo termine.
«All’inizio dell’Uem – osserva l’economista tedesco – gli altri Paesi hanno beneficiato dell’abbassamento dei tassi di interesse a livello tedesco, mentre la Germania ha sofferto di un cambio troppo alto e si è trasformata così nel vagone di coda della crescita. Fra gli altri Paesi, però, c’è chi, come la Spagna, ha sfruttato il calo dei tassi di interesse per il rilancio dell’economia, chi invece lo ha sperperato, non curandosi di guadagnare competitività, come l’Italia e il Portogallo. Il differenziale cumulativo dei costi nei confronti della Germania sta emergendo ora. Mentre la Germania ha di fatto recuperato competitività tagliando i costi, e ora si avvantaggia di una svalutazione del cambio reale. In Italia c’è l’effetto opposto».
Secondo Mayer, l’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro non è realistica per il costo che verrebbe imposto al servizio del debito, denominato in euro, e probabilmente non fattibile dal punto di vista legale. L’economista ritiene che le pressioni politiche possano tradursi in tentativi di indurre la Bce a lasciar deprezzare la moneta, «come in passato faceva la Banca d’Italia con la lira». Si alternerebbero così periodi di stabilità e periodi di svalutazione, come avveniva nel Sistema monetario europeo (Sme).
Questo, però, sostiene Mayer, sarebbe incompatibile con il mandato della Bce. «Il tentativo di rendere l’euro come la lira non avrà successo; ma, se l’avesse, il rischio dell’euro come valuta debole sarebbe quello di provocare l’uscita di chi invece vuole una valuta forte e non dovrebbe sopportare alti costi per uscire».

 

   
   
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