Dicembre 2005

L’Europa, oggi

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Il sogno spezzato
AA.VV.  
 
 

 

 

 

Una rilevazione fornì risultati
sorprendenti sugli oneri gestionali sopportati dalle banche per la clientela,
a seconda che
si tratti del tipo tradizionale allo sportello o di quella acquisita via web.

 

Si può dire che il movimento europeo moderno sia cominciato all’epoca della Prima guerra mondiale. Uno dei suoi più fervidi sostenitori fu Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat. Il suo movente principale era politico: riteneva che nulla, se non una Federazione europea, potesse evitare al Continente di cadere in una nuova guerra. Considerava infatti la Società delle Nazioni penosamente inadeguata allo scopo.
A questo egli aggiungeva un energico appello per un mercato unico europeo, cicli di produzione più lunghi, ritenendo giustamente assurdo che tutti i Paesi indipendenti riconosciuti dal Trattato di Versailles cercassero di coprire singolarmente l’intera gamma dei prodotti industriali.
Il movimento europeista ebbe poi effettivamente inizio con la Seconda guerra mondiale, ancora una volta come espressione della volontà di evitare futuri conflitti. Tante furono le voci che si levarono a sostegno di questo progetto che è impossibile ricordarle tutte, ma non si può omettere di citare Altiero Spinelli, che da comunista divenne sostenitore di una federazione europea quale indispensabile garanzia di pace per il Continente. Come commissario a Bruxelles e in altre funzioni, Spinelli dovette scendere a compromessi pratici; ma insistette sempre che soltanto una piena federazione avrebbe potuto raggiungere lo scopo.
Fu a questo punto che cominciarono i malintesi con la Gran Bretagna. Nel 1940 Winston Churchill aveva offerto alla Francia una cittadinanza comune, nel vano tentativo di indurre il Paese a continuare a combattere contro la Germania nazista. Fu però un gesto del tutto eccezionale. Churchill e altri conservatori di spicco, allora all’opposizione, invocavano la formazione degli Stati Uniti d’Europa, ma non chiarivano se la Gran Bretagna avrebbe dovuto farne parte o meno; tornati al potere alla fine del 1951, fu evidente che era loro intenzione sostenere il movimento dall’esterno.

Gli inglesi cominciarono a mostrare serio interesse per la Comunità europea solo verso la fine degli anni Cinquanta-inizio anni Sessanta, quando fu chiaro che stava emergendo un Mercato Comune Europeo che poteva alzare barriere all’esportazione dei prodotti inglesi. Dopo l’insuccesso di un prematuro tentativo di dar vita ad una più ampia area europea di libero scambio, di cui il Mec avrebbe fatto parte, nel 1961 il governo inglese chiese di entrare nella Comunità, richiesta che fu respinta dal generale De Gaulle con la celebre osservazione che la Gran Bretagna era un’isola.
Da subito l’impresa fu presentata all’opinione pubblica britannica per quello che non era. L’allora primo ministro Harold Macmillan sapeva bene che la Comunità rappresentava un’iniziativa politica; la spinta decisiva ad aderire giunse quando l’amministrazione Kennedy negli Stati Uniti chiarì che la Gran Bretagna avrebbe avuto più influenza sulla politica americana se fosse stata parte di un raggruppamento continentale. Tuttavia, nonostante alcune dichiarazioni scritte molto in piccolo, tutta l’impresa continuò ad essere venduta agli inglesi come una gloriosa area di libero scambio con l’aggiunta di qualche dettaglio istituzionale.
Stavano ancora così le cose, quando infine, con Edward Heath, la Gran Bretagna aderì alla Comunità nel 1973. Da allora molti nuovi elementi sembrano aver colto di sorpresa i governi inglesi: l’espansione della Politica Agricola Comune, lo sviluppo del meccanismo di regolazione dei cambi e poi dell’euro, la Carta Sociale dell’Ue, e adesso la Costituzione.
Tutto questo ha suscitato forti perplessità in molti, e fra costoro ci sono i liberisti. Alcuni sono ancora entusiasti dell’Ue ed evidenziano aspetti come il Mercato Unico che vogliono rafforzare e sviluppare; altri si preoccupano invece delle tendenze centralistiche e dirigistiche. Tale varietà di orientamenti è presente in parecchi Paesi europei, ma è legittimo affermare che i liberisti britannici nutrono una maggiore diffidenza nei confronti dell’Ue rispetto a quelli dell’Europa continentale.
Nell’affrontare questo tema, si deve evitare di restare impigliati nelle definizioni. Possiamo discutere all’infinito, ad esempio, su che cosa si debba intendere per “liberista”. Considererò tale chi crede in un ruolo centrale dei mercati e del meccanismo dei prezzi nelle decisioni economiche, non solo per ragioni di efficienza ma anche perché offrono più spazio per la scelta e dunque per la libertà personale.
Questo approccio generale è compatibile con un’ampia gamma di posizioni differenti, ad esempio rispetto allo Stato sociale e alla redistribuzione nei confronti dei meno abbienti. Assumerò pure che il liberalismo economico sia parte di un liberalismo più ampio, che comprende le tradizionali libertà personali e le istituzioni che si sono sviluppate per tutelarle. La democrazia è importante soprattutto come mezzo rispetto a uno scopo, ed è necessario che sia soggetta a restrizioni costituzionali. Non dovrebbe essere semplicemente la dittatura di una maggioranza temporanea, assoluta o relativa che sia.
Non dovremmo comunque enfatizzare le differenze. Si può supporre che su entrambe le rive della Manica i liberisti condividano il sostegno al Mercato Unico Europeo, anche se possono pensarla diversamente circa il fatto che la moneta unica ne costituisca una parte essenziale. Essi respingono gli elementi protezionistici, come la Politica Agricola Comune e la tolleranza nei confronti dei sussidi alle industrie. Così pure disapprovano le ingerenze che comportano aumenti di costi sul mercato del lavoro, sia sotto l’etichetta della Carta sociale sia attraverso direttive in materia di sanità e di sicurezza; essi vogliono poi che l’Ue assuma un ruolo guida nella liberalizzazione del commercio mondiale in negoziati come quello di Doha, invece di fare resistenza su questioni centrali. Vi è inoltre, tra i liberisti inglesi, un’ampia gamma di posizioni rispetto alla probabilità che l’Ue faciliti e ostacoli il raggiungimento di tali obiettivi. Mentre solo una minoranza desidererebbe abbandonare l’Ue, ora come ora non sono certamente i liberisti i più entusiasti del progetto.
Qui, non posso che dare qualche indicazione sommaria sugli atteggiamenti dei singoli Paesi.
La Francia, come sempre, è la più difficile da classificare. I liberisti sono rari e hanno posizioni diverse rispetto all’Ue, proprio come i loro corrispondenti inglesi. La politica di Parigi continua a fondarsi sulla speranza di riaffermare il potere della Francia, assumendo la leadership politica in Europa. Vi è anche il desiderio di mantenere l’eccezione francese, che si è opposta fermamente alla rinnovata ondata di libero mercato degli ultimi vent’anni.

