Ci vuole coraggio a confrontarsi con temi del
genere,
di questi tempi.
Di questi tempi
il romanzo annusa il mercato e
confeziona storie compiacenti.
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Cè un paese a sud del sud, verso il confine, poco
prima che la penisola della penisola sprofondi nella mescolanza
dacque di due mari che confondono i colori e le correnti,
cè un paese microcosmo di esistenze, universo di senso
che genera memorie che a loro volta generano le storie che Marco
Pedone narra nel suo GRI. Galvanoplastiche Ramature Imola (Ravenna,
Fernandel, 2004).
È un romanzo che dimostra una verità assoluta, una
sorta di sentenza inappellabile. Questa: che i destini non hanno
mai uno scampo, che i confini non si possono violare, che il tempo
si ripiega su se stesso, si svolge e si riavvolge intorno a un giorno,
un solo giorno, sempre uguale nellavvicendarsi di mattino,
meriggio e vespero.
Manca la notte nella scansione del tempo i cui si verificano e vivono
i fatti e le figure del romanzo. Forse perché la notte fa
troppa paura. Fa paura il buio che scende sugli uomini e sulle loro
storie, inevitabilmente, inesorabilmente.
Probabilmente è per questo che raccontano le storie. Probabilmente
è per questo che racconta Marco Pedone. Per ingannare la
notte, per impedire, per quanto si può, per come si può,
che lo scuro cancelli la memoria.
E allora per sconfiggere la notte, per avere lillusione di
poterla ritardare, bisogna trovare il modo di aggredirla, bisogna
urlare in faccia alle finestre chiuse, sventrando il buio a cavallo
di un Morini Settebello.
Cè un paese a sud del sud: un paese che è un
desiderio di memoria, una voglia viscerale dimpastare la memoria
individuale con altre memorie individuali, per consentire non la
sopravvivenza ma la formazione della memoria collettiva di quel
microcosmo che è un paese il paese , incrocio
di occasioni e di passioni, insieme di esistenze e di ricordi, intreccio
di situazioni e relazioni.

Come diceva Cesare Pavese: un paese vuol dire non essere soli.
Il movente, il motivo e il fine del narrare di Marco Pedone, si
esprime in una frase di un personaggio: «Io voglio solo ricordare»,
dice il signor Sepp. Ma non si può ricordare da sé,
soltanto per sé. Ricordare da sé e per sé,
senza annodare il proprio ricordo ai ricordi di altri, trasforma
la memoria in una dimensione autoreferenziale, la stringe in un
campo esistenziale e semantico solitario e chiuso, confinante esclusivamente
con la stessa propria esistenza e con la propria limitata capacità
e possibilità di ricordo.
Marco Pedone sa bene che raccontare significa oltrepassare i confini
e i contesti del soggetto per collocarsi in una posizione di dinamica
intersoggettività, in un processo che in quanto tale
è in continuo divenire e in costante trasformazione
di ricerca di un orizzonte di senso sempre più ampio. Sa
che raccontare la memoria richiede e pretende un movimento psicologico
e testuale di doppio livello: il primo, che consiste nellidentificazione
con il personaggio e quindi nel sentire dentro una memoria altrui;
laltro che consiste nellaffidare la propria memoria
ad un personaggio e quindi in un decentramento del proprio io, e
nel caso di una pluralità di personaggi nel ramificare la
propria memoria in una pluralità di sguardi interiori. Ma
poi tutto questo non basta. Poi occorre ricomporre la memoria frastagliata
e dare unità alla memoria altrui di cui il soggetto narrante
si è fatto cercatore e custode. Poi occorre intrecciare le
maglie di una rete e, soprattutto, creare un movimento in verticale,
in profondità: bisogna scendere, sprofondare nella psicologia
di ciascun personaggio, indagare il senso particolare del rapporto
che ciascuno ha con la propria memoria e con la memoria degli altri,
di tutti quelli che in qualche modo contribuiscono alla sopravvivenza
della sua memoria, così come lui contribuisce alla sopravvivenza
di quella degli altri.
Questo fa in sostanza Marco Pedone. È questo il suo lavoro
narrativo più significativo e pregnante. Mentre sembra che
stia raccontando i fatti nel loro svolgersi lineare, si avvita,
innesca vortici, discende, sprofonda fino a toccare la materia da
cui si genera la memoria. Fino a scoprire lorigine dei sogni,
delle storie, delle fantasie, delle emozioni, delle esperienze,
delle credenze, del proprio essere, del proprio pensare, del modo
di essere, di vivere, di amare, di sentire laltro, di farsi
sentire, di richiamarsi, di riconoscersi nellessere nel mondo
che è soltanto un paese. Il suo paese: dal quale va e viene.
Senza essersi allontanato mai.
È narratore dal grosso respiro, Giuse Alemanno. Narratore
dal grosso respiro è colui il quale si mette davanti alla
Storia a quella Storia che sembra così tanto lontana
come se non fosse mai davvero accaduta e restituisce al passato
i volti, le voci, i destini che una volta sono stati un presente
vivo e bruciante.
