Una rilevazione fornì risultati
sorprendenti sugli oneri gestionali sopportati dalle banche per
la clientela,
a seconda che
si tratti del tipo tradizionale allo sportello o di quella acquisita
via web.
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Si può dire che il movimento europeo
moderno sia cominciato allepoca della Prima guerra mondiale.
Uno dei suoi più fervidi sostenitori fu Giovanni Agnelli,
il fondatore della Fiat. Il suo movente principale era politico:
riteneva che nulla, se non una Federazione europea, potesse evitare
al Continente di cadere in una nuova guerra. Considerava infatti
la Società delle Nazioni penosamente inadeguata allo scopo.
A questo egli aggiungeva un energico appello per un mercato unico
europeo, cicli di produzione più lunghi, ritenendo giustamente
assurdo che tutti i Paesi indipendenti riconosciuti dal Trattato
di Versailles cercassero di coprire singolarmente lintera
gamma dei prodotti industriali.
Il movimento europeista ebbe poi effettivamente inizio con la Seconda
guerra mondiale, ancora una volta come espressione della volontà
di evitare futuri conflitti. Tante furono le voci che si levarono
a sostegno di questo progetto che è impossibile ricordarle
tutte, ma non si può omettere di citare Altiero Spinelli,
che da comunista divenne sostenitore di una federazione europea
quale indispensabile garanzia di pace per il Continente. Come commissario
a Bruxelles e in altre funzioni, Spinelli dovette scendere a compromessi
pratici; ma insistette sempre che soltanto una piena federazione
avrebbe potuto raggiungere lo scopo.
Fu a questo punto che cominciarono i malintesi con la Gran Bretagna.
Nel 1940 Winston Churchill aveva offerto alla Francia una cittadinanza
comune, nel vano tentativo di indurre il Paese a continuare a combattere
contro la Germania nazista. Fu però un gesto del tutto eccezionale.
Churchill e altri conservatori di spicco, allora allopposizione,
invocavano la formazione degli Stati Uniti dEuropa, ma non
chiarivano se la Gran Bretagna avrebbe dovuto farne parte o meno;
tornati al potere alla fine del 1951, fu evidente che era loro intenzione
sostenere il movimento dallesterno.

Gli inglesi cominciarono a mostrare serio interesse per la Comunità
europea solo verso la fine degli anni Cinquanta-inizio anni Sessanta,
quando fu chiaro che stava emergendo un Mercato Comune Europeo che
poteva alzare barriere allesportazione dei prodotti inglesi.
Dopo linsuccesso di un prematuro tentativo di dar vita ad
una più ampia area europea di libero scambio, di cui il Mec
avrebbe fatto parte, nel 1961 il governo inglese chiese di entrare
nella Comunità, richiesta che fu respinta dal generale De
Gaulle con la celebre osservazione che la Gran Bretagna era unisola.
Da subito limpresa fu presentata allopinione pubblica
britannica per quello che non era. Lallora primo ministro
Harold Macmillan sapeva bene che la Comunità rappresentava
uniniziativa politica; la spinta decisiva ad aderire giunse
quando lamministrazione Kennedy negli Stati Uniti chiarì
che la Gran Bretagna avrebbe avuto più influenza sulla politica
americana se fosse stata parte di un raggruppamento continentale.
Tuttavia, nonostante alcune dichiarazioni scritte molto in piccolo,
tutta limpresa continuò ad essere venduta agli inglesi
come una gloriosa area di libero scambio con laggiunta di
qualche dettaglio istituzionale.
Stavano ancora così le cose, quando infine, con Edward Heath,
la Gran Bretagna aderì alla Comunità nel 1973. Da
allora molti nuovi elementi sembrano aver colto di sorpresa i governi
inglesi: lespansione della Politica Agricola Comune, lo sviluppo
del meccanismo di regolazione dei cambi e poi delleuro, la
Carta Sociale dellUe, e adesso la Costituzione.
