Per vocazione,
le popolazioni
meridionali amano agire nel piccolo creando santini
di periferia, ma questo costume
rischia di mettere sullaltare piccoli e grandi re senza terra.
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Un marchio Mediterraneo dovrebbe esprimere un modello
originale di crescita, un esempio di purificazione delle fedi, un
evento antropologico creatore di un nuovo stile di vita. Non più
frastornanti andirivieni, ma rotte precise su cui impegnare le comunità
sospese tra angosciose depressioni e attese di liberazione. Nella
condizione attuale ogni leader con caratura decisionale potrebbe
riconoscersi in una fortunata battuta di Woody Allen: «Dio
è morto, Marx pure, e neanche io sto molto bene».
Non siamo allo Speakers Corner di Hyde Park, sollecitiamo
storie minime di Rinascimento simmetrico per ragioni di sopravvivenza.
A chi ha voglia di impegnarsi in questo progetto ricordiamo che
«il moto di universalizzazione è tuttuno con
lapprofondimento del concreto». In questo commento di
Sartre allopera di Carlo Levi cè lansia
del cibo-verità, la speranza di un nuovo umanesimo per popolazioni
storicamente in sofferenza, abituate a subire la miseria del passato
e la grandezza tragica del presente.
Cè limpegno-sfida di unepoca e di una generazione
a trasformare gli incubi in sogni, cercando ordine tra gli squilibri
precari, respingendo il catechismo di una globalizzazione che radicalizza
gli squilibri globali facendo salire il termometro dellingovernabilità
e dellagonia strutturale.

Senza essere reduci no-global avvertiamo ogni giorno il fruscio
del vento intriso di amarcord che alimenta un sonnacchioso e caratteristico
brusio pirandelliano, terminale di profonde frizioni sociali. Demoni
e cherubini animano indecenti vicissitudini di comunità smarrite,
alla ricerca di una guida, di unetica, di un valore-futuro.
La testimonianza di un europeismo oligarchico e autoreferenziale
non aiuta a celebrare riti consolatori, a dare prospettive a chi
è ricco solo del talento dei popoli poveri.
A fronte di scenari senza crescita gestiti con misure di dubbia
realizzabilità cè la fragilità delle
micro-aree (ivi incluso il nostro Mezzogiorno) che sollecita ricette
aggreganti, fondate su una sostanziale convergenza di analisi e
previsioni. Senza ricorrere al manicheismo dei modelli
di laboratorio che fanno perdere i contatti con realtà e
società.
Lidea di lavorare su interessi comuni non è negoziabile
attraverso vertici bilaterali (i trattati transfrontalieri sullimmigrazione
non danno risultati esaltanti) poiché si tratta di tematiche
non addomesticabili con le clausole della reciprocità. La
logica dei grandi numeri non può essere gestita con competenze
frastagliate. Esige la reperibilità di leadership con caratura
ultra partes, capaci di agire al riparo del feticcio nazional-burocratico
del politicamente corretto. In questottica appaiono logori
molti leaders e molti equilibri della galassia mediterranea.
La gente è stanca di vivere scampoli di ambizioni frustrate,
ingrossando le fila degli interinali della vita. È preoccupata
quando uscendo da casa sente sulla pelle gli effetti della stagnazione
e della recessione, quando è costretta a subire attacchi
alle proprie certezze portati da una globalizzazione senza regole,
quando registra la crescita impetuosa di India, Cina e altri Paesi
che con bassi salari e diritti sindacali inesistenti producono con
prezzi spiazzanti beni e tecnologie (si leggano le catastrofiche
previsioni di Clyde Prestowitz in Tre miliardi di nuovi capitalisti).

Nasce dalla consapevolezza di condizioni estreme di disagio e di
smarrimento listanza di risposte corali, la necessità
di consorziare gli Stati mediterranei per costruire interdipendenza
economica, sociale, istituzionale. Bisogna ascoltare il grido della
società civile, da tempo in attesa di una bussola per attrezzarsi
al confronto con i mercati del resto del mondo (Asia, America).
