Dicembre 2005

ideologie e paura della storia

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La memoria rubata
Aldo Bello  
 
 

Sull’altro fronte, l’uomo che aspira ad essere
smemorato resta pur sempre uno sciocco. Peccato per lui, che si ostina a vedere solo il dito e gli sfugge la visione della luna.

 

Erano opulente come il mais le soldatesse polacche che guidavano i camion con le vettovaglie per gli eserciti che stavano liberando l’Italia, e che in piccola parte risalivano la penisola anche dal Salento. Insieme con costoro giunsero anche la gomma da masticare e le sigarette aromatizzate, arrivarono la farina bianca per il pane e la pasta, i “salamini” che erano parenti stretti dei würstel, la carne con i piselli in scatola che decenni dopo avrei ritrovato alla mensa dell’Accademia di West Point, la marmellata gialla, lo zucchero “inglese”, le coperte di lana merino con cui tanti si fecero cucire addosso un cappotto per proteggersi dai rigori dell’inverno…
Non fu la fine della fame, fu l’inizio di una fame meno atroce, destinata ad essere poi sconfitta dalle granaglie che dalle pianure della Corn Belt venivano sbarcate nei nostri porti affollati di vecchie navi da trasporto Liberty. Fu la disponibilità di medicinali decisivi, dai sulfamidici agli antibiotici, che sostituirono i vecchi intrugli con i quali prima si moriva sistematicamente. Fu l’avvio della ricostruzione fisica e morale di un Paese che era già arretrato, che una guerra tanto insensata quanto devastante aveva messo in ginocchio, e che non sarebbe mai riuscito a rialzarsi senza l’aiuto dell’America: dei cereali americani, dei capitali americani, dei piani Unrra ed Erp americani.
Sicché io potrò essere in disaccordo con una certa politica americana, con alcune o molte iniziative planetarie americane, con determinate azioni economiche e finanziarie americane. Ma benedirò sempre e comunque gli Stati Uniti d’America che mi hanno fatto assaporare da bambino, dopo i traumi degli allarmi, delle fughe e dei bombardamenti, il gusto del pane bianco e quello della libertà, che un’altra – e piuttosto consistente – parte dell’Europa, finita sotto il tallone comunista, non ebbe la fortuna di conoscere.
Ho viaggiato molto, e ho dunque potuto toccare con mano, e non son venuto a sapere per caso o per sentito dire, che cosa ha significato per Paesi rasi al suolo (Germania, quella Federale, e Italia e Giappone) essere inclusi nella sfera del sistema politico ed economico occidentale, che ancora oggi non sarà il migliore dei mondi possibili, ma sicuramente è stato il mondo perfettibile che, solo, poteva garantire libera parola, libere idee, libero mercato, libero movimento, libero confronto. E tutto questo mi è stato indispensabile per vivere il mio tempo, perché chi non ha memoria del passato, ha detto il presidente Ciampi, non ha futuro.

Nessuno, dunque, mi potrà rubare la memoria, perché non ho alcuna intenzione di piegarla alle passioni politiche che impediscono anche ai miei figli, cioè alle nuove generazioni, di essere padrone del loro avvenire. E non ci sarà alcun bisogno di negare la Storia, di averne paura, tenendo quelle generazioni prigioniere in zone prive di significato e separate dalle radici. E, fra le vicende vissute da tutti noi negli ultimi sessant’anni, ineliminabile è la parte avuta dalla bandiera a stelle e strisce, quella che l’ingratitudine di tanti contemporanei, per violento spirito di parte, per vocazione alla menzogna, per strumentale smemoratezza, ha portato al rito a suo modo macabro delle bandiere americane date alle fiamme in alcune piazze del Belpaese. Smemorarsi – consapevolmente oppure no – vuol dire impoverire le proprie ragioni. Offendere la bandiera di un Paese e di un popolo che aiutò i nostri genitori a ritrovare la pace e a conquistare un benessere sconosciuto nel nostro passato significa rendere più fragili i sentimenti a difesa di una nuova pace.

È stato scritto: non si potrebbe malignamente immaginare scena più controproducente di gruppi di pacifisti incattiviti, armati di pezzi di ferro davanti a un drappo che brucia. Dove sono appassiti i fiori che i loro predecessori mettevano sulle bocche dei cannoni? Dove sono finite l’intelligenza e la lealtà, che fine ha fatto la convinzione che non si possono più portare torto e censura alla Storia? Quando potremo contare su classi dirigenti, politiche, economiche, sociali, intellettuali, non accanitamente ideologizzate, che la smettano di trasformare il confronto con l’avversario in criminalizzazione del nemico?
Emblematico quanto è accaduto con i tornado (il Katrina, in particolare) che hanno colpito gli Stati Uniti, seminando come sempre, e magari più di sempre, distruzione e morte. Sappiamo che il ciclo climatico planetario sta cambiando, che non è possibile prevederne i comportamenti, che non sempre le misure prese per la protezione delle popolazioni sono sufficienti. Sappiamo tutto questo, e altro ancora. E possiamo oggettivamente dire che nel caso del Katrina la portata dei rischi è stata sottovalutata, e che l’America si è dovuta mettere non al passo, ma al trotto con la riorganizzazione degli interventi di protezione civile, anche se una città-gioiello come New Orleans, culla della poesia e della musica afro-americana, non potrà riemergere dal limo prima di uno, forse anche due anni.