Tutto questo ha suscitato forti perplessità in molti, e fra
costoro ci sono i liberisti. Alcuni sono ancora entusiasti dellUe
ed evidenziano aspetti come il Mercato Unico che vogliono rafforzare
e sviluppare; altri si preoccupano invece delle tendenze centralistiche
e dirigistiche. Tale varietà di orientamenti è presente
in parecchi Paesi europei, ma è legittimo affermare che i
liberisti britannici nutrono una maggiore diffidenza nei confronti
dellUe rispetto a quelli dellEuropa continentale.
Nellaffrontare questo tema, si deve evitare di restare impigliati
nelle definizioni. Possiamo discutere allinfinito, ad esempio,
su che cosa si debba intendere per liberista. Considererò
tale chi crede in un ruolo centrale dei mercati e del meccanismo
dei prezzi nelle decisioni economiche, non solo per ragioni di efficienza
ma anche perché offrono più spazio per la scelta e
dunque per la libertà personale.
Questo approccio generale è compatibile con unampia
gamma di posizioni differenti, ad esempio rispetto allo Stato sociale
e alla redistribuzione nei confronti dei meno abbienti. Assumerò
pure che il liberalismo economico sia parte di un liberalismo più
ampio, che comprende le tradizionali libertà personali e
le istituzioni che si sono sviluppate per tutelarle. La democrazia
è importante soprattutto come mezzo rispetto a uno scopo,
ed è necessario che sia soggetta a restrizioni costituzionali.
Non dovrebbe essere semplicemente la dittatura di una maggioranza
temporanea, assoluta o relativa che sia.
Non dovremmo comunque enfatizzare le differenze. Si può supporre
che su entrambe le rive della Manica i liberisti condividano il
sostegno al Mercato Unico Europeo, anche se possono pensarla diversamente
circa il fatto che la moneta unica ne costituisca una parte essenziale.
Essi respingono gli elementi protezionistici, come la Politica Agricola
Comune e la tolleranza nei confronti dei sussidi alle industrie.
Così pure disapprovano le ingerenze che comportano aumenti
di costi sul mercato del lavoro, sia sotto letichetta della
Carta sociale sia attraverso direttive in materia di sanità
e di sicurezza; essi vogliono poi che lUe assuma un ruolo
guida nella liberalizzazione del commercio mondiale in negoziati
come quello di Doha, invece di fare resistenza su questioni centrali.
Vi è inoltre, tra i liberisti inglesi, unampia gamma
di posizioni rispetto alla probabilità che lUe faciliti
e ostacoli il raggiungimento di tali obiettivi. Mentre solo una
minoranza desidererebbe abbandonare lUe, ora come ora non
sono certamente i liberisti i più entusiasti del progetto.
Qui, non posso che dare qualche indicazione sommaria sugli atteggiamenti
dei singoli Paesi.
La Francia, come sempre, è la più difficile da classificare.
I liberisti sono rari e hanno posizioni diverse rispetto allUe,
proprio come i loro corrispondenti inglesi. La politica di Parigi
continua a fondarsi sulla speranza di riaffermare il potere della
Francia, assumendo la leadership politica in Europa. Vi è
anche il desiderio di mantenere leccezione francese, che si
è opposta fermamente alla rinnovata ondata di libero mercato
degli ultimi ventanni.

La speranza iniziale dei liberisti tedeschi è stata quella
che lUe riproducesse su scala più ampia leconomia
di mercato avviata nel loro Paese da Erhard, dopo la seconda Guerra
mondiale. Molti da allora hanno progressivamente perso ogni illusione.
I datori di lavoro tedeschi spesso si lamentano di particolari politiche
dellUe dalleuro agli interventi nel mercato del
lavoro (che naturalmente hanno le loro controparti interne). Tuttavia,
condividono sufficientemente la fiducia del loro governo nellalleanza
franco-tedesca da evitare di assumere un tono troppo euroscettico.
Alcuni allinizio speravano, con lex Cancelliere Kohl,
di conseguire ununione politica in cambio della rinuncia al
marco; in realtà, hanno dovuto farsi bastare leuro,
più un trattato costituzionale.
