Settembre 2005

Terre di confine. Mediterraneo e Mezzogiorno italiano

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Un centro per le periferie
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Per vocazione,
le popolazioni
meridionali amano agire nel piccolo creando santini
di periferia, ma questo costume
rischia di mettere sull’altare piccoli e grandi re senza terra.

 

Un “marchio Mediterraneo” dovrebbe esprimere un modello originale di crescita, un esempio di purificazione delle fedi, un evento antropologico creatore di un nuovo stile di vita. Non più frastornanti andirivieni, ma rotte precise su cui impegnare le comunità sospese tra angosciose depressioni e attese di liberazione. Nella condizione attuale ogni leader con caratura decisionale potrebbe riconoscersi in una fortunata battuta di Woody Allen: «Dio è morto, Marx pure, e neanche io sto molto bene».
Non siamo allo “Speaker’s Corner” di Hyde Park, sollecitiamo storie minime di Rinascimento simmetrico per ragioni di sopravvivenza. A chi ha voglia di impegnarsi in questo progetto ricordiamo che «il moto di universalizzazione è tutt’uno con l’approfondimento del concreto». In questo commento di Sartre all’opera di Carlo Levi c’è l’ansia del cibo-verità, la speranza di un nuovo umanesimo per popolazioni storicamente in sofferenza, abituate a subire la miseria del passato e la grandezza tragica del presente.
C’è l’impegno-sfida di un’epoca e di una generazione a trasformare gli incubi in sogni, cercando ordine tra gli squilibri precari, respingendo il catechismo di una globalizzazione che radicalizza gli squilibri globali facendo salire il termometro dell’ingovernabilità e dell’agonia strutturale.

Senza essere reduci no-global avvertiamo ogni giorno il fruscio del vento intriso di amarcord che alimenta un sonnacchioso e caratteristico brusio pirandelliano, terminale di profonde frizioni sociali. Demoni e cherubini animano indecenti vicissitudini di comunità smarrite, alla ricerca di una guida, di un’etica, di un valore-futuro. La testimonianza di un europeismo oligarchico e autoreferenziale non aiuta a celebrare riti consolatori, a dare prospettive a chi è ricco solo del talento dei popoli poveri.
A fronte di scenari senza crescita gestiti con misure di dubbia realizzabilità c’è la fragilità delle micro-aree (ivi incluso il nostro Mezzogiorno) che sollecita ricette aggreganti, fondate su una sostanziale convergenza di analisi e previsioni. Senza ricorrere al manicheismo dei “modelli” di laboratorio che fanno perdere i contatti con realtà e società.
L’idea di lavorare su interessi comuni non è negoziabile attraverso vertici bilaterali (i trattati transfrontalieri sull’immigrazione non danno risultati esaltanti) poiché si tratta di tematiche non addomesticabili con le clausole della reciprocità. La logica dei grandi numeri non può essere gestita con competenze frastagliate. Esige la reperibilità di leadership con caratura ultra partes, capaci di agire al riparo del feticcio nazional-burocratico del politicamente corretto. In quest’ottica appaiono logori molti leaders e molti equilibri della galassia mediterranea.
La gente è stanca di vivere scampoli di ambizioni frustrate, ingrossando le fila degli interinali della vita. È preoccupata quando uscendo da casa sente sulla pelle gli effetti della stagnazione e della recessione, quando è costretta a subire attacchi alle proprie certezze portati da una globalizzazione senza regole, quando registra la crescita impetuosa di India, Cina e altri Paesi che con bassi salari e diritti sindacali inesistenti producono con prezzi spiazzanti beni e tecnologie (si leggano le catastrofiche previsioni di Clyde Prestowitz in Tre miliardi di nuovi capitalisti).