Andando oltre lo stereotipo di una dialettica concorrenziale europea
a circuito chiuso, monopolizzata da Francia, Germania, Gran Bretagna
(le misure protezioniste sono tecnicamente improponibili per gli
impegni in essere e di tendenza della comunità internazionale
Wto, Ue, G8).
La possibilità di celebrare nozze internazionali passa attraverso
la metamorfosi dellalternativo in governativo, il travaso
di sovranità e lattenuazione di diffidenze e irritazioni
codificate. Questo passaggio diventa obbligato quando si è
di fronte a unemergenza che produce destabilizzazione a macchia
di leopardo, quando il globalismo divarica la forbice costo delle
merci-costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), rendendo
impraticabile ogni ipotesi di recupero in termini di efficienza.
Costituirebbe inoltre un buon viatico per la formazione di politici,
manager e centri di eccellenza capaci di decisioni autonome, smarcati
dalle servitù e dai piagnistei degli scenari domestici.
Ciò vale anche per la riqualificazione del nostro Mezzogiorno,
che per andare a regime deve neutralizzare i fautori dichiarati
o coperti di un conservatorismo eretto a difesa delle nomenklature.
La questione mediterranea è altro rispetto alla nostra questione
meridionale. Tuttavia nelle nostre popolazioni cè la
percezione di vivere una crisi in un contesto di crisi darea
generalizzato (si pensi alle inquietudini prodotte dallimpatto
con le masse migranti), sollecitando la necessità di liberalizzare
un dibattito culturale ghettizzato, finalizzato solo a gettare la
croce sulle congreghe non schierate (meridionalismo à la
carte, con venature di nichilismo politico). È disarmante
constatare che fanno ancora comodo gli steccati e le partiture ideologiche.
Nel nuovo contesto geopolitico che si cerca di accreditare, il nostro
Mezzogiorno non è più sospeso nel vuoto cosmico, diventa
paradigma di riferimento, prisma di lettura per tutti i processi
di modernizzazione dellarea mediterranea.
Per vocazione, le popolazioni meridionali amano agire nel piccolo
creando santini di periferia, ma questo costume in era di globalizzazione
rischia di mettere sullaltare piccoli e grandi re senza terra.
Non è grave se un Vip degrada in Mip (persona di media importanza).
È grave invece se questa performance rompe gli equilibri
che assicurano stabilità economica. Registriamo con amarezza
la voglia di denazionalizzare il capitalismo familiare, la generale
destrutturazione dei rapporti di lavoro, il basso contenuto professionale
della nuova occupazione, i deludenti risultati dei distretti, il
livello mediocre della cultura di governo. Questa miscela incandescente
spiega lirrilevanza di proposte e di progetti, e dunque il
buio a Mezzogiorno.

Il partito degli scettici non è composto da persone ciniche
o moralmente demotivate. La preoccupazione principale riguarda il
labirinto delle agevolazioni che può condurre ad uno spreco
di risorse rispetto alle motivazioni indicate negli atti legislativi
e di governo. Quando leggiamo che le università meridionali
formano ricercatori e professionalità di livello elevato
e poi registriamo un aumento di cervelli in fuga il dubbio è
legittimo. Dubbio che induce a chiedere un controllo multilaterale
degli impieghi attraverso organismi che siano espressione di un
nuovo partenariato per lo sviluppo (banche, industria, sindacati).
È noto che la piccola e media impresa è in deficit
di ricerca. Potrebbe trarre beneficio da una struttura centralizzata
che verificasse e razionalizzasse le esigenze di settore, procedendo
al finanziamento dei progetti, allacquisto e al trasferimento
alle imprese di tecnologie, brevetti, know-how. Cosa modesta appare
invece lUfficio di Coordinamento voluto da otto Presidenti
di Regione. Il suo profilo sembra appiattito su attività
di lobby, mentre si avverte la necessità di apparati tecnici
capaci di elaborare piani di intervento interregionali da sottoporre
al gradimento dei mercati. Lasciando ad ogni regione limpegno
attuativo di competenza. Occorrono ricette di convergenza su unidentità
e una dimensione unitaria dello sviluppo, nel solco della migliore
tradizione meridionalistica (Dorso, Fortunato, Salvemini, Sturzo,
Fiore, Saraceno). Senza essere ancora soggiogati da un antico dilemma:
se navigare tra le nostalgie di una società fabiana o seguendo
la tradizione liberale occidentale con la quale siamo ampiamente
compromessi.