La speranza iniziale dei liberisti tedeschi è stata quella che l’Ue riproducesse su scala più ampia l’economia di mercato avviata nel loro Paese da Erhard, dopo la seconda Guerra mondiale. Molti da allora hanno progressivamente perso ogni illusione. I datori di lavoro tedeschi spesso si lamentano di particolari politiche dell’Ue – dall’euro agli interventi nel mercato del lavoro (che naturalmente hanno le loro controparti interne). Tuttavia, condividono sufficientemente la fiducia del loro governo nell’alleanza franco-tedesca da evitare di assumere un tono troppo euroscettico. Alcuni all’inizio speravano, con l’ex Cancelliere Kohl, di conseguire un’unione politica in cambio della rinuncia al marco; in realtà, hanno dovuto farsi bastare l’euro, più un trattato costituzionale.
L’Italia rappresenta il caso economico più forte a favore delle politiche dell’Ue, euro compreso. L’economia di libero mercato deve essere accompagnata da una qualche sorta di disciplina monetaria e fiscale affinché le forze di mercato diano i segnali giusti. Per molto tempo i politici italiani hanno disperato di riuscire a realizzare un simile contesto all’interno del Paese. Mentre in Gran Bretagna per indebolire un argomento di natura economica era sufficiente dire che era necessario per ragioni europee, in Italia era esattamente l’opposto, e si sono raggiunti risultati davvero positivi. Ad esempio, i tassi dei bond italiani, che vent’anni fa erano il doppio di quelli tedeschi, oggi sono scesi allo stesso livello, talora anche molto al di sotto. Funzionari del ministero dell’Economia italiano mi hanno assicurato che non sarebbero stati in grado di garantire neppure un limitato grado di correttezza fiscale se non avessero potuto sostenere che ciò era necessario per venire incontro ai criteri di Maastricht ed essere ammessi al Mercato Unico Europeo.
La Spagna, come l’Italia, ha beneficiato di una più ampia fiducia internazionale nelle sue finanze e, come l’Irlanda, ha tratto vantaggio dai fondi strutturali a sostegno delle regioni dell’Ue ritenute più deboli. Ma il ruolo attribuito a tali fondi, a mio avviso, è largamente esagerato. Entrambi i Paesi devono molto di più alle politiche di apertura adottate nei confronti del movimento di merci e di capitali. Occorre poi dire che quando l’ultima Commissione ha criticato il supposto scarso rigore di un recente bilancio dello Stato, gli irlandesi si sono un po’ raffreddati nei confronti delle istituzioni federali.
Più semplice è il discorso per i Paesi dell’Europa centrale e orientale recentemente entrati a far parte dell’Unione. Molti di essi condividono lo scetticismo inglese nei confronti di una regolazione centralizzata. Un negoziatore dei Paesi baltici mi ha confessato che trattare con Bruxelles gli ricordava le negoziazioni con il Cremlino all’epoca della vecchia Unione Sovietica. Nondimeno, questi Paesi hanno voluto aderire all’Ue per dare un segno della loro definitiva emancipazione dal blocco sovietico e come prova di rispettabilità, che, come nel caso dei Paesi mediterranei, ha facilitato loro l’accesso al credito sul mercato finanziario internazionale.
I Paesi scandinavi sono comprensibilmente i più vicini agli inglesi nei loro orientamenti. Essi apprezzano la dimensione del libero scambio, ma si oppongono all’eccessiva regolazione e centralizzazione. Tuttavia, hanno risolto il dilemma in modi molto diversi: a un estremo vi è la Finlandia, membro convinto, che ha giocato un ruolo fondamentale nell’introduzione dell’euro; all’altro estremo la Norvegia, che fin dall’inizio è stata a guardare; nel mezzo, Svezia e Danimarca, che sono membri piuttosto tiepidi dell’Ue: possono accettare o meno la Costituzione, ma sono ancora fuori dall’area euro.


