Settembre 2005

Che Italia fa

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Sabbie immobili
Daniele Puppo  
 
 

 

 

Nel caso italiano, le riforme
richiedono anni
e anni di duro
lavoro, e devono essere condivise almeno nei loro obiettivi generali da tutte le
principali forze politiche.

 

Se è vero che la crescita è movimento, allora si spiega anche come mai il nostro Paese è in fase di stagnazione: moltissimi tipi di lavoro passano da padre in figlio, sono praticamente ereditati, e questo non vale soltanto per gli avvocati, o i notai, o i farmacisti, o i giornalisti, ma anche per i docenti universitari, o i tassisti, o gli immobiliaristi, e via di seguito.
È stato detto che i sintomi di una “società immobile” sono tanti, e l’immagine è concretizzata anche dall’economia che, appunto, stagna, come confermano i dati più recenti sull’inflazione: se l’aumento dei prezzi tende a rallentare, mentre salgono i costi del petrolio e delle materie prime, c’è alla base una stagnazione dei consumi, e c’è un calo di fiducia da parte sia delle famiglie sia delle imprese. E si tratta di un calo cospicuo, anche perché colpisce i giovani il futuro incerto, mentre penalizza le fasce di età media il terrore della perdita del posto di lavoro, insieme con la mancanza di alternative.
Desideriamo tornare a crescere, come sapevamo fare mezzo secolo fa, a cavallo dei giorni del boom che ci impose all’ammirazione del mondo, oppure un secolo fa, durante l’epoca giolittiana? Al punto in cui siamo attualmente, per tornare a crescere occorrono alcune grandi e incisive riforme, che avranno quasi senza eccezione una caratteristica indesiderata: l’iniziale impopolarità. Nel senso che prima ci sono i costi del cambiamento, e soltanto in un secondo momento se ne ottengono i benefici.

È esattamente ciò che abbiamo visto in questi anni con la moneta unica. È scritto in tutti i libri di testo universitari, e i ragazzi sembrano averlo capito; solo i nostri politici cambiano discorso, non avendolo saputo (o voluto) capire. È necessario fare delle riforme inizialmente impopolari, per avere poi i grandi, innegabili benefici della divisa comune. E se non si agisce in questo modo, peggio per il Paese. Usare l’euro come capro espiatorio non serve a migliorare la situazione. Fa solo aumentare il pessimismo della gente, che di solito non gradisce sapere che il governo non risponde di ciò che succede, e anzi dichiara che neppure può porvi alcun rimedio.
Nel caso italiano, le riforme necessarie richiedono anni e anni di duro lavoro, e di conseguenza devono essere condivise almeno nei loro obiettivi generali da tutte le principali forze politiche. Tre sono le priorità per far ripartire il nostro Paese, priorità che risultano dal confronto con gli altri Paesi che continuano a crescere molto più di noi. Sono, nell’ordine:
1) introdurre competizione nella formazione del capitale umano, a cominciare dall’università;
2) liberalizzare, soprattutto per ottenere così più competitività, tutta l’area dei servizi, che corrisponde ai due terzi del Prodotto interno lordo;
3) investire nella logistica, vale a dire in tutto ciò che serve per far muovere di più e meglio idee, merci, persone.
Sono tutte questioni che discutiamo giorno dopo giorno, ma senza che fino a questo momento si sia riusciti a condividere non diciamo i singoli provvedimenti, ma neppure gli obiettivi generali delle riforme necessarie.
Ci limitiamo qui al primo tema, che è sicuramente di manifesta attualità, visto che il Parlamento ha modificato le norme con le quali vengono scelti i docenti universitari. Si vuole che il concorso pubblico con cui si diventa professori sia vinto soltanto dai candidati migliori, cioè quelli che hanno già dimostrato di saper fare bene ricerca scientifica e trasmettere i risultati ai loro studenti. E perché mai le singole università dovrebbero essere interessate ad avere solo i docenti migliori? La risposta è ovvia: perché solo a quella condizione le università migliori avranno anche gli studenti migliori.
Ma viviamo davvero in un Paese in cui gli studenti migliori vanno tutti alla ricerca delle università migliori? E poi, chi l’ha deciso chi sono gli studenti migliori, se in Italia la competizione tra studenti è vietata per legge, come sono vietati per legge esami con voti “ordinali”? First a Oxford è molto chiaro, ma il nostro 30, che può essere dato a tutti, non serve un granché.

Bisognerebbe allora riuscire a superare l’immobilismo dato dagli “opposti estremismi”: da un lato, chi si limita a difendere, con correzioni minime, il sistema attuale, dall’altro chi propone che tutte le nostre università si mettano domani a competere con Harvard (cosa che non succede neppure in America).
Per riuscire per davvero a progredire, è molto più saggio iniziare da alcuni obiettivi intermedi volti a favorire la competizione tra le università, come ha ben capito il governo inglese che con il suo Higher Education Act di un anno fa ha inteso proprio superare il pregiudizio che le università siano tutte uguali. Le università migliori possono far pagare tasse più alte a studenti che saranno disposti ad accettarle, attendendosi docenti migliori.
Gli economisti conoscono bene l’importanza degli incentivi, e da tempo li applicano anche ai problemi relativi alla formazione del capitale umano, come alla teoria della crescita, questa essendo sempre più dipendente dalla qualità della ricerca scientifica e quindi dalle università migliori. Basta non sbagliarsi, sostenendo ad esempio che crescono di più i Paesi che si difendono con il protezionismo, magari inventandosi che il grande economista liberale David Ricardo sia stato teorico del protezionismo!

 

   
   
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