LItalia rappresenta il caso economico più forte a favore
delle politiche dellUe, euro compreso. Leconomia di
libero mercato deve essere accompagnata da una qualche sorta di
disciplina monetaria e fiscale affinché le forze di mercato
diano i segnali giusti. Per molto tempo i politici italiani hanno
disperato di riuscire a realizzare un simile contesto allinterno
del Paese. Mentre in Gran Bretagna per indebolire un argomento di
natura economica era sufficiente dire che era necessario per ragioni
europee, in Italia era esattamente lopposto, e si sono raggiunti
risultati davvero positivi. Ad esempio, i tassi dei bond italiani,
che ventanni fa erano il doppio di quelli tedeschi, oggi sono
scesi allo stesso livello, talora anche molto al di sotto. Funzionari
del ministero dellEconomia italiano mi hanno assicurato che
non sarebbero stati in grado di garantire neppure un limitato grado
di correttezza fiscale se non avessero potuto sostenere che ciò
era necessario per venire incontro ai criteri di Maastricht ed essere
ammessi al Mercato Unico Europeo.
La Spagna, come lItalia, ha beneficiato di una più
ampia fiducia internazionale nelle sue finanze e, come lIrlanda,
ha tratto vantaggio dai fondi strutturali a sostegno delle regioni
dellUe ritenute più deboli. Ma il ruolo attribuito
a tali fondi, a mio avviso, è largamente esagerato. Entrambi
i Paesi devono molto di più alle politiche di apertura adottate
nei confronti del movimento di merci e di capitali. Occorre poi
dire che quando lultima Commissione ha criticato il supposto
scarso rigore di un recente bilancio dello Stato, gli irlandesi
si sono un po raffreddati nei confronti delle istituzioni
federali.
Più semplice è il discorso per i Paesi dellEuropa
centrale e orientale recentemente entrati a far parte dellUnione.
Molti di essi condividono lo scetticismo inglese nei confronti di
una regolazione centralizzata. Un negoziatore dei Paesi baltici
mi ha confessato che trattare con Bruxelles gli ricordava le negoziazioni
con il Cremlino allepoca della vecchia Unione Sovietica. Nondimeno,
questi Paesi hanno voluto aderire allUe per dare un segno
della loro definitiva emancipazione dal blocco sovietico e come
prova di rispettabilità, che, come nel caso dei Paesi mediterranei,
ha facilitato loro laccesso al credito sul mercato finanziario
internazionale.
I Paesi scandinavi sono comprensibilmente i più vicini agli
inglesi nei loro orientamenti. Essi apprezzano la dimensione del
libero scambio, ma si oppongono alleccessiva regolazione e
centralizzazione. Tuttavia, hanno risolto il dilemma in modi molto
diversi: a un estremo vi è la Finlandia, membro convinto,
che ha giocato un ruolo fondamentale nellintroduzione delleuro;
allaltro estremo la Norvegia, che fin dallinizio è
stata a guardare; nel mezzo, Svezia e Danimarca, che sono membri
piuttosto tiepidi dellUe: possono accettare o meno la Costituzione,
ma sono ancora fuori dallarea euro.
Samuel Brittan
Editorialista del Financial Times
La storia
degli ordinamenti europei è stata contrassegnata da diversi,
opposti e variegati richiami a Roma come figura dellorganizzazione
sociale per eccellenza. Anzi, la stessa tradizione europea
può essere definita come quella tradizione in cui lappello
a Roma (e alla Grecia) rimane lappello fondamentale che determina
lorizzonte stesso in cui tale tradizione viene edificata e
mantenuta in quanto tale.
In primo luogo, ovviamente, occorre considerare il richiamo carolingio.
Carlo Magno, francese per i francesi, tedesco per i tedeschi, era
però per se stesso e i propri contemporanei imperatore dei
romani. Si può anzi dire che un tale richiamo a Roma, con
lincoronazione nel Natale dell800, abbia fondato una
nuova e diversa spazialità del mondo. Fino al IX secolo,
infatti, i re occidentali tenevano il proprio regno in nome dellunico
imperatore dellOriente. Onde il senso stesso della ripartizione
mondiale in un Oriente e in un Occidente acquisisce con tale richiamo
un significato nuovo, poiché riedifica una imperialità
europea che non esisteva più almeno dal V secolo. Una
determinata immagine di Roma ne è la nuova figura, non solo
come spazialità e sacralità politica, ma anche come
fondamento culturale, non appena si pensi allopera di Alcuino
e del monachesimo irlandese nella fondazione della Scuola Palatina
sul lascito delleredità romana. La più profonda
delle discontinuità storiche viene così negata e colmata
da unaffermazione di continuità che ha in Roma il proprio
centro di costruzione del discorso fondativo.