Nasce dalla consapevolezza di condizioni estreme di disagio e di smarrimento l’istanza di risposte corali, la necessità di consorziare gli Stati mediterranei per costruire interdipendenza economica, sociale, istituzionale. Bisogna ascoltare il grido della società civile, da tempo in attesa di una bussola per attrezzarsi al confronto con i mercati del resto del mondo (Asia, America). Andando oltre lo stereotipo di una dialettica concorrenziale europea a circuito chiuso, monopolizzata da Francia, Germania, Gran Bretagna (le misure protezioniste sono tecnicamente improponibili per gli impegni in essere e di tendenza della comunità internazionale – Wto, Ue, G8).
La possibilità di celebrare nozze internazionali passa attraverso la metamorfosi dell’alternativo in governativo, il travaso di sovranità e l’attenuazione di diffidenze e irritazioni codificate. Questo passaggio diventa obbligato quando si è di fronte a un’emergenza che produce destabilizzazione a macchia di leopardo, quando il globalismo divarica la forbice costo delle merci-costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), rendendo impraticabile ogni ipotesi di recupero in termini di efficienza. Costituirebbe inoltre un buon viatico per la formazione di politici, manager e centri di eccellenza capaci di decisioni autonome, smarcati dalle servitù e dai piagnistei degli scenari domestici.
Ciò vale anche per la riqualificazione del nostro Mezzogiorno, che per andare a regime deve neutralizzare i fautori dichiarati o coperti di un conservatorismo eretto a difesa delle nomenklature. La questione mediterranea è altro rispetto alla nostra questione meridionale. Tuttavia nelle nostre popolazioni c’è la percezione di vivere una crisi in un contesto di crisi d’area generalizzato (si pensi alle inquietudini prodotte dall’impatto con le masse migranti), sollecitando la necessità di liberalizzare un dibattito culturale ghettizzato, finalizzato solo a gettare la croce sulle congreghe non schierate (meridionalismo à la carte, con venature di nichilismo politico). È disarmante constatare che fanno ancora comodo gli steccati e le partiture ideologiche. Nel nuovo contesto geopolitico che si cerca di accreditare, il nostro Mezzogiorno non è più sospeso nel vuoto cosmico, diventa paradigma di riferimento, prisma di lettura per tutti i processi di modernizzazione dell’area mediterranea.
Per vocazione, le popolazioni meridionali amano agire nel piccolo creando santini di periferia, ma questo costume in era di globalizzazione rischia di mettere sull’altare piccoli e grandi re senza terra. Non è grave se un Vip degrada in Mip (persona di media importanza). È grave invece se questa performance rompe gli equilibri che assicurano stabilità economica. Registriamo con amarezza la voglia di denazionalizzare il capitalismo familiare, la generale destrutturazione dei rapporti di lavoro, il basso contenuto professionale della nuova occupazione, i deludenti risultati dei distretti, il livello mediocre della cultura di governo. Questa miscela incandescente spiega l’irrilevanza di proposte e di progetti, e dunque il “buio a Mezzogiorno”.