Samuel Brittan
Editorialista del “Financial Times”


La storia degli ordinamenti europei è stata contrassegnata da diversi, opposti e variegati richiami a Roma come “figura” dell’organizzazione sociale per eccellenza. Anzi, la stessa “tradizione” europea può essere definita come quella tradizione in cui l’appello a Roma (e alla Grecia) rimane l’appello fondamentale che determina l’orizzonte stesso in cui tale tradizione viene edificata e mantenuta in quanto tale.
In primo luogo, ovviamente, occorre considerare il richiamo carolingio. Carlo Magno, francese per i francesi, tedesco per i tedeschi, era però per se stesso e i propri contemporanei imperatore dei romani. Si può anzi dire che un tale richiamo a Roma, con l’incoronazione nel Natale dell’800, abbia fondato una nuova e diversa spazialità del mondo. Fino al IX secolo, infatti, i re occidentali tenevano il proprio regno in nome dell’unico imperatore dell’Oriente. Onde il senso stesso della ripartizione mondiale in un Oriente e in un Occidente acquisisce con tale richiamo un significato nuovo, poiché riedifica una “imperialità europea” che non esisteva più almeno dal V secolo. Una determinata immagine di Roma ne è la nuova figura, non solo come spazialità e sacralità politica, ma anche come fondamento culturale, non appena si pensi all’opera di Alcuino e del monachesimo irlandese nella fondazione della Scuola Palatina sul lascito dell’eredità romana. La più profonda delle discontinuità storiche viene così negata e colmata da un’affermazione di continuità che ha in Roma il proprio centro di costruzione del discorso fondativo.
Un secondo, e opposto, richiamo a Roma si verifica ben successivamente con la nascita delle Università. Il XII secolo rappresenta una nuova discontinuità nella riorganizzazione del sapere fondativo dei rapporti giuridico-politici che trova ancora una volta il proprio collante nel richiamo a Roma, e specificamente nella mimesi del diritto romano imperiale giustinianeo, ma come opposizione allo stato precedente sia della cultura sia dei rapporti di potere. Abbiamo qui un secondo richiamo a Roma, che fonda un’organizzazione del diritto e della cultura che si definisce, però, in opposizione alla prima.
Un terzo richiamo a Roma, essenziale e costitutivo dei successivi sviluppi storici europei, è ovviamente quello del Rinascimento, che ancora una volta sorge come radicale opposizione proprio a quella cultura scolastica che era stata sviluppata dalle università come elaborazione del lascito culturale e politico dell’antichità greca e romana. L’imperativo rinascimentale è quello di un “ritorno a Roma”, nel segno di un ritorno alle fonti, contro la traditio medioevale quale sviluppo di quelle medesime fonti. Nasce qui l’idea stessa di una distanza dalle fonti e di una possibilità di ritorno alle fonti originarie, mediante una loro ripresa di contro alla tradizione interpretativa che su di esse si era sviluppata. Si contrappone così la fonte alla sua interpretazione, e si afferma il valore prioritario della fonte originaria, dell’Anfang, rispetto alla tradizione di cui si invoca il rinnovamento. È assai probabile che tale riorganizzazione della cultura avesse anche qui un profondo senso teologico-politico, come primo grande tentativo di decristianizzare l’Europa: bisognava liberare le fonti greche e romane dei significati cristiani che erano stati loro imprestati, e ricominciare da dove i romani avevano lasciato l’opera. Ancora una volta, il richiamo a Roma è nel contempo centrale e oppositivo. Una diversa Roma si staglia per chiudere un percorso che era partito riallacciandosi a Roma.
Illuminante è, infine, il successivo richiamo a Roma dell’Illuminismo, nei suoi esiti sia francesi che tedeschi. L’intera estetica del discorso illuminista, nell’arte come nella politica, è infatti dominato dalla figuralità romana. Così è nella Rivoluzione, che fa tabula rasa proprio di quella organizzazione del potere e della cultura che pur derivava dal Rinascimento, quanto – con tutta evidenza – del Consolato e del primo Impero. È qui che l’idea stessa di un Codice civile dei francesi si staglia come un «ritorno rivoluzionario a Roma».

