Il federalismo
fiscale, se mal
disegnato e mal gestito, può
causare seri danni alla competitività del sistema Italia,
peggiorando
la già scarsa
attrattività del Paese.
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È possibile evitare in qualche modo le polemiche che emergono
ogni volta che si presenta una legge finanziaria? Chi conosce un
po la finanza pubblica italiana multi-livello risponde che
è possibile, anche se a quel regime lItalia tende da
sempre, ma con scarse e incerte realizzazioni. Anche in uno Stato
unitario, comera lItalia fino alla modifica costituzionale
del 2001, un ordinamento amministrativo e fiscale a più livelli
si giustifica quanto più differenziate sono le comunità
che vivono in un determinato Paese e diversificate le preferenze
per i beni e i servizi pubblici; pure in assenza di una forte dispersione
nella domanda, la minore distanza del cittadino utente dagli enti
territoriali sub-statali ne aumenta linteresse e la partecipazione
alla vita pubblica.
Per avere successo, il federalismo fiscale richiede fondamentalmente
tre condizioni: che lordinamento sia coerentemente delineato
e sufficientemente stabile; che il grado di dipendenza amministrativa
e finanziaria dellente territoriale sub-statale da quello
sovraordinato non sia troppo alto; che vi siano princìpi
e possibilmente anche istanze (per esempio, una conferenza
unificata) che permettano la conciliazione degli obiettivi
e il coordinamento delle azioni.
1. Il processo di riforma istituzionale, varato agli inizi del 2001,
prevede un ampliamento delle funzioni per gli enti sub-statali e
una compiuta autonomia finanziaria, ma lattuazione di queste
norme non ha di fatto avuto luogo, né sono stati emanati
i decreti delegati previsti. La disciplina della finanza locale,
perciò, continua ad essere, secondo la Corte dei Conti, «frammentaria
e talvolta contraddittoria, perché affidata essenzialmente
alle leggi finanziarie [...] che hanno accentuato le restrizioni
e ridotto i margini di manovra degli enti locali e la loro stessa
autonomia».
Alla mancata attuazione di una riforma, tuttaltro che felice
nella sua formulazione, né semplice nei suoi meccanismi,
si aggiunge il senso di precarietà delle norme introdotte
nel 2001, poiché una nuova riforma costituzionale è
in fieri con più forti dosi di devoluzione a favore delle
autonomie locali.
2. La tradizione centralistica dello Stato italiano e le vicende
della pubblica finanza, costretta negli anni Novanta a ritrovare
faticosamente la strada della virtù, hanno fatto sì
che gran parte della finanza degli enti territoriali sia derivata,
cioè dipendente da trasferimenti dello Stato. Questa situazione
è destinata a mutare, ma non sarà affatto semplice
lo schema cui si tende né lineare il percorso della transizione.
Se è vero che il legame tra competenze e risorse andrà
finalmente affrontato in modo auspicabilmente rigoroso, non tutte
le risorse saranno pienamente fungibili, utilizzabili cioè
per qualsiasi funzione, sia essa concorrente o esclusiva; alcuni
trasferimenti potranno avere una destinazione predeterminata, quelli
derivanti dal fondo perequativo, per disposizione costituzionale,
non potranno essere vincolati.

Inoltre, sebbene i comuni abbiano visto crescere enormemente il
proprio ruolo sulla nuova scena costituzionale, il criterio di sussidiarietà
non è lunico a guidare lallocazione delle competenze.
Dovendo tale criterio essere integrato da quelli di differenziazione
e adeguatezza, le funzioni amministrative attribuite ai comuni possono
essere conferite ad un ente di livello superiore, al fine di assicurarne
lesercizio unitario. Va da sé che, in questi casi,
le risorse seguiranno le competenze. Infine, il passaggio dallattuale
sistema di finanza fortemente derivata ad uno caratterizzato
da federalismo fiscale potrà avvenire solo progressivamente;
sebbene di una fase transitoria non vi sia menzione nella legge
n. 3 del 2001, questa è stata prevista nellaccordo
tra Stato, regioni ed enti locali del giugno 2003 e dalla stessa
Corte Costituzionale nella sentenza n. 37 del 2004.
3. Se ad una pubblica finanza decentrata e ancorata alle disposizioni
del decreto legislativo n. 56 del 2000 viene sostituito un federalismo
fiscale abbastanza avanzato, vè il rischio che ad un
sistema unico subentri una molteplicità di sottosistemi con
riferimento non solo alle spese e alle loro fonti di copertura,
ma anche ai tributi; almeno le regioni, titolari di potestà
legislativa, sembrano avere una residua capacità di tassare
aree non coperte dalle imposte previste dallo Stato. Un forte ed
efficace coordinamento simpone e può essere realizzato
soltanto sulla base di princìpi condivisi dalle diverse categorie
di enti territoriali, anche se codificati da una legge statale.
È merito dellAlta Commissione di Studio per la definizione
dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale (ACoFF) avere
individuato diciannove princìpi. Se ne citano alcuni: predeterminazione
delle competenze; correlazione tra prelievo fiscale e beneficio
derivante dalle funzioni esercitate; responsabilità, trasparenza
ed efficienza nelle decisioni di entrata e di spesa [Lelenco
completo dei princìpi è riportata nella pag. a lato.
N.d.R.]. Ovviamente, le proposte operative dellAlta Commissione
tendono a instaurare un compiuto federalismo fiscale, garantito
dallo Stato per i livelli essenziali di prestazione sullintero
territorio nazionale.
Quali conclusioni trarre? Che il federalismo fiscale non si attua
da solo e richiede studio, tempo e cure; che se mal disegnato e
mal gestito può causare seri danni alla competitività
del sistema Italia e peggiorare la già scarsa attrattività
del nostro Paese per gli investimenti esteri diretti; che nellattesa
di una minore dipendenza della finanza comunale da quella statale
venga recuperato il bon ton nelle relazioni tra i vertici politici
delle amministrazioni, tutte chiamate a stringere la cinghia.
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