Un secondo, e opposto, richiamo a Roma si verifica ben successivamente
con la nascita delle Università. Il XII secolo rappresenta
una nuova discontinuità nella riorganizzazione del sapere
fondativo dei rapporti giuridico-politici che trova ancora una volta
il proprio collante nel richiamo a Roma, e specificamente nella
mimesi del diritto romano imperiale giustinianeo, ma come opposizione
allo stato precedente sia della cultura sia dei rapporti di potere.
Abbiamo qui un secondo richiamo a Roma, che fonda unorganizzazione
del diritto e della cultura che si definisce, però, in opposizione
alla prima.
Un terzo richiamo a Roma, essenziale e costitutivo dei successivi
sviluppi storici europei, è ovviamente quello del Rinascimento,
che ancora una volta sorge come radicale opposizione proprio a quella
cultura scolastica che era stata sviluppata dalle università
come elaborazione del lascito culturale e politico dellantichità
greca e romana. Limperativo rinascimentale è quello
di un ritorno a Roma, nel segno di un ritorno alle fonti,
contro la traditio medioevale quale sviluppo di quelle medesime
fonti. Nasce qui lidea stessa di una distanza dalle fonti
e di una possibilità di ritorno alle fonti originarie, mediante
una loro ripresa di contro alla tradizione interpretativa che su
di esse si era sviluppata. Si contrappone così la fonte alla
sua interpretazione, e si afferma il valore prioritario della fonte
originaria, dellAnfang, rispetto alla tradizione di cui si
invoca il rinnovamento. È assai probabile che tale riorganizzazione
della cultura avesse anche qui un profondo senso teologico-politico,
come primo grande tentativo di decristianizzare lEuropa: bisognava
liberare le fonti greche e romane dei significati cristiani che
erano stati loro imprestati, e ricominciare da dove i romani avevano
lasciato lopera. Ancora una volta, il richiamo a Roma è
nel contempo centrale e oppositivo. Una diversa Roma si staglia
per chiudere un percorso che era partito riallacciandosi a Roma.
Illuminante è, infine, il successivo richiamo a Roma dellIlluminismo,
nei suoi esiti sia francesi che tedeschi. Lintera estetica
del discorso illuminista, nellarte come nella politica, è
infatti dominato dalla figuralità romana. Così è
nella Rivoluzione, che fa tabula rasa proprio di quella organizzazione
del potere e della cultura che pur derivava dal Rinascimento, quanto
con tutta evidenza del Consolato e del primo Impero.
È qui che lidea stessa di un Codice civile dei francesi
si staglia come un «ritorno rivoluzionario a Roma».

Ma tale estetica del discorso culturale e politico è anche
quella che pervade la costruzione delle istituzioni rivoluzionarie
americane, tanto nel campo del potere politico che della cultura.
La stessa architettura di Washington D.C. è in modo lampante
pensata sulla figuralità della nuova Roma, che deve sorgere
nel novus ordo dei secoli inaugurato dalla nascita degli Stati Uniti
come nuovo Occidente assoluto financo in opposizione allorganizzazione
politica europea, ripensata, neri termini di Tucidide, come nuova
orientalità dello spirito.
Decisivo è, allora, notare come in modo ancor diverso si
determini il richiamo a Roma nellambito dello storicismo tedesco,
quale si costruisce nelle guerre di liberazione nazionale e quale
singolare intrapresa di dominio (Herrschaft) sulle fonti mediante
la loro riattualizzazione ermeneutica, che comporta la costruzione
spirituale di una Germania vera continuatrice della Grecia in filosofia,
vero Israele come figura dellesistenza storica eletta, ed
erede di Roma nel diritto.
Una Roma francese contro lAncien Régime, per una nuova
Europa; una Roma americana alternativa allEuropa stessa; e
una Roma tedesca contro la Francia, e vera erede della spiritualità
dellOccidente. Abbiamo unonnipresenza di Roma come fattore
al contempo di rottura rivoluzionaria e di asserzione di continuità,
di ripresa di una continuità interrotta e di oltrepassamento
della tradizione precedente. Non esiste una sola Roma. Esistono
molte Rome. Con una tradizione di lotta con altri richiami sia dal
mondo tedesco che da quello americano: contro lAncien Régime,
e contro la stessa Europa.