Ma tale estetica del discorso culturale e politico è anche quella che pervade la costruzione delle istituzioni rivoluzionarie americane, tanto nel campo del potere politico che della cultura. La stessa architettura di Washington D.C. è in modo lampante pensata sulla figuralità della nuova Roma, che deve sorgere nel novus ordo dei secoli inaugurato dalla nascita degli Stati Uniti come nuovo Occidente assoluto financo in opposizione all’organizzazione politica europea, ripensata, neri termini di Tucidide, come nuova “orientalità” dello spirito.
Decisivo è, allora, notare come in modo ancor diverso si determini il richiamo a Roma nell’ambito dello storicismo tedesco, quale si costruisce nelle guerre di liberazione nazionale e quale singolare intrapresa di dominio (Herrschaft) sulle fonti mediante la loro riattualizzazione ermeneutica, che comporta la costruzione spirituale di una Germania vera continuatrice della Grecia in filosofia, vero Israele come figura dell’esistenza storica eletta, ed erede di Roma nel diritto.
Una Roma francese contro l’Ancien Régime, per una nuova Europa; una Roma americana alternativa all’Europa stessa; e una Roma tedesca contro la Francia, e vera erede della spiritualità dell’Occidente. Abbiamo un’onnipresenza di Roma come fattore al contempo di rottura rivoluzionaria e di asserzione di continuità, di ripresa di una continuità interrotta e di oltrepassamento della tradizione precedente. Non esiste una sola Roma. Esistono molte Rome. Con una tradizione di lotta con altri richiami sia dal mondo tedesco che da quello americano: contro l’Ancien Régime, e contro la stessa Europa.

Pier Giuseppe Monateri
Università Torino e Bocconi


L’Europa somiglia sempre più a un network che a uno Stato. Questo non deve essere considerato un problema in termini assoluti. Ripensiamo all’insegnamento di Jean Monnet, uno dei padri costituenti del sogno europeo: l’uomo di Stato francese somigliava di più al Poiret di Agatha Christie che uno statista alla De Gaulle. Il profilo da lui scelto per la nascita della Ceca prima, e della Cee poi, fu quello della bassa cucina – nessuna dichiarazione e molta attività negoziale su particolari apparentemente insignificanti:

“L’Europa non si creerà tutta in una volta, oppure seguendo un piano generale. Verrà costruita attraverso singoli e concreti obiettivi, che creeranno in primo luogo un senso di interdipendenza tra i cittadini”.

