Dicembre 2005

De america

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Futuri scenari
Mario Deaglio  
 
 

 

 

 

 

Si eviterebbe così il rischio di un
collasso per
il quale i termini
di Hiroshima
e di Armageddon potrebbero non
essere esagerati.

 

Robustissima da un punto di vista tecnologico, imponente per la quantità di risorse, quella straordinaria costruzione che è l’economia americana può essere, per certi versi, paragonata alla Torre di Pisa: sono all’opera forze riconoscibili, e perfino misurabili, che tendono ad accentuare la pendenza di questo famoso monumento ma, per quanto la sua caduta sia astrattamente certa, essa si colloca in un futuro indeterminato, mentre nell’immediato è possibile allontanarla con vari espedienti. Se si ragiona sul giorno per giorno, in assenza di una causa scatenante, il crollo della torre, come quello dell’economia americana, potrebbe non avvenire mai.
Le vulnerabilità dell’economia americana possono esser fatte risalire ai deficit, tra loro correlati, della bilancia commerciale e delle finanze pubbliche, che rendono indispensabile l’afflusso costante di risorse finanziarie dal resto del mondo, attratte dalle opportunità di investimento, dalla superiorità tecnica, dalla flessibilità e dai rendimenti dei mercati americani.
Questo afflusso continuo deve derivare, in ultima analisi, dal potere di attrazione degli Usa, il quale, a sua volta, può poggiare sulla persuasione e sulla manifesta eccellenza tecnico-finanziaria (il cosiddetto soft power) oppure su forme di egemonia e di costrizione (il cosiddetto hard power). Esso implica, in definitiva, che le attività in dollari accumulate dagli altri Paesi, comprensive degli interessi pagati su questo debito, non vengano mai convertite in altre monete e quindi non lascino mai il sistema finanziario americano. Per mantenere in salute l’economia americana, il dollaro deve pertanto conservare il ruolo di moneta di riserva e la posizione centrale nel sistema delle transazioni monetarie mondiali. In queste condizioni, i deficit americani sopra indicati, e in particolare il deficit con l’estero, esercitano un potente effetto di stimolo sull’economia dei Paesi che sono esportatori netti nei confronti degli Stati Uniti e, per loro tramite, sull’intera economia mondiale.
La possibilità pratica che il dollaro perdesse questo ruolo centrale era sostanzialmente nulla fino a pochi anni fa per la mancanza di un possibile sostituto. La situazione si è nettamente modificata con la comparsa sulla scena dell’euro, il quale ha dato origine a un mercato finanziario di ben altre dimensioni, in grado di sostenere una domanda di attività denominate in euro provenienti da Paesi che vogliano diversificare le proprie riserve. La zona euro, del resto, costituisce un’economia di dimensioni non molto inferiori a quella americana; è espressione di mercati finanziari più liquidi che in passato, dai quali è quindi più facile entrare e uscire; e la politica monetaria della Banca centrale europea e il Patto di stabilità – pur con l’allentamento del marzo 2005 – sono garanzie assai solide contro avventure inflazionistiche.

Già si era verificata, a partire dal 1971, anno dello sganciamento del dollaro dal cambio fisso con l’oro, una tendenza alla moderata riduzione del ruolo di riserva della moneta americana e, non a caso, tale tendenza ha subìto un’accelerazione dopo la comparsa dell’euro. Va aggiunto che il dollaro non ha premiato, ma anzi ha punito, con le forti decurtazioni di valore subìte dopo lo sganciamento dall’oro nell’agosto ‘71, la fedeltà dei Paesi che lo adottano come moneta di riserva. Come ha sostenuto appropriatamente The Economist in una preoccupata analisi del 2 dicembre 2004, «in passato non era mai successo che il Paese che svolge la funzione di custode della principale moneta mondiale di riserva fosse anche il maggior debitore netto mondiale. In quanto debitore, può avere la tentazione di usare la svalutazione per ridurre il proprio deficit estero, il che non è certo appropriato per una moneta di riserva».
Se queste analisi sono corrette, perché si continua a utilizzare il dollaro come moneta di riserva ben al di là del peso dell’economia americana negli scambi internazionali? In ultima analisi, i motivi principali sono due, entrambi di natura complessa in quanto incorporano elementi di carattere economico ed extraeconomico, e possono essere definiti come “timore reverenziale” e “ottimismo tecnologico”.