Pier Giuseppe Monateri
Università Torino e Bocconi
LEuropa
somiglia sempre più a un network che a uno Stato.
Questo non deve essere considerato un problema in termini assoluti.
Ripensiamo allinsegnamento di Jean Monnet, uno dei padri costituenti
del sogno europeo: luomo di Stato francese somigliava di più
al Poiret di Agatha Christie che uno statista alla De Gaulle. Il
profilo da lui scelto per la nascita della Ceca prima, e della Cee
poi, fu quello della bassa cucina nessuna dichiarazione e
molta attività negoziale su particolari apparentemente insignificanti:
LEuropa non si creerà tutta in una volta, oppure
seguendo un piano generale. Verrà costruita attraverso singoli
e concreti obiettivi, che creeranno in primo luogo un senso di interdipendenza
tra i cittadini.
Lidea di Monnet era quella di costruire il sistema europeo
attraverso la creazione di ingranaggi tali da incanalare le decisioni
su temi pratici ed evitare grandi dichiarazioni di principio. Ogni
accordo di cooperazione ne presuppone uno antecedente e ne comporta
e determina uno successivo. Una volta rimosse le tariffe doganali,
si è passati alla rimozione delle barriere normative, per
procedere alla creazione del Mercato Unico e quindi alla creazione
della moneta unica.
Migliaia di incontri avvengono ogni giorno tra funzionari dei diversi
governi nazionali, al punto che la loro frequentazione abituale
determina, forzosamente, una spinta a pensare a un nuovo progetto
da sviluppare. La grande intuizione di Monnet fu quella di creare
una sorta di Europa invisibile che, senza abolire gli
Stati nazionali, li ha trasformati in agenti di un sistema di interrelazioni
tali da incanalare tutte le decisioni nazionali allinterno
del progetto comunitario.
La maggior parte del progetto europeo è da collocare dietro
le quinte della politica nazionale: lEuropa è un sistema
politico invisibile, mentre è un imponente sistema giuridico
ed economico grazie al suo minimo peso politico.
Invisibilità politica e network state: qualcuno ha assimilato
la Costituzione europea allesperienza fatta nel sistema del
credito al consumo da VISA. Sebbene molti federalisti sognino ancora
lidea di uno Stato europeo, lEuropa, nonostante si sia
dotata della simbologia dello Stato moderno della bandiera,
del passaporto, dellinno resta qualcosa di diverso
da uno Stato nel senso attuale del termine. È una rete decentralizzata
al servizio degli Stati membri, è unorganizzazione
scheletrica che lascia il potere nelle mani degli Stati membri,
che sono i responsabili dellattuazione e del controllo sullattuazione
della maggior parte delle norme e attività dellUnione.
Allo stesso tempo, gli Stati si privano continuamente di pezzi della
propria sovranità, non solo attraverso le dichiarazioni solenni
dei trattati, ma attraverso lopera incessante delle clearing
houses, che un po ovunque in Europa determinano la nascita
di nuovi modelli giuridici, nuovi meccanismi e istituti.
Questa struttura rivoluzionaria, che rappresenta la grande novità
istituzionale nel sistema politico e giuridico mondiale, è
la grande forza dellEuropa. Ha permesso allUnione di
crescere, fino ad oggi, senza impensierire i governi nazionali,
rendendoli allo stesso tempo agenti delle proprie decisioni, delle
decisioni comuni.
Questo incessante gioco, questa continua evoluzione del set istituzionale
hanno determinato, negli ultimi cinquantanni, la creazione
di una serie di organizzazioni comunitarie la cui interdipendenza
con omologhe organizzazioni nazionali e regionali, private e pubbliche,
costituisce ormai la colonna vertebrale di un sistema giuridico
economico diverso da quello frutto di intese tra Stati e fortemente
caratterizzato dalla presenza di un operatore politico invisibile.
