Settembre 2005

Narrazioni di narrazioni (2)

Indietro
Storie di memorie e di Sud
Antonio Errico
 
 

 

 

Ci vuole coraggio a confrontarsi con temi del genere,
di questi tempi.
Di questi tempi
il romanzo annusa il mercato e
confeziona storie compiacenti.

 

C’è un paese a sud del sud, verso il confine, poco prima che la penisola della penisola sprofondi nella mescolanza d’acque di due mari che confondono i colori e le correnti, c’è un paese microcosmo di esistenze, universo di senso che genera memorie che a loro volta generano le storie che Marco Pedone narra nel suo GRI. Galvanoplastiche Ramature Imola (Ravenna, Fernandel, 2004).
È un romanzo che dimostra una verità assoluta, una sorta di sentenza inappellabile. Questa: che i destini non hanno mai uno scampo, che i confini non si possono violare, che il tempo si ripiega su se stesso, si svolge e si riavvolge intorno a un giorno, un solo giorno, sempre uguale nell’avvicendarsi di mattino, meriggio e vespero.
Manca la notte nella scansione del tempo i cui si verificano e vivono i fatti e le figure del romanzo. Forse perché la notte fa troppa paura. Fa paura il buio che scende sugli uomini e sulle loro storie, inevitabilmente, inesorabilmente.
Probabilmente è per questo che raccontano le storie. Probabilmente è per questo che racconta Marco Pedone. Per ingannare la notte, per impedire, per quanto si può, per come si può, che lo scuro cancelli la memoria.
E allora per sconfiggere la notte, per avere l’illusione di poterla ritardare, bisogna trovare il modo di aggredirla, bisogna urlare in faccia alle finestre chiuse, sventrando il buio a cavallo di un Morini Settebello.
C’è un paese a sud del sud: un paese che è un desiderio di memoria, una voglia viscerale d’impastare la memoria individuale con altre memorie individuali, per consentire non la sopravvivenza ma la formazione della memoria collettiva di quel microcosmo che è un paese – il paese –, incrocio di occasioni e di passioni, insieme di esistenze e di ricordi, intreccio di situazioni e relazioni.