Il timore reverenziale è determinato: a) da considerazioni di natura politico-strategica; b) da ragionevoli valutazioni economiche: se le politiche di differenziazione delle riserve portassero a un’apprezzabile perdita di valore del dollaro, i prodotti esteri negli Usa diventerebbero più cari. I Paesi che delle esportazioni verso gli Stati Uniti hanno fatto la struttura portante della propria strategia di crescita avrebbero minori possibilità di espandere la produzione. Si aggiungano anche la paura di ritorsioni commerciali americane, di cui esiste una lunga casistica e, per converso, un certo “potere contrattuale” nei confronti degli Stati Uniti da parte di Paesi che hanno la qualifica di creditori. Questo può spiegare perché un Paese come il Giappone sottoscrive regolarmente una quota importante delle emissioni di titoli del debito pubblico americano.
L’ottimismo tecnologico consiste nella speranza che le innovazioni di processo e di prodotto realizzate negli Usa, spesso nei settori della cosiddetta nuova economia, producano profitti elevati e sostengano la crescita americana. Appannatosi dopo gli insuccessi finanziari che determinarono le forti cadute di Borsa del 2000-2001, l’ottimismo tecnologico è rispuntato nel 2004 nella prospettiva che Internet, le biotecnologie, l’elettronica avanzata, le nuove forme di spettacoli di massa si affermino definitivamente. Meglio allora investire in quest’economia apparentemente debole, perché potrebbe avere in sé quanto occorre per superare, magari in tempi medio-lunghi, l’attuale condizione di indebitamento e per ristabilire un primato monetario accanto al primato tecnologico e industriale.
Il rimbalzo del dollaro, verificatosi nel febbraio 2005, pare attribuibile all’effetto congiunto di questi due motivi: il timore reverenziale è leggermente cresciuto grazie al buon andamento delle elezioni irachene e all’evoluzione della situazione politica in Libano e in Palestina, e l’ottimismo tecnologico ha fatto un passo avanti con il crescere dell’e-commerce nelle vendite natalizie. Questo rimbalzo ha, ancora una volta, rimosso le paure immediate che avevano indotto osservatori estremamente autorevoli, come l’economista Paolo Savona e il chief economist di Morgan Stanley, Stephen Roach, ad esprimersi in termini estremamente preoccupati, inducendo l’uno a parlare di pericolo di un’«Hiroshima valutaria» e di una «Seconda Grande Crisi», e l’altro di «Armageddon» (il luogo del conflitto supremo tra le nazioni, secondo l’Apocalisse). È inoltre servito a rendere ancora una volta meno urgenti le decisioni sulle cause strutturali della debolezza del dollaro: un ragionamento pacato e distaccato sul futuro del “biglietto verde” rimane quindi ancora possibile.
Tale ragionamento parte dall’assunto che le decisioni economico-finanziarie e in particolare quelle degli operatori finanziari siano influenzate da fattori di tipo non economico e, più specificamente, di tipo politico-militare. Questa possibilità è generalmente trascurata, e solo raramente inserita negli schemi strutturali delle analisi dei mercati finanziari, anche per la difficoltà di stabilire correlazioni precise tra cause non economiche ed effetti economici.