Non necessariamente questo è un male. Levidenza è
data dai molti casi in cui il modello europeo è preferito
a quello americano, che, al contrario, ha una forte caratterizzazione
politico-nazionale. Cristallizzare tale fenomeno in una Carta costituzionale
potrebbe farci correre il rischio di ripetere gli errori del passato,
consegnando al solo legislatore comunitario e alle logiche politiche
che lo ispirano la conduzione del processo di creazione del set
istituzionale europeo.
Questo non farebbe che imbrigliare negli stretti vincoli politici
un fenomeno istituzionale che, prima ancora che giuridico, è
sociale, economico, antropologico, e che fino ad oggi ha dato buona
prova di sé, beneficiando del gioco di interessi e di pressioni
che i soggetti pubblici, privati, locali, nazionali e internazionali,
esercitano sulle istituzioni comunitarie.
LEuropa non esiste, ma proprio per questo attrae sempre più
risorse, cittadini, Stati. LEuropa non esiste, ma proprio
per questo convince della bontà delle sue regole, e del suo
modello di governo delleconomia e della società, un
numero via via crescente di cittadini. LEuropa non esiste,
e proprio per questo funziona!
Alberto M. Musy
Docente Università Piemonte Orientale
In tema di etica
dei mercati presento tre considerazioni: la prima su mercato ed
etica; la seconda su etica e concorrenza; la terza su Europa, mercato
concorrenziale ed etica.
Per la prima, il quesito che in molti di noi si affacciava negli
anni Settanta è quello del rapporto tra ciò che chiamerei
il momento soggettivo e il momento oggettivo delletica economica.
Il primo è quello delletica delle intenzioni; il secondo,
delletica dei risultati. La domanda allora è: che cosa
è eticamente superiore? Seguire unintenzione eticamente
positiva, quasi astraendo dalle sue conseguenze obiettive, oppure
promuovere quegli atti da cui ci si aspetta conseguenze concrete
eticamente positive? Come deve comportarsi limprenditore e
come deve comportarsi lautorità politico-economica
per ritenersi luno e laltra sensibili ai valori etici
e alla solidarietà? Devono far risiedere lappagamento
della propria coscienza nellequità dellazione
compiuta in sé o nellefficacia ultima di unaltra
azione; che va magari in direzione opposta, ma che secondo la loro
valutazione dei probabili effetti determinerà i risultati
auspicati?

Il tema è concretissimo. In quegli anni, per esempio, interventi
che sembravano equi finivano per danneggiare proprio quelli che
intendevano proteggere. Due esempi.
È certo che per importanti fini di solidarietà, in
Italia e anche in altri Paesi, ma di più in Italia, erano
sorti e si erano sviluppati interventi nel blocco dei fitti, poi
di equo canone e di statuto dei lavoratori. Nel tempo è stato
però chiaro che alcuni aspetti di questi interventi hanno
avuto la conseguenza ultima di rendere più difficile trovare
abitazioni in affitto e trovare lavoro. Di qui, la necessità
di tenere conto del mercato, di migliorarlo, di svolgervi interventi
idonei a perseguire gli obiettivi della politica economica, senza
emanare leggi astrattamente lodevoli sotto il profilo etico, ma
con conseguenze che contraddicono le stesse istanze etiche.
Se si ripercorrono i momenti formativi di quelle decisioni, poi
unanimemente criticate, si scopre che erano state quasi unanimemente
adottate. Con un consenso fondato su una superficiale istanza etica
in qualche modo condivisa sia dalla cultura marxista, sia dalla
cattolica, sia da quella che oggi chiameremmo cultura della destra
sociale. È chiaro che queste scelte finivano per determinare
interventi a carico della finanza pubblica e quindi disavanzo e
debito pubblico. Ma se si decide, come gradualmente si è
fatto nel tempo, che non è una buona idea quella di falsare
landamento del mercato introducendovi elementi di solidarietà
che poi vengono frustrati, ciò significa che uneconomia
di mercato deve essere completamente scevra di obiettivi di solidarietà
di impronta etica? Un economista che ha onorato lItalia, Luigi
Einaudi, scriveva nelle sue lezioni di politica sociale pagine straordinarie
per chiarezza e attualità circa la necessità, nellintento
di avere una distribuzione del reddito socialmente ed eticamente
accettabile, non di distruggere il meccanismo esistente di mercato,
bensì di far funzionare il sistema fiscale, e diceva felicemente
che confondere idee diverse vuol dire non concludere niente; confondere,
come spesso si fa, tanti meccanismi diversi (Einaudi parlava del
meccanismo del mercato e di quello fiscale) vuol dire distruggere
ambedue senza alcun costrutto.