Come diceva Cesare Pavese: un paese vuol dire non essere soli.
Il movente, il motivo e il fine del narrare di Marco Pedone, si esprime in una frase di un personaggio: «Io voglio solo ricordare», dice il signor Sepp. Ma non si può ricordare da sé, soltanto per sé. Ricordare da sé e per sé, senza annodare il proprio ricordo ai ricordi di altri, trasforma la memoria in una dimensione autoreferenziale, la stringe in un campo esistenziale e semantico solitario e chiuso, confinante esclusivamente con la stessa propria esistenza e con la propria limitata capacità e possibilità di ricordo.
Marco Pedone sa bene che raccontare significa oltrepassare i confini e i contesti del soggetto per collocarsi in una posizione di dinamica intersoggettività, in un processo – che in quanto tale è in continuo divenire e in costante trasformazione – di ricerca di un orizzonte di senso sempre più ampio. Sa che raccontare la memoria richiede e pretende un movimento psicologico e testuale di doppio livello: il primo, che consiste nell’identificazione con il personaggio e quindi nel sentire dentro una memoria altrui; l’altro che consiste nell’affidare la propria memoria ad un personaggio e quindi in un decentramento del proprio io, e nel caso di una pluralità di personaggi nel ramificare la propria memoria in una pluralità di sguardi interiori. Ma poi tutto questo non basta. Poi occorre ricomporre la memoria frastagliata e dare unità alla memoria altrui di cui il soggetto narrante si è fatto cercatore e custode. Poi occorre intrecciare le maglie di una rete e, soprattutto, creare un movimento in verticale, in profondità: bisogna scendere, sprofondare nella psicologia di ciascun personaggio, indagare il senso particolare del rapporto che ciascuno ha con la propria memoria e con la memoria degli altri, di tutti quelli che in qualche modo contribuiscono alla sopravvivenza della sua memoria, così come lui contribuisce alla sopravvivenza di quella degli altri.
Questo fa in sostanza Marco Pedone. È questo il suo lavoro narrativo più significativo e pregnante. Mentre sembra che stia raccontando i fatti nel loro svolgersi lineare, si avvita, innesca vortici, discende, sprofonda fino a toccare la materia da cui si genera la memoria. Fino a scoprire l’origine dei sogni, delle storie, delle fantasie, delle emozioni, delle esperienze, delle credenze, del proprio essere, del proprio pensare, del modo di essere, di vivere, di amare, di sentire l’altro, di farsi sentire, di richiamarsi, di riconoscersi nell’essere nel mondo che è soltanto un paese. Il suo paese: dal quale va e viene. Senza essersi allontanato mai.
È narratore dal grosso respiro, Giuse Alemanno. Narratore dal grosso respiro è colui il quale si mette davanti alla Storia – a quella Storia che sembra così tanto lontana come se non fosse mai davvero accaduta – e restituisce al passato i volti, le voci, i destini che una volta sono stati un presente vivo e bruciante.
Il narratore dal grosso respiro sa cancellare distanze, sa usare il racconto come una fune che annoda presente e passato, è capace di far capire che quello che siamo viene da altri che sono stati in quelle lontananze. Questo riesce a fare Giuse Alemanno nel suo romanzo intitolato Terra nera, edito da Stampa Alternativa.
Perché non è rossa, la terra. La terra rossa è un luogo comune di tanta (forse troppa) letteratura da epigoni meridionaleggianti, una parodia, una sciacquatura dei temi e dei problemi del Sud com’era e com’è.
La terra nera, invece, è l’essenzialità di un significato che accomuna la terra e l’uomo fino a dimostrare la profondità di un’interdipendenza, la loro reciprocità totale, il loro opaco e tragico rispecchiamento.
Nera è la terra, perché nero è il dolore: il dolore che forgia l’uomo e lo fa essere e crescere sano, forte, subdolo, rancoroso. Nera è la terra perché è nera la disumanità della fatica. È nera la sfida che l’uomo lancia alla terra, ogni giorno, nera quella con cui la terra risponde.
E nero è, di conseguenza, il racconto di Giuse Alemanno, che vuole aderire, che vuole impastarsi con questa identificazione dell’uomo con la terra. Racconto che salta ogni premessa, rifugge da ogni indulgenza, scruta i fatti cominciando dal fondo e restando sul loro fondo, nella loro crudeltà, spesso, nella sfrontata assenza di ogni pietà da parte di chi dentro quei fatti agisce o che assiste al loro rapido o lento dispiegarsi.
Non hanno pietà i personaggi di Terra nera. Non hanno pietà per nessuno, meno che mai per se stessi. Non hanno nessuna paura, né degli uomini, né degli dei, né dell’inferno, perché all’inferno ci sono già, dice Alemanno riprendendo in epigrafe un verso di colui che è stato delicato cantore di vinti e diseredati: Fabrizio De Andrè.
Dice Nino, il protagonista: «Quella gente non esiste. Non sono nessuno. Quando crepano, la morte cancella la loro esistenza come una macchina lavastrade che spazzi i detriti dalla via». Dice questo in premessa, prima di cominciare il racconto, per chiarire di quali esistenze si narra, con quali storie la scrittura deve stabilire un confronto, quali carni devono mordere le parole per riuscire a dire quello che pretendono di dire.
I personaggi di Terra nera sono cafoni con l’animo da cafone. Per questa razza, le cose che mancano – dice Alemanno – valgono come le cose che ci sono. Le assenze si considerano presenze mancanti, le negazioni hanno il senso di affermazioni.
Cafone è un modo di nascere e morire, di guardare il mondo, di respirare, di gioire e di soffrire. Cafone è un modo di pensare e di parlare senza aggettivi.
Le cose, le azioni, i dolori, sono tutti racchiusi e compiuti nel nome. Non hanno bisogno di aggettivi. La vita e la morte sono senza aggettivi.
E allora Giuse Alemanno trascina il linguaggio verso la profondità delle sue storie. Anzi, della sua storia. Una sola storia: quella di gente sommersa fin dalla nascita dalla maledizione di dover continuamente fare il conto con la famelica ferocia del vivere, con i lupi che gironzolano intorno, con il lupo che è dentro se stessi, ma non nascosto. Con il lupo che azzanna ogni giorno e costringe a leccarsi la ferita lasciata dal morso. Perché è quella ferita lasciata dal morso del lupo che è dentro se stessi che immunizza e consente di sopravvivere alle ferite dei morsi lasciati da tutti gli altri lupi intorno.
Per il resto: non ci sono nemmeno i soldi per pagarsi la bara. Per il resto: bisogna ad ogni istante saltare il fosso della miseria nera che si spalanca nella terra nera.
Ci vuole coraggio a confrontarsi con temi del genere, di questi tempi. Di questi tempi il romanzo annusa il mercato e confeziona una storia compiacente. Solitamente esclude materie che richiedono – o che pretendono – da parte del lettore un coinvolgimento con la storia e una disponibilità a mettere in discussioni accomodanti certezze.
Giuse Alemanno ha trascurato ogni ragione di questo tipo. Non si è posto neppure il problema. Aveva una storia dentro da raccontare, probabilmente la stessa storia che avevano dentro migliaia di scatenatori che lavoravano da sole a sole dentro i solchi della terra nera. E l’ha scritta. E ogni volta che gli è capitato l’ha raccontata prima di scriverla. E continua a raccontarla ogni volta che gli capita. Con le stesse parole del libro. Con lo stesso vigore. Con la stessa appassionata indignazione per qualsivoglia celebrazione del buon tempo antico.
Fu Rina Durante, sette anni fa, a presentare il primo libro di Alemanno, che s’intitolava Racconti lupi. E Rina sapeva che saper scrivere è una cosa diversa dal saper raccontare. Per scrivere ci vuole conoscenza e competenza. Per raccontare ci vuole conoscenza, competenza. E passione.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2005