Il partito degli scettici non è composto da persone ciniche o moralmente demotivate. La preoccupazione principale riguarda il labirinto delle agevolazioni che può condurre ad uno spreco di risorse rispetto alle motivazioni indicate negli atti legislativi e di governo. Quando leggiamo che le università meridionali formano ricercatori e professionalità di livello elevato e poi registriamo un aumento di cervelli in fuga il dubbio è legittimo. Dubbio che induce a chiedere un controllo multilaterale degli impieghi attraverso organismi che siano espressione di un nuovo partenariato per lo sviluppo (banche, industria, sindacati).
È noto che la piccola e media impresa è in deficit di ricerca. Potrebbe trarre beneficio da una struttura centralizzata che verificasse e razionalizzasse le esigenze di settore, procedendo al finanziamento dei progetti, all’acquisto e al trasferimento alle imprese di tecnologie, brevetti, know-how. Cosa modesta appare invece l’Ufficio di Coordinamento voluto da otto Presidenti di Regione. Il suo profilo sembra appiattito su attività di lobby, mentre si avverte la necessità di apparati tecnici capaci di elaborare piani di intervento interregionali da sottoporre al gradimento dei mercati. Lasciando ad ogni regione l’impegno attuativo di competenza. Occorrono ricette di convergenza su un’identità e una dimensione unitaria dello sviluppo, nel solco della migliore tradizione meridionalistica (Dorso, Fortunato, Salvemini, Sturzo, Fiore, Saraceno). Senza essere ancora soggiogati da un antico dilemma: se navigare tra le nostalgie di una società fabiana o seguendo la tradizione liberale occidentale con la quale siamo ampiamente compromessi.
Per riposizionare diritti e responsabilità diventa indispensabile la circolazione di nuove correnti di pensiero. In presenza di schemi chiusi è fatale che la classe dirigente venga selezionata con frequenti criteri di cooptazione e meritocrazia ereditaria. Finendo poi irretita nelle spire delle burocrazie che essa stessa alimenta e degli interessi economici di cartello. Restando sempre in bilico tra reazione e restaurazione. In queste condizioni l’esito infausto di qualunque battaglia di modernizzazione è pressoché scontato, essendo difficile veicolare civiltà plurali, interessi di mercato, coesistenza multietnica, in linea con l’attuale modello di globalizzazione.
Si tratta di spostare il baricentro da una negoziazione politica centralizzata ad una contrattazione tecnica periferica. Per dare maggiore slancio al mercato e uscire dalle insidie e dalle strozzature prodotte dal binomio lavoro protetto/lavoro nero. Se depuriamo gli scenari dalla zavorra restano in piedi alcune domande inquietanti. Senza un’analisi attenta delle attuali aggregazioni sociali come si possono governare con profitto le trasformazioni imposte dalle novità demografiche e tecnologiche? La moda della flessibilità fino a che punto è praticabile in costanza di rigidità sociale? Questi interrogativi non frenano, anziché agevolare, quel neo-egualitarismo che si vorrebbe conseguire con gli stimoli della crescita?
Affidiamo queste domande ai manager di frontiera, più sensibili a creare valore introducendo riforme di struttura. Una necessità assoluta per uscire dalle freakonomics, le economie del capriccio e dell’improvvisazione. Piccolo è bello resta uno slogan di effetto. Ma quando è solo piccolo è bruttissimo. La presenza della grande impresa crea spesso paura e diffidenza poiché introduce disordine negli equilibri organizzativi portando capitali, modelli operativi e linguaggi estranei ai costumi locali. Una scommessa in corso riguarda la cinesizzazione dell’Ibm.
Nel nostro Sud non si può creare sviluppo senza il contributo determinante della grande impresa, che di fatto detiene il monopolio dell’economia della conoscenza (poli tecnologici, ricerca, innovazione). Si deve incidere sui meccanismi profondi (strutturali) della finanza e dell’apparato produttivo. L’effetto schiacciamento che il nostro Mezzogiorno sta subendo va valutato in euro (cosa diversa della vecchia e cara lira), rendendo più difficile la praticabilità delle politiche di convergenza sulle strutture omogenee della nuova base monetaria. Se non si crea un Sistema aperto ad altre realtà economiche (la vocazione mediterranea non è solo un fatto geografico), le rigidità introdotte dalla moneta unica potrebbero causare ulteriori disagi.
Una devitalizzazione di lungo periodo può solo far crescere il contenzioso tra le povertà interregionali. Rafforzando i meccanismi eretti a difesa dell’esistente, della condizione di appartenenza rispetto ai diritti di cittadinanza. Non può essere sempre «... la paura di tutto / la sola speranza che resta / vestita di timido lutto / a ingentilirti la testa / nel sole che viene alle spalle» (Alfonso Gatto, “Le foglie”): versi ricorrenti tra gli sfigati istituzionali.
Andiamo verso modelli duttili, prodotti da un relativismo mediterraneo, portatore di sintesi complesse tra radicate civiltà plurali. Nuovi attori sociali vengono alla ribalta (le Chiese, le organizzazioni non governative). Bisognerà tenerne conto lungo i percorsi di negoziazione. Ci sono diverse situazioni anomale che per assuefazione rischiano di diventare invisibili. Il cerino acceso resta nelle nostre mani, poiché non possiamo attenderci da una globalizzazione priva di impulsi onirici l’omaggio di una sosta globale.

 

   
   
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