Etica e concorrenza. La concorrenza è un aspetto delleconomia
di mercato, più in generale della vita, di nuovo non particolarmente
coltivato da quelle culture che hanno dominato levoluzione
sociale e politica italiana. È un fenomeno che valorizza
gli individui: fa più perno, se vogliamo, sulletica
individuale, ed è anche una delle politiche pubbliche necessarie
affinché il mercato dia i suoi frutti, anche dal punto di
vista sociale, attraverso unefficiente allocazione delle risorse.
Non è un caso che in Italia la prima legge sulla concorrenza
che ha istituito lAutorità Antitrust sia solo del 1990.
La Germania aveva una legge dalla fine degli anni Cinquanta, la
Cee dal Trattato di Roma, gli altri Paesi gradualmente se ne sono
dotati. Il nostro ritardo ci dice come la nostra cultura economica
e politica non fosse permeata di princìpi della concorrenza,
col vantaggio, come capita a volte, che essendo stata quella nostra
una legge tardiva, è migliore di tante altre. Ed è
molto orientata sul prototipo europeo.

Che relazione cè fra etica e concorrenza? Una politica
della concorrenza guarda al comportamento delle imprese e degli
Stati: mira a impedire che ci siano accordi restrittivi, cioè
che ci siano abusi di posizioni dominanti nel mercato e concentrazioni
propriamente eccessive. Proviamo per un attimo a immaginare unEuropa
unitaria senza una politica della concorrenza. La sua economia sarebbe
preda di cartelli, abusi di posizioni dominanti, monopoli. Non solo
ne deriverebbe una minore crescita, con una minore occupazione,
ma, sotto il profilo delle conseguenze distributive, si provocherebbe
un danno che si scaricherebbe sui deboli, sulle imprese deboli,
sui cittadini deboli, sui consumatori.
Ciò vale anche per gli aiuti di Stato. In Europa, a differenza
che nei singoli Paesi, non manca un controllo sui sussidi alle imprese.
Ci sono regole che consentono, oltre certi limiti, interventi di
sussidio; tuttavia, quando si va oltre e si salva comunque una situazione
di occupazione in uno stabilimento o in unazienda, altri nello
stesso Paese e in altri Paesi soffrono perché non viene data
loro la possibilità di avere posti di lavoro che sarebbero
ugualmente e probabilmente molto più produttivi.
Per linterrelazione Ue, economia ed etica, sono convinto che
lUe valga in parte per quello per cui si ritiene che valga,
cioè perché integra i Paesi, ma valga molto di più
per quello che spesso non ci si accorge che fa, cioè migliorare
i singoli Paesi mentre li integra. Da questo punto di vista, è
davvero paradossale che si ritenga che lUe sia stata una costruzione
finora esclusivamente fondata sul mercato e sui valori materiali.
Certo, occorre ed è in corso lazione di fare molto
di più sul piano culturale, politico, della politica estera,
e così via.
Ma la mia osservazione conclusiva è che lUe, nelle
sue realizzazioni apparentemente solo mercatistiche, ha un risvolto
che è di profonda eticità ed è particolarmente
rilevante in quei Paesi che per decenni precedenti, convinti di
fare politiche etiche, facevano invece politiche distorsive rispetto
agli obiettivi etici che perseguivano. Lintegrazione europea,
fondata sulleconomia sociale di mercato, ha valorizzato gli
individui in tutto questo processo.
Guido Carli, esprimendosi a proposito del Trattato di Maastricht,
diceva che esso «ha introdotto un nuovo patto tra Stati e
cittadini, a favore di questi ultimi». Le libertà individuali
nei Paesi europei non erano molto rispettate prima dellavvento
dellintegrazione europea. Si pensi che in Italia realizzazioni
come la parità uomo-donna o il valore ambientale a tutela
delle generazioni future sono state spesso introdotte con disposizioni
comunitarie.
