Dicembre 2005

da atene all’india e al giappone

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Le radici
della democrazia
Amartya Sen Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

Esistono
precedenti di
confronto pubblico e di tolleranza
nei confronti
dell’eterodossia anche nei Paesi musulmani, mondo arabo
incluso.

 

La democrazia è per lo più considerata una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico: una forma di “governo attraverso il confronto”. Il voto è, in prospettiva, solo un elemento in un quadro molto più ampio. La democrazia ha origine assai prima dell’affiorare di pratiche rigidamente definite e precisamente collocate. Un tributo va certamente reso al potente ruolo giocato dal pensiero occidentale moderno, collegato all’Illuminismo europeo, nello sviluppo delle idee liberali e democratiche. Le radici di queste idee generali, però, possono essere rintracciate in Asia e in Africa, così come in Europa e in America.
La convinzione che la democrazia sia un’idea intrinsecamente “occidentale” è spesso ancorata alla pratica del voto nell’antica Grecia, in modo particolare in Atene. Questo è certamente un primato, ma il salto logico che porta a sostenere la natura tipicamente “occidentale” oppure “europea” della democrazia genera soltanto confusione. Il problema sostanziale concerne la suddivisione del mondo in categorie prevalentemente razziali, attraverso le quali l’antica Grecia è vista come parte integrante ed esclusiva di una tradizione “europea” riconoscibile.
Nell’ambito di questa prospettiva classificatoria, non pare affatto difficile considerare i discendenti dei Goti o dei Visigoti come i legittimi eredi della tradizione greca (“sono tutti europei”), mentre si fa fatica a prendere atto dei legami intellettuali tra greci e antichi egizi, iraniani e indiani, malgrado l’interesse che gli stessi antichi greci mostrarono nei confronti di questi ultimi (piuttosto che dei Visigoti).

Un’ulteriore difficoltà riguarda il fatto che il confronto pubblico fiorì, certamente, nell’antica Grecia, ma lo stesso accadde anche in altre civiltà antiche. Alcuni dei primi incontri pubblici specificamente volti a dirimere le controversie ebbero luogo in India, a partire dal VI secolo prima di Cristo, nei cosiddetti “consigli” buddhisti, nei quali i sostenitori di differenti punti di vista si riunivano per discutere le loro divergenze d’opinione. L’imperatore Ashoka, che nel III secolo prima di Cristo ospitò il più grande di questi consigli nella capitale Pataliputra (oggi Patna), tentò anche di codificare e di promuovere quella che deve essere stata una delle prime formulazioni di regole per il pubblico dibattito: una primitiva versione delle “Robert’s Rules of Order” del XIX secolo.
Allo stesso modo, la cosiddetta “Costituzione dei Diciassette articoli”, redatta dal principe buddhista Shotoku nel 604 in Giappone, insisteva, in uno spirito molto simile a quello della “Magna Charta” di sei secoli successiva: «Le decisioni relative a importanti questioni non dovrebbero essere prese da una sola persona. Dovrebbero essere discusse da più individui».
Esistono precedenti di confronto pubblico e di tolleranza nei confronti dell’eterodossia anche nei Paesi musulmani, mondo arabo incluso. Quando nel XII secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto ad emigrare da un’Europa intollerante, trovò rifugio nel mondo arabo e andò a ricoprire una posizione di prestigio alla corte dell’imperatore Saladino, al Cairo.
Per citare un altro esempio, quando nel 1600 per decisione del tribunale dell’Inquisizione l’eretico Giordano Bruno venne bruciato sul rogo a Roma, Akbar, il grande imperatore Moghul dell’India (nato e morto musulmano), aveva appena ultimato il suo progetto di codifica legale dei diritti delle minoranze, tra i quali rientrava la libertà di religione per tutti.
Akbar istituì inoltre ad Agra quello che fu forse il primo gruppo di discussione multireligioso, nell’ambito del quale ebbero luogo incontri regolari tra induisti, musulmani, cristiani, giainisti, ebrei, parsi e persino atei, per discutere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni e per capire in che modo convivere.
E l’Iraq, allora? Sarebbe un errore tentare di servirsi dei problemi immediati del Paese per rinnegare la generale possibilità, oltre che la necessità di democrazia a Baghdad. D’altro canto, un’interpretazione ristretta e meccanica della democrazia sta costando a questo Paese un alto prezzo. Se è vero che le recenti elezioni sono state accolte con molto calore, è anche vero che in assenza di un dialogo adeguatamente aperto e partecipativo il processo elettorale è stato, come previsto, improntato a formule etniche e religiose. Siamo di fronte a un problema analogo in Afghanistan, dove si punta tanto sulle riunioni di capi tribali e sui consigli religiosi e non sulla promozione, più faticosa ma anche criticamente rilevante, di incontri aperti e generali.
Tra i requisiti della democrazia rientra lo sviluppo delle opportunità di un confronto pubblico partecipativo. Questo significa promuovere i diritti civili, tra i quali la tutela da arresti arbitrari (e, naturalmente, dalla tortura), insieme con l’assicurazione di strutture destinate agli incontri pubblici e la possibilità di una maggiore libertà d’informazione. È importante assecondare, piuttosto che ostacolare, lo sviluppo delle identità non settarie di donne e di uomini e la riaffermazione dell’autostima, ad esempio degli iracheni in quanto iracheni. Il primo passo consiste nel pervenire ad una più lucida comprensione della natura del “governo attraverso il confronto”.

 

   
   
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