Parzialmente legata a fattori extraeconomici risulta l’influenza – questa sì, ben misurabile – della dimensione petrolifera. Il petrolio gioca un ruolo del tutto particolare nell’economia americana, assai diverso da quello che riveste nelle economie di altri Paesi avanzati; l’assenza pressoché totale di imposizione fiscale indiretta sul prezzo dei carburanti ne determina un prezzo estremamente basso – poco più di un quarto di quello europeo – che si traduce in un suo uso “smodato”, per cui il prodotto lordo americano ha un’elevatissima “intensità energetica”.
La mancanza di un “cuscinetto” di imposte indirette sull’acquisto di carburanti e combustibili preclude agli Usa la possibilità, aperta invece agli altri Paesi avanzati, di contrastare, e, al limite, di neutralizzare con riduzioni fiscali gli aumenti nel prezzo del greggio. Per conseguenza, tali aumenti si traducono, nel giro di poche settimane, in aumenti del prezzo della benzina alle pompe dei distributori, dell’elettricità e dei trasporti aerei, e da questi punti di attacco gli stimoli inflazionistici possono diffondersi all’intero sistema produttivo con rapidità molto superiore a quanto succede altrove. Questo spiega, tra l’altro, perché la Borsa americana sia estremamente sensibile alle variazioni del prezzo del greggio.
Si può così costruire uno “scenario di crisi”, teso a individuare la catena di eventi che può scatenare un collasso della moneta americana.
Una congiuntura politica che contribuisca a provocare un rialzo immediato e sensibile del prezzo del petrolio (tale sviluppo è purtroppo realistico nell’intricata situazione mediorientale) costituisce quindi un fattore esogeno di estrema importanza nel determinare l’andamento dell’economia americana nel breve periodo. Non si tratta, naturalmente, di un mero caso di scuola. La somma di fattori politici e di fattori petroliferi sfavorevoli ha già prodotto, nella seconda metà del 2004, importanti effetti: in poco più di sei mesi il dollaro ha perso il 6-7 per cento del proprio valore rispetto alla media delle altre valute, a febbraio 2005 l’indice dei prezzi al consumo segnava un aumento tendenziale del 3 per cento contro l’1,9 del dicembre 2003, e la Federal Reserve aveva portato al 2,75 per cento il tasso sui federal funds dall’1 per cento del gennaio 2003.
L’azione della Fed, ritmata da una cadenza abbastanza regolare e preannunciata di piccoli aumenti, di solito dello 0,25 per cento, è basata sulla speranza che questo rialzo dei tassi sia sufficientemente lieve e graduale da non provocare bruschi contraccolpi né sul mercato finanziario, caratterizzato da un elevato indebitamento delle imprese, né sulle finanze familiari, anch’esse contrassegnate da un imponente carico di debiti. Una simile stretta creditizia, accuratamente diluita nel tempo, dovrebbe solo rallentare e non soffocare la crescita. Si eviterebbe così una contrazione di consumi e investimenti e si ridurrebbe il rischio di un collasso per il quale i termini di Hiroshima e di Armageddon potrebbero non essere esagerati.
Avendo delineato, con lo “scenario di crisi”, una sorta di mappa delle vulnerabilità americane, è possibile ricavarne al contrario le condizioni alle quali la crisi può essere evitata e costruire lo “scenario di non crisi”. Appare chiara, da quanto detto, l’importanza cruciale dell’evoluzione politica mediorientale: se gli americani potessero ridurre la propria presenza in Iraq e le spese relative, se la pace tra arabi e Israele potesse effettivamente diventare una prospettiva credibile, vi sarebbero effetti benefici immediati sul deficit pubblico americano e sul prezzo del petrolio.
Lo scenario precedentemente illustrato potrebbe allora essere percorso a ritroso: il dollaro riprenderebbe fiato, la situazione finanziaria delle famiglie e delle imprese americane troverebbe sollievo, si realizzerebbero probabilmente una discreta ripresa di consumi e investimenti, un aumento di importazioni dal resto del mondo e dei saldi attivi che il resto del mondo mantiene impiegati nel sistema finanziario americano. Il crollo della Torre di Pisa sarebbe rinviato, senza peraltro che le cause strutturali che determinano l’accentuarsi della sua pendenza fossero eliminate.