L’idea di Monnet era quella di costruire il sistema europeo attraverso la creazione di ingranaggi tali da incanalare le decisioni su temi pratici ed evitare grandi dichiarazioni di principio. Ogni accordo di cooperazione ne presuppone uno antecedente e ne comporta e determina uno successivo. Una volta rimosse le tariffe doganali, si è passati alla rimozione delle barriere normative, per procedere alla creazione del Mercato Unico e quindi alla creazione della moneta unica.
Migliaia di incontri avvengono ogni giorno tra funzionari dei diversi governi nazionali, al punto che la loro frequentazione abituale determina, forzosamente, una spinta a pensare a un nuovo progetto da sviluppare. La grande intuizione di Monnet fu quella di creare una sorta di “Europa invisibile” che, senza abolire gli Stati nazionali, li ha trasformati in agenti di un sistema di interrelazioni tali da incanalare tutte le decisioni nazionali all’interno del progetto comunitario.
La maggior parte del progetto europeo è da collocare dietro le quinte della politica nazionale: l’Europa è un sistema politico invisibile, mentre è un imponente sistema giuridico ed economico grazie al suo minimo peso politico.
Invisibilità politica e network state: qualcuno ha assimilato la Costituzione europea all’esperienza fatta nel sistema del credito al consumo da VISA. Sebbene molti federalisti sognino ancora l’idea di uno Stato europeo, l’Europa, nonostante si sia dotata della simbologia dello Stato moderno – della bandiera, del passaporto, dell’inno – resta qualcosa di diverso da uno Stato nel senso attuale del termine. È una rete decentralizzata al servizio degli Stati membri, è un’organizzazione scheletrica che lascia il potere nelle mani degli Stati membri, che sono i responsabili dell’attuazione e del controllo sull’attuazione della maggior parte delle norme e attività dell’Unione.
Allo stesso tempo, gli Stati si privano continuamente di pezzi della propria sovranità, non solo attraverso le dichiarazioni solenni dei trattati, ma attraverso l’opera incessante delle clearing houses, che un po’ ovunque in Europa determinano la nascita di nuovi modelli giuridici, nuovi meccanismi e istituti.
Questa struttura rivoluzionaria, che rappresenta la grande novità istituzionale nel sistema politico e giuridico mondiale, è la grande forza dell’Europa. Ha permesso all’Unione di crescere, fino ad oggi, senza impensierire i governi nazionali, rendendoli allo stesso tempo agenti delle proprie decisioni, delle decisioni comuni.
Questo incessante gioco, questa continua evoluzione del set istituzionale hanno determinato, negli ultimi cinquant’anni, la creazione di una serie di organizzazioni comunitarie la cui interdipendenza con omologhe organizzazioni nazionali e regionali, private e pubbliche, costituisce ormai la colonna vertebrale di un sistema giuridico economico diverso da quello frutto di intese tra Stati e fortemente caratterizzato dalla presenza di un operatore politico invisibile.
Non necessariamente questo è un male. L’evidenza è data dai molti casi in cui il modello europeo è preferito a quello americano, che, al contrario, ha una forte caratterizzazione politico-nazionale. Cristallizzare tale fenomeno in una Carta costituzionale potrebbe farci correre il rischio di ripetere gli errori del passato, consegnando al solo legislatore comunitario e alle logiche politiche che lo ispirano la conduzione del processo di creazione del set istituzionale europeo.
Questo non farebbe che imbrigliare negli stretti vincoli politici un fenomeno istituzionale che, prima ancora che giuridico, è sociale, economico, antropologico, e che fino ad oggi ha dato buona prova di sé, beneficiando del gioco di interessi e di pressioni che i soggetti pubblici, privati, locali, nazionali e internazionali, esercitano sulle istituzioni comunitarie.
L’Europa non esiste, ma proprio per questo attrae sempre più risorse, cittadini, Stati. L’Europa non esiste, ma proprio per questo convince della bontà delle sue regole, e del suo modello di governo dell’economia e della società, un numero via via crescente di cittadini. L’Europa non esiste, e proprio per questo funziona!

Alberto M. Musy
Docente Università Piemonte Orientale

 

In tema di etica dei mercati presento tre considerazioni: la prima su mercato ed etica; la seconda su etica e concorrenza; la terza su Europa, mercato concorrenziale ed etica.
Per la prima, il quesito che in molti di noi si affacciava negli anni Settanta è quello del rapporto tra ciò che chiamerei il momento soggettivo e il momento oggettivo dell’etica economica. Il primo è quello dell’etica delle intenzioni; il secondo, dell’etica dei risultati. La domanda allora è: che cosa è eticamente superiore? Seguire un’intenzione eticamente positiva, quasi astraendo dalle sue conseguenze obiettive, oppure promuovere quegli atti da cui ci si aspetta conseguenze concrete eticamente positive? Come deve comportarsi l’imprenditore e come deve comportarsi l’autorità politico-economica per ritenersi l’uno e l’altra sensibili ai valori etici e alla solidarietà? Devono far risiedere l’appagamento della propria coscienza nell’equità dell’azione compiuta in sé o nell’efficacia ultima di un’altra azione; che va magari in direzione opposta, ma che secondo la loro valutazione dei probabili effetti determinerà i risultati auspicati?