Ma non è questo ciò che è stato messo in evidenza da chi ha scritto non le cronache, ma le sentenze contro Washington, contro l’attuale Presidente americano, e soprattutto contro il capitalismo e il libero mercato. I corrispondenti dei maggiori quotidiani italiani, compresi quelli che si sono venduta l’anima pur di essere distaccati a New York, e i guru del giornalismo nostrano, compresi i residuati fossili della partigianeria più livorosa e i Grandi Maestri del Pensiero Unico, hanno attribuito al sistema occidentale le colpe delle rovine causate da un evento naturale che di per sé è sempre imponderabile; hanno sproloquiato di abbandono delle popolazioni nere, come se la morte avesse fatto distinzioni fra wasp e afro; hanno discettato sulla negatività dell’idea capitalistica, che può seminare solo guerre, lutti, distruzioni. Sono, questi personaggi, coloro i quali vivono, agiscono, lavorano, e soprattutto guadagnano da veri e propri capitalisti; affollano i salotti buoni, che in tanto sono buoni in quanto fanno fronda o fanno opposizione, e sorvolando su evidenti conflitti di ordine etico ostentano tenori di vita come status symbol perfettamente intrisi di interessi capitalistici; predicano l’odio politico-sociale ad uso e consumo del popolo che considerano bue, mentre tengono in vita una lobby ferrigna, priva di pudori e di scrupoli, soprattutto priva di una volontà propositiva di dialogo per il bene comune, nel nome di una nefasta supremazia degli intellettuali (e presunti intellettuali) resi ciechi dal bisogno accanito di servilismo dottrinale. Katrina ci ha fatto vergognare di avere stretto la mano, in altre occasioni e circostanze, a tanti di costoro: che pure sono sopravvissuti grazie alla farina americana, alla cioccolata americana, alla carne in scatola americana, al latte in polvere americano, con cui si sono nutriti essi stessi, o coloro i quali li hanno messi al mondo. E grazie alla libertà portata dagli americani e dalla loro idea di centralità dell’uomo, contro l’ideologia della massificazione nullificante dell’uomo.
Dal momento che la Storia non si ripete mai allo stesso modo, il pesante ritorno dell’ideologia va esaminato con occhi nuovi. Sono ideologie singolari, infatti, quelle che oggi rifiutano di prendere in esame la sostanza dei fatti, perché sono interessate piuttosto al tornaconto che favorisca esoteriche confraternite di gruppi, partiti, “cuginanze” e affini. Esse pretendono di non conoscere dogmatismi, si presentano come spregiudicate e pragmatiche, in affari e in politica, mentre hanno un colore di profondo nichilismo, soprattutto perché il loro pragmatismo è una traduzione eufemistica di opportunismo, di “utilità”.
Così è per tutte le verità, ad esempio, nel nichilismo descritto da Nietzsche: nessuna verità esiste in quanto tale, come ricostruzione fedele dell’accaduto («L’Essere manca», annuncia Zarathustra), sia quando il vero si esprime nella morale, sia quando si esprime nella giustizia o nelle leggi. La verità non la si scopre, la si crea al posto del Dio ucciso. La nozione di sostanza si sgretola, decomponendo poi anche l’Io col senso di responsabilità e di colpa che gli appartiene. Tutte queste cose – Verità, Valori, Storia – sono sostituite dalla nozione di Utilità, che è volontà di potenza sciolta da qualsiasi legge, poiché non tollera poteri concorrenti. Anche questo è tipico dell’intellettuale ideologizzato, il quale non intende veder confutata o limitata (legibus soluta) la propria verità: solo che oggi si finge spregiudicato e pragmatico, nel momento in cui fa quadrato attorno alla propria ideologia. Nell’essenza il nuovo ideologo non è democratico, se per democrazia si intende qualcosa di più che il prevalere della maggioranza, qualunque essa sia. Democrazia è una storia lunga, che accanto al volere maggioritario ha instaurato, a partire da Montesquieu, un principio fondamentale: «Perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». È una verità semplice e breve: che in Italia fatica a passare.
Perché da noi la questione morale si trasformi finalmente in qualcosa di fecondo, è necessario che alle storture italiane si risponda con determinazione, riconoscendole come storture e non ricorrendo alla strategia degli scontri che trasformano tutte le verità e le leggi in quelle che Nietzsche chiama “supposizioni”, e che dalle nostre parti assumono regolarmente la meno nobile sostanza dell’insulto, e persino dell’ingiuria. Occorre riconoscere che i poteri di controllo (“checks and balances”, controlli e contrappesi) sono utili, e non malvagi. Non a caso il premio Nobel Robert Mundell ha sostenuto che, di fronte agli scandali, «importante è avere la reazione giusta»: che vuol dire soprattutto manifestare una decisa indignazione pubblica. Le verità sono sempre laconiche. Nel Decalogo, quella che Thomas Mann chiama «la quintessenza della decenza umana», è riassunta in appena dieci parole. Per un intellettuale italiano non sarebbero state sufficienti dieci pagine “in folio”.