Sarebbe errato ritenere che di fronte a queste prospettive il mondo politico ed economico americano sia incosciente o indifferente. Sembra piuttosto che, dopo un esame strutturale in tempi lunghi, l’Amministrazione abbia deciso che il rischio dell’Armageddon, pur presente, debba essere corso perché le alternative vengono considerate incompatibili con i princìpi di fondo della società e della politica americane. L’esame dell’ampia letteratura neocon e di molte dichiarazioni ufficiali non lascia dubbi sul fatto che l’Amministrazione consideri il panorama mondiale estremamente minaccioso e la sua evoluzione spontanea estremamente sfavorevole.
A questa conclusione si perviene in primo luogo mediante l’analisi dell’evoluzione demografica e delle migrazioni, destinate a ridurre a livello mondiale il peso degli Stati Uniti e, all’interno, quello della componente anglosassone della loro popolazione, e in secondo luogo guardando alla rapidissima ascesa economica di altre potenze, a cominciare dalla Cina. Se ne trae la conclusione di dover utilizzare al massimo la “finestra di opportunità” rappresentata dall’attuale, indiscusso predominio americano in campo tecnologico ed economico per regolare anche in futuro i rapporti fondamentali tra Paesi; di dover affrontare una tenzone internazionale di lungo periodo dagli esiti incerti, al di là di retoriche affermazioni in senso contrario, con oppositori che vengono altrettanto retoricamente definiti come “il Male”, “il Terrorismo” e simili. La decisione stessa di un duro impegno militare in Iraq e la prospettiva di altre possibili avventure militari implicano che, in questa visione del mondo, la stabilità economica immediata passi in seconda linea e prevalga la valutazione che il rischio di un’Armageddon economica sia in ogni caso contenuto e preferibile a quello di una più distante Armageddon, magari di tipo nucleare.
All’interno non manca la consapevolezza che l’introduzione massiccia di innovazioni tecnologiche nei modi di produzione si traduce in mutamenti nella distribuzione e nella qualità dei redditi. Non si può ignorare che, per mantenere invariato il proprio potere d’acquisto, buona parte delle famiglie americane è oggi costretta a lavorare di più di dieci-venti anni fa. Va inoltre considerato che, mentre in passato i salari riprendevano immediatamente a salire al termine di una fase recessiva, dopo l’ultima flessione produttiva del 2001 sono addirittura scesi, sia pur leggermente, per i primi quindici mesi di ripresa e hanno recuperato i livelli di fine recessione solo dopo quasi due anni; 32 mesi dopo la fine della recessione, il livello medio dei salari reali risultava aumentato di un po’ meno del 3 per cento, contro più del 10 per cento delle riprese precedenti.
La variazione nei modi di produzione ha spesso reso i redditi unitari da lavoro non solo più esigui in termini reali, ma anche meno sicuri, e ha contemporaneamente reso necessario un investimento di risorse molto superiore al passato nell’aumento e nel mantenimento del capitale umano; gli strumenti finanziari che hanno consentito finora di ridurre l’incertezza di lungo periodo, come i sistemi pensionistici pubblici e privati con un beneficio definito, appaiono difficilmente sostenibili di qui a due o tre decenni, pur risultando l’allarme lanciato dal Presidente americano nel discorso sullo stato dell’Unione del 30 gennaio 2005 sicuramente prematuro ed eccessivo.
