Dicembre 2005

Le riforme incompiute

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Il federalismo fiscale
Mario Sarcinelli  
 
 

Il federalismo
fiscale, se mal
disegnato e mal gestito, può
causare seri danni alla competitività del sistema Italia, peggiorando
la già scarsa
attrattività del Paese.

 

È possibile evitare in qualche modo le polemiche che emergono ogni volta che si presenta una legge finanziaria? Chi conosce un po’ la finanza pubblica italiana multi-livello risponde che è possibile, anche se a quel regime l’Italia tende da sempre, ma con scarse e incerte realizzazioni. Anche in uno Stato unitario, com’era l’Italia fino alla modifica costituzionale del 2001, un ordinamento amministrativo e fiscale a più livelli si giustifica quanto più differenziate sono le comunità che vivono in un determinato Paese e diversificate le preferenze per i beni e i servizi pubblici; pure in assenza di una forte dispersione nella domanda, la minore distanza del cittadino utente dagli enti territoriali sub-statali ne aumenta l’interesse e la partecipazione alla vita pubblica.
Per avere successo, il federalismo fiscale richiede fondamentalmente tre condizioni: che l’ordinamento sia coerentemente delineato e sufficientemente stabile; che il grado di dipendenza amministrativa e finanziaria dell’ente territoriale sub-statale da quello sovraordinato non sia troppo alto; che vi siano princìpi e possibilmente anche istanze (per esempio, una “conferenza unificata”) che permettano la conciliazione degli obiettivi e il coordinamento delle azioni.
1. Il processo di riforma istituzionale, varato agli inizi del 2001, prevede un ampliamento delle funzioni per gli enti sub-statali e una compiuta autonomia finanziaria, ma l’attuazione di queste norme non ha di fatto avuto luogo, né sono stati emanati i decreti delegati previsti. La disciplina della finanza locale, perciò, continua ad essere, secondo la Corte dei Conti, «frammentaria e talvolta contraddittoria, perché affidata essenzialmente alle leggi finanziarie [...] che hanno accentuato le restrizioni e ridotto i margini di manovra degli enti locali e la loro stessa autonomia».
Alla mancata attuazione di una riforma, tutt’altro che felice nella sua formulazione, né semplice nei suoi meccanismi, si aggiunge il senso di precarietà delle norme introdotte nel 2001, poiché una nuova riforma costituzionale è in fieri con più forti dosi di devoluzione a favore delle autonomie locali.
2. La tradizione centralistica dello Stato italiano e le vicende della pubblica finanza, costretta negli anni Novanta a ritrovare faticosamente la strada della virtù, hanno fatto sì che gran parte della finanza degli enti territoriali sia “derivata”, cioè dipendente da trasferimenti dello Stato. Questa situazione è destinata a mutare, ma non sarà affatto semplice lo schema cui si tende né lineare il percorso della transizione. Se è vero che il legame tra competenze e risorse andrà finalmente affrontato in modo auspicabilmente rigoroso, non tutte le risorse saranno pienamente fungibili, utilizzabili cioè per qualsiasi funzione, sia essa concorrente o esclusiva; alcuni trasferimenti potranno avere una destinazione predeterminata, quelli derivanti dal fondo perequativo, per disposizione costituzionale, non potranno essere vincolati.

Inoltre, sebbene i comuni abbiano visto crescere enormemente il proprio ruolo sulla nuova scena costituzionale, il criterio di sussidiarietà non è l’unico a guidare l’allocazione delle competenze. Dovendo tale criterio essere integrato da quelli di differenziazione e adeguatezza, le funzioni amministrative attribuite ai comuni possono essere conferite ad un ente di livello superiore, al fine di assicurarne l’esercizio unitario. Va da sé che, in questi casi, le risorse seguiranno le competenze. Infine, il passaggio dall’attuale sistema di finanza fortemente “derivata” ad uno caratterizzato da federalismo fiscale potrà avvenire solo progressivamente; sebbene di una fase transitoria non vi sia menzione nella legge n. 3 del 2001, questa è stata prevista nell’accordo tra Stato, regioni ed enti locali del giugno 2003 e dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 37 del 2004.
3. Se ad una pubblica finanza decentrata e ancorata alle disposizioni del decreto legislativo n. 56 del 2000 viene sostituito un federalismo fiscale abbastanza avanzato, v’è il rischio che ad un sistema unico subentri una molteplicità di sottosistemi con riferimento non solo alle spese e alle loro fonti di copertura, ma anche ai tributi; almeno le regioni, titolari di potestà legislativa, sembrano avere una residua capacità di tassare aree non coperte dalle imposte previste dallo Stato. Un forte ed efficace coordinamento s’impone e può essere realizzato soltanto sulla base di princìpi condivisi dalle diverse categorie di enti territoriali, anche se codificati da una legge statale.
È merito dell’Alta Commissione di Studio per la definizione dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale (ACoFF) avere individuato diciannove princìpi. Se ne citano alcuni: predeterminazione delle competenze; correlazione tra prelievo fiscale e beneficio derivante dalle funzioni esercitate; responsabilità, trasparenza ed efficienza nelle decisioni di entrata e di spesa [L’elenco completo dei princìpi è riportata nella pag. a lato. N.d.R.]. Ovviamente, le proposte operative dell’Alta Commissione tendono a instaurare un compiuto federalismo fiscale, garantito dallo Stato per i livelli essenziali di prestazione sull’intero territorio nazionale.
Quali conclusioni trarre? Che il federalismo fiscale non si attua da solo e richiede studio, tempo e cure; che se mal disegnato e mal gestito può causare seri danni alla competitività del sistema Italia e peggiorare la già scarsa attrattività del nostro Paese per gli investimenti esteri diretti; che nell’attesa di una minore dipendenza della finanza comunale da quella statale venga recuperato il bon ton nelle relazioni tra i vertici politici delle amministrazioni, tutte chiamate a stringere la cinghia.

 

   
   
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