Il narratore dal grosso respiro sa cancellare distanze, sa usare
il racconto come una fune che annoda presente e passato, è
capace di far capire che quello che siamo viene da altri che sono
stati in quelle lontananze. Questo riesce a fare Giuse Alemanno
nel suo romanzo intitolato Terra nera, edito da Stampa Alternativa.
Perché non è rossa, la terra. La terra rossa è
un luogo comune di tanta (forse troppa) letteratura da epigoni meridionaleggianti,
una parodia, una sciacquatura dei temi e dei problemi del Sud comera
e comè.
La terra nera, invece, è lessenzialità di un
significato che accomuna la terra e luomo fino a dimostrare
la profondità di uninterdipendenza, la loro reciprocità
totale, il loro opaco e tragico rispecchiamento.
Nera è la terra, perché nero è il dolore: il
dolore che forgia luomo e lo fa essere e crescere sano, forte,
subdolo, rancoroso. Nera è la terra perché è
nera la disumanità della fatica. È nera la sfida che
luomo lancia alla terra, ogni giorno, nera quella con cui
la terra risponde.
E nero è, di conseguenza, il racconto di Giuse Alemanno,
che vuole aderire, che vuole impastarsi con questa identificazione
delluomo con la terra. Racconto che salta ogni premessa, rifugge
da ogni indulgenza, scruta i fatti cominciando dal fondo e restando
sul loro fondo, nella loro crudeltà, spesso, nella sfrontata
assenza di ogni pietà da parte di chi dentro quei fatti agisce
o che assiste al loro rapido o lento dispiegarsi.
Non hanno pietà i personaggi di Terra nera. Non hanno pietà
per nessuno, meno che mai per se stessi. Non hanno nessuna paura,
né degli uomini, né degli dei, né dellinferno,
perché allinferno ci sono già, dice Alemanno
riprendendo in epigrafe un verso di colui che è stato delicato
cantore di vinti e diseredati: Fabrizio De Andrè.
Dice Nino, il protagonista: «Quella gente non esiste. Non
sono nessuno. Quando crepano, la morte cancella la loro esistenza
come una macchina lavastrade che spazzi i detriti dalla via».
Dice questo in premessa, prima di cominciare il racconto, per chiarire
di quali esistenze si narra, con quali storie la scrittura deve
stabilire un confronto, quali carni devono mordere le parole per
riuscire a dire quello che pretendono di dire.
I personaggi di Terra nera sono cafoni con lanimo da cafone.
Per questa razza, le cose che mancano dice Alemanno
valgono come le cose che ci sono. Le assenze si considerano presenze
mancanti, le negazioni hanno il senso di affermazioni.
Cafone è un modo di nascere e morire, di guardare il mondo,
di respirare, di gioire e di soffrire. Cafone è un modo di
pensare e di parlare senza aggettivi.
Le cose, le azioni, i dolori, sono tutti racchiusi e compiuti nel
nome. Non hanno bisogno di aggettivi. La vita e la morte sono senza
aggettivi.
E allora Giuse Alemanno trascina il linguaggio verso la profondità
delle sue storie. Anzi, della sua storia. Una sola storia: quella
di gente sommersa fin dalla nascita dalla maledizione di dover continuamente
fare il conto con la famelica ferocia del vivere, con i lupi che
gironzolano intorno, con il lupo che è dentro se stessi,
ma non nascosto. Con il lupo che azzanna ogni giorno e costringe
a leccarsi la ferita lasciata dal morso. Perché è
quella ferita lasciata dal morso del lupo che è dentro se
stessi che immunizza e consente di sopravvivere alle ferite dei
morsi lasciati da tutti gli altri lupi intorno.
Per il resto: non ci sono nemmeno i soldi per pagarsi la bara. Per
il resto: bisogna ad ogni istante saltare il fosso della miseria
nera che si spalanca nella terra nera.
Ci vuole coraggio a confrontarsi con temi del genere, di questi
tempi. Di questi tempi il romanzo annusa il mercato e confeziona
una storia compiacente. Solitamente esclude materie che richiedono
o che pretendono da parte del lettore un coinvolgimento
con la storia e una disponibilità a mettere in discussioni
accomodanti certezze.
Giuse Alemanno ha trascurato ogni ragione di questo tipo. Non si
è posto neppure il problema. Aveva una storia dentro da raccontare,
probabilmente la stessa storia che avevano dentro migliaia di scatenatori
che lavoravano da sole a sole dentro i solchi della terra nera.
E lha scritta. E ogni volta che gli è capitato lha
raccontata prima di scriverla. E continua a raccontarla ogni volta
che gli capita. Con le stesse parole del libro. Con lo stesso vigore.
Con la stessa appassionata indignazione per qualsivoglia celebrazione
del buon tempo antico.
Fu Rina Durante, sette anni fa, a presentare il primo libro di Alemanno,
che sintitolava Racconti lupi. E Rina sapeva che saper scrivere
è una cosa diversa dal saper raccontare. Per scrivere ci
vuole conoscenza e competenza. Per raccontare ci vuole conoscenza,
competenza. E passione.
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