Qualcuno si è chiesto: ma che cos’è la memoria? E ha risposto che è innanzitutto un’esperienza individuale, determinata dal modo in cui i protagonisti di un evento lo hanno vissuto e dal modo in cui in seguito ne hanno elaborato il ricordo. Ogni protagonista ha la propria memoria, altri ne hanno una condivisa. Ma esiste anche una “memoria ufficiale”, ed è cosa ben diversa. È una costruzione a posteriori, influenzata dalle contingenze, dalle forze egemoni in ambito politico e soprattutto in ambito culturale. Per questo essa è mutevole. Cambia con il cambiare dei contesti e delle contingenze.
Questo specifico tipo di memoria, in Italia, è afflitto da un’antica malattia che si prolunga nel tempo senza cambiamenti di rilievo. È una memoria perennemente in guerra, che ripropone gli schieramenti e le contrapposizioni dei giorni ai quali rimanda. Nel frattempo abbiamo riconquistato la libertà, la Repubblica si è bene o male consolidata, profonde crisi politiche sono state superate, il comunismo è crollato... Non per questo, però, la guerra della memoria si è sopita. Da una parte e dall’altra gli eredi dei combattenti di un tempo si sono trovati d’accordo soltanto su un punto: impedire che le loro memorie originarie fossero superate dall’evoluzione di un obiettivo sapere storico. È nato da qui quello che Raymond Aron ha definito «il romanticismo da guerra civile»: con il passare degli anni e il succedersi delle generazioni l’effetto è stato la cristallizzazione dello scontro iniziale, divenuto conflitto permanente.
Sull’altro fronte, l’uomo che aspira ad essere smemorato resta pur sempre uno sciocco. Peccato per lui, che si ostina a vedere solo il dito e gli sfugge la visione della luna. Pur di difendere il proprio mondo immaginario (il suo mondo ideologico) disimparerà a vedere il mondo qual è, le passioni che lo spingono, la sete di giustizia che lo agita, le stesse alchimie che possono tenerlo in equilibrio. Non gli sarà stato di giovamento pensare che il mondo com’è sia o una mera supposizione o un coacervo di poteri e magari di “ressentiments” da controllare. E continuerà a bruciare memorie e bandiere, e a vivere nell’angolo ottuso dei propri (non riconosciuti, dunque non riscattati) fallimenti, convinto delle proprie inoppugnabili certezze, dell’inossidabilità della casta e delle sue neo-lingue politiche orwelliane, mai opache, mai confutabili, mai spogliate dal filo sleale del dogma.
È soltanto una parte della nostra società politica e dell’intellettualismo italico a dispiegare il proprio velenoso antiamericanismo? Tutt’altro. Siamo in buona compagnia. Eric Conan sostiene, ad esempio, che l’antiamericanismo francese si definisce non per la sua ostilità verso gli Stati Uniti, ma per il modo irragionevole e irrazionale con cui lo esprime: «Disprezzo della realtà dei fatti, esagerazioni, malafede, menzogne storiche, ingiurie». E aggiunge: «È un mistero francese: la critica nei confronti dei dirigenti americani, esercizio legittimo e anzi necessario se si tiene conto del loro stile e del loro comportamento presente e passato, degenera invariabilmente nella stupidità antiamericana».
Nato più di due secoli fa, con la creazione della nazione americana, l’antiamericanismo transalpino è un fenomeno complesso; il bersaglio delle sue invettive è stato, a seconda delle epoche, o l’American way of life, cioè il suo stile e la sua cultura, oppure il suo rapporto con il resto del mondo, cioè la sua potenza commerciale, militare e tecnico-scientifica. Un conflitto edipico – come sostiene Conan – sembra essere all’origine di tutto ciò. La Francia, che fu la prima, nel 1778, a riconoscere l’America nella famiglia delle nazioni, fu subito coinvolta nel ribollimento di questo nuovo Paese. Le élites create dall’Illuminismo erano divise tra l’interesse per l’energia di questi immigranti fuggiti dall’Europa e il disgusto per la loro mancanza di raffinatezza. Nacque così una tradizione letteraria che si aprì con Stendhal, infastidito da questo popolo «che non conosce l’opera», e con Baudelaire, il quale, eccezion fatta per Edgar Allan Poe, non vi vedeva altro che «una barbarie illuminata con la luce a gas».