Per riposizionare diritti e responsabilità diventa indispensabile
la circolazione di nuove correnti di pensiero. In presenza di schemi
chiusi è fatale che la classe dirigente venga selezionata
con frequenti criteri di cooptazione e meritocrazia ereditaria.
Finendo poi irretita nelle spire delle burocrazie che essa stessa
alimenta e degli interessi economici di cartello. Restando sempre
in bilico tra reazione e restaurazione. In queste condizioni lesito
infausto di qualunque battaglia di modernizzazione è pressoché
scontato, essendo difficile veicolare civiltà plurali, interessi
di mercato, coesistenza multietnica, in linea con lattuale
modello di globalizzazione.
Si tratta di spostare il baricentro da una negoziazione politica
centralizzata ad una contrattazione tecnica periferica. Per dare
maggiore slancio al mercato e uscire dalle insidie e dalle strozzature
prodotte dal binomio lavoro protetto/lavoro nero. Se depuriamo gli
scenari dalla zavorra restano in piedi alcune domande inquietanti.
Senza unanalisi attenta delle attuali aggregazioni sociali
come si possono governare con profitto le trasformazioni imposte
dalle novità demografiche e tecnologiche? La moda della flessibilità
fino a che punto è praticabile in costanza di rigidità
sociale? Questi interrogativi non frenano, anziché agevolare,
quel neo-egualitarismo che si vorrebbe conseguire con gli stimoli
della crescita?
Affidiamo queste domande ai manager di frontiera, più sensibili
a creare valore introducendo riforme di struttura. Una necessità
assoluta per uscire dalle freakonomics, le economie del capriccio
e dellimprovvisazione. Piccolo è bello resta uno slogan
di effetto. Ma quando è solo piccolo è bruttissimo.
La presenza della grande impresa crea spesso paura e diffidenza
poiché introduce disordine negli equilibri organizzativi
portando capitali, modelli operativi e linguaggi estranei ai costumi
locali. Una scommessa in corso riguarda la cinesizzazione dellIbm.
Nel nostro Sud non si può creare sviluppo senza il contributo
determinante della grande impresa, che di fatto detiene il monopolio
delleconomia della conoscenza (poli tecnologici, ricerca,
innovazione). Si deve incidere sui meccanismi profondi (strutturali)
della finanza e dellapparato produttivo. Leffetto schiacciamento
che il nostro Mezzogiorno sta subendo va valutato in euro (cosa
diversa della vecchia e cara lira), rendendo più difficile
la praticabilità delle politiche di convergenza sulle strutture
omogenee della nuova base monetaria. Se non si crea un Sistema aperto
ad altre realtà economiche (la vocazione mediterranea non
è solo un fatto geografico), le rigidità introdotte
dalla moneta unica potrebbero causare ulteriori disagi.
Una devitalizzazione di lungo periodo può solo far crescere
il contenzioso tra le povertà interregionali. Rafforzando
i meccanismi eretti a difesa dellesistente, della condizione
di appartenenza rispetto ai diritti di cittadinanza. Non può
essere sempre «... la paura di tutto / la sola speranza che
resta / vestita di timido lutto / a ingentilirti la testa / nel
sole che viene alle spalle» (Alfonso Gatto, Le foglie):
versi ricorrenti tra gli sfigati istituzionali.
Andiamo verso modelli duttili, prodotti da un relativismo mediterraneo,
portatore di sintesi complesse tra radicate civiltà plurali.
Nuovi attori sociali vengono alla ribalta (le Chiese, le organizzazioni
non governative). Bisognerà tenerne conto lungo i percorsi
di negoziazione. Ci sono diverse situazioni anomale che per assuefazione
rischiano di diventare invisibili. Il cerino acceso resta nelle
nostre mani, poiché non possiamo attenderci da una globalizzazione
priva di impulsi onirici lomaggio di una sosta globale.
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