Settembre 2005

Gli italiani e le istituzioni

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Fuga dalla politica
Giuseppe De Rita  
 
 

 

 

 

 

Il disamore
istituzionale è forse il fenomeno che gli italiani
più avvertono e ammettono, senza sentirsi colpevoli di alcunché.

 

Non le abbiamo mai molto amate, noi italiani, le nostre istituzioni. Ma si converrà che assistere impotenti al loro suicidio è situazione sgradevole e inquietante. Non le abbiamo molto amate perché le abbiamo sentite lontane, autoreferenziali, burocratiche, poco attente alla realtà, senza ruolo, quindi estranee. Nel bene come nel male, nella nostra buona fortuna e nelle nostre sciagure.
Non le abbiamo molto amate perché non le abbiamo neppure capite: le abbiamo considerate cioè come componenti di un’architettura del potere disegnata da pochi per molti, in base a scelte e valutazioni di alto livello (i dibattiti costituzionali sono riservati a pochi padri nobili), ma che non avevano chiare connessioni con i problemi e i comportamenti quotidiani di tutti noi.
Infine, non le abbiamo molto amate perché le abbiamo sempre viste come “cose della politica”, occupate e dominate cioè da soggetti e dinamiche che pur quando pensiamo di conoscere e capire (oggi addirittura nei dettagli offerti dal gossip giornalistico o dai talk show televisivi) restano comunque un campo magnetico in cui paradossalmente si scaricano attrazione curiosa, sospettosa repulsione, antico scetticismo, tutto tranne la convinzione che in quei soggetti e in quella dinamica si realizzino gli interessi della collettività.
Si potrebbe continuare per pagine ad approfondire i vari aspetti del disamore italiano per le istituzioni, argomento che ha dato luogo a migliaia di riflessioni culturali. Ma non servirebbe: il disamore istituzionale è forse il fenomeno che in assoluto gli italiani più avvertono e ammettono, in totale libertà psichica, senza sentirsi in materia colpevoli di alcunché.
E forse non è azzardato dire che dell’istinto suicida che sta percorrendo le istituzioni, l’italiano medio sostanzialmente si disinteressa, molto probabilmente in cuor suo pensando che una progressiva “de-istituzionalizzazione” non gli porterebbe danno ma più libertà di movimento, e più facile perseguimento dei propri interessi e obiettivi.
Del resto, egli vive quotidianamente in una cultura collettiva che gli racconta con ampiezza di particolari che la de-istituzionalizzazione è un processo tranquillamente in corso, quasi fisiologico: la gestione della moneta si trasferisce in Europa, il diritto alla difesa militare si trasferisce alla Nato, il potere di amministrazione pubblica si trasferisce alle autonomie locali, la privatizzazione e la liberalizzazione del sistema economico riducono il ruolo dell’azione pubblica.

Di fronte a questa dispersione e dislocazione dei poteri, non può essere sorprendente la sensazione che l’idea stessa di Stato nazionale si sgretoli e con essa il tradizionale modo di intendere tutti i comparti dell’apparato istituzionale. Questo finisce per vivere in un mondo che non ne vede più quella forte funzione di traino economico, sociale e civile sulla quale lo Stato nazionale era stato creato e via via calibrato. E gli stessi fallimenti in sequenza dei tentativi di riforma costituzionale sono verosimilmente da attribuire a questa caduta di ruolo complessivo, con una conseguente tendenza delle istituzioni ad appiattirsi sulla propria progressiva insignificanza, quasi in un inconscio suicidio.
Qualcuno si troverà a reagire polemicamente all’insistito termine di suicidio delle istituzioni. Si negherà che la regressione sia reale; si daranno colpe sostanziali alla politica e ai suoi errori di questi ultimi anni; si rilancerà volontaristicamente quel clericalismo legalitario che spesso nasconde il disprezzo per la realtà; magari addirittura si sospetterà che con un indebito catastrofismo istituzionale si vogliano contrastare le magnifiche intenzioni di riforma perseguite dai possessori pro tempore del potere.
A chi avanza queste riserve si può solo rispondere con una breve presentazione di ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel panorama istituzionale italiano.
È anzitutto in corso uno svuotamento delle sedi classiche di partecipazione istituzionale ai vari livelli: in pratica, non esiste più la vita dei consigli comunali, provinciali e regionali, ridotti a mere comparse dell’attività e dell’attivismo personale del sindaco, del presidente della provincia, del presidente-governatore della regione; e anche il Parlamento nazionale sacrifica la propria dialettica interna alla spietata “blindatura” dei provvedimenti di un governo teso a dimostrare la sua incisività programmatica e decisionale.
Questo restringimento del respiro interno delle istituzioni “rappresentative” porta effetti pericolosi nei processi, necessari e da tutti voluti, di redistribuzione dei poteri pubblici verso la periferia del sistema. Le spinte al decentramento amministrativo e le riforme del Titolo V della Costituzione sembrano tutte impoverirsi in una sorta di “sindacalismo istituzionale”, dove ogni governatore, presidente, o sindaco contratta con gli altri omologhi o con i vertici nazionali la possibile ripartizione delle competenze, senza alcuna attenzione alla vitalità interna delle istituzioni che dovrebbero poi gestirle.
La concentrazione sulla devolution e il disinteresse verso il ben più importante e strutturale processo della cosiddetta “devolution della devolution” (per arrivare ad una reale architettura distribuita delle responsabilità pubbliche) sono il segnale di un pericoloso scivolamento nello slabbramento del tessuto istituzionale ai vari livelli.

 

   
   
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