Il tema è concretissimo. In quegli anni, per esempio, interventi che sembravano equi finivano per danneggiare proprio quelli che intendevano proteggere. Due esempi.
È certo che per importanti fini di solidarietà, in Italia e anche in altri Paesi, ma di più in Italia, erano sorti e si erano sviluppati interventi nel blocco dei fitti, poi di equo canone e di statuto dei lavoratori. Nel tempo è stato però chiaro che alcuni aspetti di questi interventi hanno avuto la conseguenza ultima di rendere più difficile trovare abitazioni in affitto e trovare lavoro. Di qui, la necessità di tenere conto del mercato, di migliorarlo, di svolgervi interventi idonei a perseguire gli obiettivi della politica economica, senza emanare leggi astrattamente lodevoli sotto il profilo etico, ma con conseguenze che contraddicono le stesse istanze etiche.
Se si ripercorrono i momenti formativi di quelle decisioni, poi unanimemente criticate, si scopre che erano state quasi unanimemente adottate. Con un consenso fondato su una superficiale istanza etica in qualche modo condivisa sia dalla cultura marxista, sia dalla cattolica, sia da quella che oggi chiameremmo cultura della destra sociale. È chiaro che queste scelte finivano per determinare interventi a carico della finanza pubblica e quindi disavanzo e debito pubblico. Ma se si decide, come gradualmente si è fatto nel tempo, che non è una buona idea quella di falsare l’andamento del mercato introducendovi elementi di solidarietà che poi vengono frustrati, ciò significa che un’economia di mercato deve essere completamente scevra di obiettivi di solidarietà di impronta etica? Un economista che ha onorato l’Italia, Luigi Einaudi, scriveva nelle sue lezioni di politica sociale pagine straordinarie per chiarezza e attualità circa la necessità, nell’intento di avere una distribuzione del reddito socialmente ed eticamente accettabile, non di distruggere il meccanismo esistente di mercato, bensì di far funzionare il sistema fiscale, e diceva felicemente che confondere idee diverse vuol dire non concludere niente; confondere, come spesso si fa, tanti meccanismi diversi (Einaudi parlava del meccanismo del mercato e di quello fiscale) vuol dire distruggere ambedue senza alcun costrutto.
Etica e concorrenza. La concorrenza è un aspetto dell’economia di mercato, più in generale della vita, di nuovo non particolarmente coltivato da quelle culture che hanno dominato l’evoluzione sociale e politica italiana. È un fenomeno che valorizza gli individui: fa più perno, se vogliamo, sull’etica individuale, ed è anche una delle politiche pubbliche necessarie affinché il mercato dia i suoi frutti, anche dal punto di vista sociale, attraverso un’efficiente allocazione delle risorse.
Non è un caso che in Italia la prima legge sulla concorrenza che ha istituito l’Autorità Antitrust sia solo del 1990. La Germania aveva una legge dalla fine degli anni Cinquanta, la Cee dal Trattato di Roma, gli altri Paesi gradualmente se ne sono dotati. Il nostro ritardo ci dice come la nostra cultura economica e politica non fosse permeata di princìpi della concorrenza, col vantaggio, come capita a volte, che essendo stata quella nostra una legge tardiva, è migliore di tante altre. Ed è molto orientata sul prototipo europeo.

Che relazione c’è fra etica e concorrenza? Una politica della concorrenza guarda al comportamento delle imprese e degli Stati: mira a impedire che ci siano accordi restrittivi, cioè che ci siano abusi di posizioni dominanti nel mercato e concentrazioni propriamente eccessive. Proviamo per un attimo a immaginare un’Europa unitaria senza una politica della concorrenza. La sua economia sarebbe preda di cartelli, abusi di posizioni dominanti, monopoli. Non solo ne deriverebbe una minore crescita, con una minore occupazione, ma, sotto il profilo delle conseguenze distributive, si provocherebbe un danno che si scaricherebbe sui deboli, sulle imprese deboli, sui cittadini deboli, sui consumatori.
Ciò vale anche per gli aiuti di Stato. In Europa, a differenza che nei singoli Paesi, non manca un controllo sui sussidi alle imprese. Ci sono regole che consentono, oltre certi limiti, interventi di sussidio; tuttavia, quando si va oltre e si salva comunque una situazione di occupazione in uno stabilimento o in un’azienda, altri nello stesso Paese e in altri Paesi soffrono perché non viene data loro la possibilità di avere posti di lavoro che sarebbero ugualmente e probabilmente molto più produttivi.
Per l’interrelazione Ue, economia ed etica, sono convinto che l’Ue valga in parte per quello per cui si ritiene che valga, cioè perché integra i Paesi, ma valga molto di più per quello che spesso non ci si accorge che fa, cioè migliorare i singoli Paesi mentre li integra. Da questo punto di vista, è davvero paradossale che si ritenga che l’Ue sia stata una costruzione finora esclusivamente fondata sul mercato e sui valori materiali. Certo, occorre ed è in corso l’azione di fare molto di più sul piano culturale, politico, della politica estera, e così via.
Ma la mia osservazione conclusiva è che l’Ue, nelle sue realizzazioni apparentemente solo mercatistiche, ha un risvolto che è di profonda eticità ed è particolarmente rilevante in quei Paesi che per decenni precedenti, convinti di fare politiche etiche, facevano invece politiche distorsive rispetto agli obiettivi etici che perseguivano. L’integrazione europea, fondata sull’economia sociale di mercato, ha valorizzato gli individui in tutto questo processo.
Guido Carli, esprimendosi a proposito del Trattato di Maastricht, diceva che esso «ha introdotto un nuovo patto tra Stati e cittadini, a favore di questi ultimi». Le libertà individuali nei Paesi europei non erano molto rispettate prima dell’avvento dell’integrazione europea. Si pensi che in Italia realizzazioni come la parità uomo-donna o il valore ambientale a tutela delle generazioni future sono state spesso introdotte con disposizioni comunitarie.
Più in generale, la tutela del rapporto-chiave tra diverse generazioni è divenuta realtà con la creazione dell’impianto comunitario. Il caso più ovvio, quello delle norme sulla finanza pubblica. Si può discutere all’infinito sulla perfezione o meno del Trattato di Maastricht, del Patto di stabilità e di crescita, ma qual è il risvolto etico essenziale dell’avere introdotto tali provvedimenti? Gli italiani si appagavano delle politiche sociali che facevano nei decenni passati, e neppure sapevano di avere un disavanzo pubblico del 12 o anche del 15 per cento del Pil. Oggi si discute se sia al di sopra o al di sotto di un obbligatorio 3 per cento massimo, con un altro fatto degno di nota: la internazionalizzazione, nei meccanismi di funzionamento di un’economia nazionale, del principio secondo cui non è una buona cosa appagare tutte le istanze sociali nel presente, traendone impropria soddisfazione etica, scaricando oneri sulle generazioni future con la spesa pubblica in disavanzo.
Ecco, quindi: con l’integrazione europea si è realizzata la moneta unica, ma fatto enormemente più importante è che si è data una nuova base a un aspetto essenziale della vita civile come quello del rapporto tra le generazioni, che è una cosa essenzialmente etica.
Un’ultima considerazione. È vero che nel Trattato costituzionale non figurano espressioni relative alle radici cristiane d’Europa. Ma dà consolazione il fatto che non figurino istituti e norme che consentono di dare un’impronta concretamente etica, anche sulla base di valori cristiani, alle politiche economiche, mentre tante volte abbiamo avuto assetti che nominalmente pagavano maggiore rispetto a certi valori, e nella realtà, in nome di quegli stessi valori, ingannano le generazioni future.