Da queste analisi, il governo americano sembra trarre conclusioni opposte a quelle prevalenti in Europa, le quali derivano da una diversa valutazione dello scenario mondiale. Di fronte alla grande competizione di lungo periodo – in cui gli Stati Uniti si sentono impegnati per ribadire il proprio predominio e stabilire regole che ne garantiscano il futuro remoto – si sceglie una franca e accelerata accettazione dell’arretramento del lavoro; le politiche economiche e industriali devono facilitare la transizione verso un altro tipo di sistema produttivo e distributivo, invece di rallentarla o di difendere a oltranza quello esistente. Si spiega così, tra l’altro, oltre al citato tentativo di sostituzione dei sistemi assistenziali con altri più chiaramente variabili e meno favorevoli per il lavoratore medio, la politica, dichiarata da Bush dopo la sua rielezione, di ridurre l’ormai inaccettabile squilibrio dei conti pubblici mediante la compressione della spesa sociale, mentre saranno ancora accresciute le spese per la difesa e la sicurezza.
Ci si può allora domandare come mai una contrazione dei consumi non sia avvenuta ma, anzi, questi mostrino una certa tendenza a espandersi vivacemente, tanto da contribuire in maniera considerevole all’elevato tasso di crescita messo a segno dagli Stati Uniti nel 2004.
Una parte della risposta sta nell’aumento del numero dei consumatori, derivante da un tasso di crescita della popolazione degli Stati Uniti ufficialmente pari all’1,3 per cento, al quale bisogna aggiungere una cifra stimabile attorno allo 0,3-0,5 per cento di immigrazione clandestina, che però contribuisce sia a far salire i consumi sia a tener bassi i salari. Un’altra parte, più interessante per l’analisi delle politiche economiche, sta nelle abitudini di risparmio degli americani. I dati mostrano chiaramente la marcata tendenza alla riduzione del risparmio delle famiglie come percentuale del reddito disponibile. Essa è nettamente maggiore dell’equivalente tendenza europea e ha portato nel 2004 il risparmio effettivo delle famiglie americane in prossimità dello zero.
Le famiglie sono incoraggiate a proseguire in questo atteggiamento non tanto, o non solo, da fattori culturali che si traducono in un’elevata propensione al consumo, ma dalla crescita dei loro patrimoni anche in assenza di risparmi. Si realizza così il cosiddetto “effetto ricchezza”, in base al quale una parte dell’aumento dei consumi viene ad essere determinata non già da un aumento, temporaneo o permanente, dei redditi, bensì da un aumento dei valori patrimoniali.
Questa crescita era assicurata, fino al 2000, dall’andamento dei listini borsistici, in un Paese in cui la grande maggioranza dei cittadini è, direttamente o per tramite dei fondi pensione, proprietaria di azioni. Si poteva quindi immaginare che le cadute di Borsa del 2000-2001 e l’incerto andamento successivo avrebbero frenato la volontà di consumo, innescando una tendenza depressiva. Ciò non si è verificato perché la politica di forte riduzione del costo del denaro ha, da un lato, fatto salire il valore dei titoli a reddito fisso e, dall’altro, ridotto il costo dei mutui edilizi, scatenando una fortissima domanda di acquisto di abitazioni. L’aumento della domanda si è in parte ripercosso sulla produzione edilizia che ha raggiunto livelli da primato, prodotto un più ampio effetto di stimolo sull’economia e, in parte, provocato uno spettacolare aumento dei prezzi delle abitazioni. Negli Stati Uniti la maggioranza delle famiglie è, a un tempo, proprietaria dell’abitazione in cui vive e soggetta al pagamento delle rate di un mutuo (sovente a tasso variabile). L’“effetto ricchezza” legato alle abitazioni ha sostituito l’“effetto ricchezza” legato alle azioni. La strategia economica americana sembra orientata a proseguire su questa strada, compensando andamenti non favorevoli del reddito con andamenti favorevoli delle componenti patrimoniali.
Gli Usa sembrano così comportarsi come un automobilista con il serbatoio vuoto, pronto a riempirlo con ciò che trova, nella speranza che il suo veicolo continui a funzionare. A chi lo rimprovera per la sventatezza di un simile comportamento, l’automobilista ribatte che è inseguito da un nemico e che solo così può riuscire a mettersi in salvo. Quanto il nemico esista effettivamente e quanto grave sia il pericolo di un arresto improvviso è motivo di forte differenza di opinioni tra la gran parte del mondo economico e politico americano e quasi tutto il resto del pianeta.

 

   
   
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