Il paradossale capolavoro prima della destra nazionalista e poi della sinistra stalinista è stato quello di alimentare l’odio contro l’America, grazie al “complesso del signor Perrichon”, cioè di quel personaggio di Eugéne Labiche il quale era pieno di astio nei confronti del suo giovane salvatore perché gli doveva la vita. Ebbene: la Francia ha perso due guerre mondiali, la prima e la seconda, che sono state vinte per lei dagli anglo-americani; e dopo il ‘45 sarebbe letteralmente morta di fame se non ci fosse stato l’intervento massiccio del Piano Marshall.
Le cronache antiamericane sono ricche anche di vicende che riguardano la Germania, che pure agli Stati Uniti deve buone ragioni della sua riunificazione. I socialdemocratici, gli intellettuali, una parte dei giornalisti, hanno attaccato duramente l’America che scendeva in campo contro l’Iraq per compiervi un «assassinio di massa». Intanto la Norvegia assegnava il Nobel per la pace a un presidente americano incolore, come Carter, opponendolo all’unilateralista Bush, mentre la Svezia assegnava i premi Nobel per la letteratura ad un attore-giullare italiano (antiamericano), poi ad una scrittrice ritenuta dai più una pornografa (antiamericana), e adesso ad un autore di teatro che definisce il Presidente americano un genocida e quello britannico un idiota, e che in una sua poesia (“God Bless America”, Dio benedica l’America) s’inventa un «Dio americano» che «puzza» in un’«aria di morte»; e fa tornare alla mente quel che accadde il giorno in cui, ricevendo a Firenze una laurea ad honorem, costui mise in imbarazzo i colti e le inclite perché al posto della lectio magistralis di prammatica pronunciò una violenta invettiva «contro l’imperialismo americano». Il mattino seguente segnò una data storica del terrore planetario, frutto dell’odio seminato (e premiato) a larghe mani: era l’11 settembre 2001, il giorno dei massacri alle newyorkesi Torri Gemelle.
La Germania ha forse dimenticato quel che vide il cielo sopra i suoi länder non liberati dagli anglo-americani? Ha dimenticato la Norvegia d’aver avuto, insieme con la Francia, un capo di governo collaborazionista ai tempi di Hitler? E la Scandinavia ha scordato d’aver avuto un Nobel per la letteratura che era filonazista, Knut Hamsun? E che ne sarebbe stato del Regno Unito, senza la potenza statunitense alle spalle, e poi in prima linea, nel più feroce conflitto della storia universale? E Stoccolma ricorderà che i premi assegnati come “segnale politico” sono destinati a squalificare chi li riceve, anche se può essere indiscutibile il suo valore letterario? I “rumori” della vigilia avevano considerato un’assegnazione al turco Orhan Pamuk (nella sua patria finito sotto processo). Gli si è preferito un drammaturgo inglese che non vuole più scrivere di teatro e che dedica prose e versi all’antioccidentalismo più sfrontato. Che è quello che rende di più, agli intellettuali impegnati e alle editrici che fanno moda e affari senza porsi troppe domande.
Illusi e stoltamente romantici, cioè leali, fedeli al patto, siamo noi, in tempi di abiure, di memoria volatile, di abili giravolte, di carsici mercantilismi politici. Fuori tempo sono coloro i quali magari rammentano che il Male, l’Impero del Male, non è, non può essere unilaterale, che idee e prassi saturnine si sono dispiegate anche (e tanto di più) sull’ “altro fronte”, quello volontaristicamente inesplorato o giustificato e ancora invocato – dopo l’89! – dalle filibuste che per inoltrarsi nel futuro sanno fare solo dietro-front; che rubano i ricordi; che sono mandanti morali dell’omicidio della memoria; che rendono vischioso il progresso per il quale dicono di battersi; che infestano opere e giorni, ozi e negozi, e inquinano menti e coscienze per meglio dominarle, in attesa di una Macchina Neo-orwelliana che, abraso il passato, scriva le nostre esistenze di anonimi organici lobotomizzati numeri nel sole depensante dell’avvenire.

 

   
   
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