Mario Monti
Professore emerito di Economia


Nel bellissimo film di Ermanno Olmi, Il mestiere delle armi, Giovanni dalle Bande Nere dice a un certo punto, quasi a se stesso: «Se avessi scelto di essere prete, sarei Papa». La sua moralità di soldato sta nel combattere con coraggio, vincere i nemici senza crudeltà, con destrezza e senso dell’onore.
Come quello delle armi, così il mestiere del produrre ricchezza ha il suo protocollo: richiede voglia di arricchimento, di profitto, di lotta al concorrente, di conquista del mercato. Svolgerlo eticamente significa seguire quel protocollo onestamente. E la parola “onestamente” vuol dire né più né meno che osservare i dieci comandamenti, o l’imperativo kantiano. Certo la finanza è, per l’etica, un campo molto esposto, per almeno due ragioni. La prima, fondamentale, è che fa parte di una sfera dell’attività umana i cui moventi sono, oltre che la necessità (nutrirsi, ripararsi dal freddo...), l’avidità e la cupidigia, tratti dell’animo che non s’inscrivono nell’elenco delle virtù, ma piuttosto in quello delle passioni, che ai più appaiono come difetti. Keynes li definì spiriti animali. In quella che è ancora oggi la più originale e sconcertante proposizione della scienza economica, Adam Smith mostra come, in determinate condizioni ed entro un’appropriata cornice di leggi, l’interazione tra esseri umani che perseguono il proprio interesse individuale accresca la ricchezza delle nazioni.
Un difetto umano produce benessere collettivo: occorrono a un tempo la passione, l’avidità, e la moderazione di essa, le leggi. Qui sta la tensione etica: voglia di arricchimento, ma osservanza del settimo comandamento: non rubare!
D’altra parte, il tentativo di edificare un sistema economico che funzionasse senza il motore della cupidigia personale è tragicamente fallito sul piano economico, dove ha prodotto immensa miseria, e su quello politico, dove ha scatenato oppressione e persecuzione; né vi è altra indicazione che quell’esperimento abbia migliorato la qualità morale dell’uomo.
Affinché l’attività economica non consista in una rapina di tutti contro tutti, tre forme di controllo devono operare: la coscienza individuale, l’ambiente sociale, l’autorità pubblica. Di queste, il controllo sociale costituisce il punto debole dell’Italia. L’anello debole è stato ed è, da noi, la fiacchezza della sanzione sociale, da parte degli onesti, nei confronti di chi opera con scarsa correttezza, manca di parola, mescola i propri affari con quelli dell’impresa, corrompe il fisco o il pubblico appaltatore, si lascia corrompere, tradendo gli interessi della comunità.
Si sono criticati invadenze ed eccessi del potere giudiziario. Sono tra coloro che giudicano benemerita l’opera della magistratura, pur deplorandone gli eccessi. Ma una parte non piccola dell’invadenza fu frutto di una carenza di controllo sociale e di gravi omissioni degli organismi di categoria. Chi vuole meno controllo dei giudici dev’essere più attivo nel controllo sociale, individuando non solo gli errori piccoli, le piccole responsabilità, ma anche quelli grandi e grandissimi: anche se da noi neppure il dibattito sulle responsabilità della rotta di Caporetto è ancora del tutto chiuso.


Tommaso Padoa Schioppa
Docente onorario di Economia
Università di Francoforte


Ai tempi di Giuseppe Toniolo non era usuale parlare di etica dell’economia e tanto meno di etica economica, in Italia e in Europa. La neoscolastica ne parlava, il magistero sociale della Rerum Novarum (che è del 1891) anche, ma non certo gli economisti di orientamento positivista, né, per altre ragioni, quelli di orientamento idealista e crociano.
Per i primi, l’economia segue leggi meccaniche che si incentrano sull’agire dell’homo oeconomicus animato dalla sola razionalità della massimizzazione del profitto; per i secondi, l’economia era l’attività dello spirito nell’ambito distinto dell’utile radicalmente separata dal bene che doveva orientare, invece, l’azione morale. Sia considerando i fatti economici come puri fatti materiali, sia considerandoli come momenti dello spirito che fa storia, il risultato non cambiava: nelle Università italiane statali l’economia veniva insegnata come disciplina caratterizzata quasi esclusivamente dalla categoria dell’utile.
Contro queste concezioni si ergeva il pensiero di Toniolo: nella parte terza dell’introduzione del suo Trattato di economia sociale egli chiarisce che l’ordine economico è un aspetto inferiore del più complesso ed elevato ordine sociale, in quanto quest’ultimo è «un sistema armonico di relazioni tra gli uomini conviventi converso a conseguire nell’obbedienza di una legge etica suprema il bene comune, cioè ad apportare quegli aiuti reciproci con cui tutti i consociati, individui e famiglie, possono meglio effettuare il proprio perfezionamento fisico, intellettuale e morale coordinato al fine ultimo ultramondano».

Il linguaggio è proprio dei primi lustri del secolo scorso, ma si rimane sorpresi dalla novità della riflessione: l’economia non è il tutto della società. Giovanni Paolo II chiamerà “economicismo” la tendenza a considerare l’economia come la totalità anziché come una parte, perché essa non è il tutto della persona umana.

Se il modello dell’homo oeconomicus non convince o è addirittura in via di superamento, ciò accade perché l’economia ricomincia a fare i conti con l’etica. Ancora in quella terza parte dell’Introduzione Toniolo scrive con sorprendente attualità che la molla prima delle leggi economiche e sociali sta nella regia psicologica e nelle virtù morali delle popolazioni. Ebbene, uno dei fenomeni più evidenti oggi è che la ricchezza è data, come sostiene Toniolo, dal capitale umano e dal capitale sociale, ossia dal capitale immateriale; già oltre un decennio fa lo sosteneva Wojtyla nell’enciclica Centesimus annus, là dove afferma che la principale risorsa è l’uomo.
L’economia oggi appare soprattutto come un fenomeno qualitativo prima che quantitativo; a creare ricchezza non sono tanto le risorse materiali, quanto piuttosto quelle immateriali come l’intelligenza, la creatività e il lavoro interdisciplinare, la capacità di intercettare i bisogni degli altri e di soddisfarli, la capacità di lavorare insieme generando fiducia reciproca, la disponibilità all’innovazione e al cambiamento.

Gli studiosi sono concordi nel mettere al primo posto le energie psicologiche, come ad esempio lo spirito di iniziativa, e le energie comunitarie che vengono chiamate capitale sociale: tale è un gruppo umano solidale dove i contenziosi e le liti siano ridotti al minimo, solidale al suo interno grazie a rapporti rinsaldati dalla fiducia reciproca e capace di riconoscersi in una tradizione narrativa comune, cosicché il gruppo lavora meglio a costi inferiori, con minore spreco, con maggiore efficacia. Come ha confermato anche la celebre pubblicazione di Samuel Huntington sulle virtù morali del Nord-Est americano e sul loro ruolo economico, è difficile sostenere che l’etica non sia l’elemento che fa la differenza per un’economia maggiormente degna di questo nome.
Nella prospettiva della dottrina della Chiesa, l’economia va pensata anche come scienza dell’uomo e più precisamente come scienza sociale. Al centro della sua riflessione non vanno posti prima di tutto e soprattutto i beni materiali ed economici, cioè i beni suscettibili di apprezzamento e valutazione a partire dalla loro attitudine a soddisfare i bisogni materiali dell’uomo, quanto i rapporti sociali, quindi interpersonali, istituzionali, mediati dai beni economici, intendendo questi ultimi come beni in grado di far fronte ai bisogni primari dell’umanità.
Si situa proprio in questi scenari la dimensione intrinsecamente etica dell’economia sia come aspetto della vita pratica dell’uomo sia come scienza. La persona umana, infatti, deve essere al centro della ricerca e della prassi economica, come è più e più volte ribadito nell’ambito del magistero sociale della Chiesa. I Padri Conciliari solennemente affermarono l’uomo come l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economica e sociale. Quel magistero sociale ribadisce costantemente ed esplicitamente che l’economia ha bisogno dell’etica perché entrambe trovano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nell’uomo; entrambe sono discipline tese, secondo prospettive diverse, a comprendere la creatura umana in tutta la pienezza della sua dignità.

Giampaolo Crepaldi, Vescovo
Segretario del Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace

 

   
   
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