Più in generale, la tutela del rapporto-chiave tra diverse
generazioni è divenuta realtà con la creazione dellimpianto
comunitario. Il caso più ovvio, quello delle norme sulla
finanza pubblica. Si può discutere allinfinito sulla
perfezione o meno del Trattato di Maastricht, del Patto di stabilità
e di crescita, ma qual è il risvolto etico essenziale dellavere
introdotto tali provvedimenti? Gli italiani si appagavano delle
politiche sociali che facevano nei decenni passati, e neppure sapevano
di avere un disavanzo pubblico del 12 o anche del 15 per cento del
Pil. Oggi si discute se sia al di sopra o al di sotto di un obbligatorio
3 per cento massimo, con un altro fatto degno di nota: la internazionalizzazione,
nei meccanismi di funzionamento di uneconomia nazionale, del
principio secondo cui non è una buona cosa appagare tutte
le istanze sociali nel presente, traendone impropria soddisfazione
etica, scaricando oneri sulle generazioni future con la spesa pubblica
in disavanzo.
Ecco, quindi: con lintegrazione europea si è realizzata
la moneta unica, ma fatto enormemente più importante è
che si è data una nuova base a un aspetto essenziale della
vita civile come quello del rapporto tra le generazioni, che è
una cosa essenzialmente etica.
Unultima considerazione. È vero che nel Trattato costituzionale
non figurano espressioni relative alle radici cristiane dEuropa.
Ma dà consolazione il fatto che non figurino istituti e norme
che consentono di dare unimpronta concretamente etica, anche
sulla base di valori cristiani, alle politiche economiche, mentre
tante volte abbiamo avuto assetti che nominalmente pagavano maggiore
rispetto a certi valori, e nella realtà, in nome di quegli
stessi valori, ingannano le generazioni future.
Mario Monti
Professore emerito di Economia
Nel
bellissimo film di Ermanno Olmi, Il mestiere delle
armi, Giovanni dalle Bande Nere dice a un certo punto, quasi a se
stesso: «Se avessi scelto di essere prete, sarei Papa».
La sua moralità di soldato sta nel combattere con coraggio,
vincere i nemici senza crudeltà, con destrezza e senso dellonore.
Come quello delle armi, così il mestiere del produrre ricchezza
ha il suo protocollo: richiede voglia di arricchimento, di profitto,
di lotta al concorrente, di conquista del mercato. Svolgerlo eticamente
significa seguire quel protocollo onestamente. E la parola onestamente
vuol dire né più né meno che osservare i dieci
comandamenti, o limperativo kantiano. Certo la finanza è,
per letica, un campo molto esposto, per almeno due ragioni.
La prima, fondamentale, è che fa parte di una sfera dellattività
umana i cui moventi sono, oltre che la necessità (nutrirsi,
ripararsi dal freddo...), lavidità e la cupidigia,
tratti dellanimo che non sinscrivono nellelenco
delle virtù, ma piuttosto in quello delle passioni, che ai
più appaiono come difetti. Keynes li definì spiriti
animali. In quella che è ancora oggi la più originale
e sconcertante proposizione della scienza economica, Adam Smith
mostra come, in determinate condizioni ed entro unappropriata
cornice di leggi, linterazione tra esseri umani che perseguono
il proprio interesse individuale accresca la ricchezza delle nazioni.
Un difetto umano produce benessere collettivo: occorrono a un tempo
la passione, lavidità, e la moderazione di essa, le
leggi. Qui sta la tensione etica: voglia di arricchimento, ma osservanza
del settimo comandamento: non rubare!
Daltra parte, il tentativo di edificare un sistema economico
che funzionasse senza il motore della cupidigia personale è
tragicamente fallito sul piano economico, dove ha prodotto immensa
miseria, e su quello politico, dove ha scatenato oppressione e persecuzione;
né vi è altra indicazione che quellesperimento
abbia migliorato la qualità morale delluomo.
Affinché lattività economica non consista in
una rapina di tutti contro tutti, tre forme di controllo devono
operare: la coscienza individuale, lambiente sociale, lautorità
pubblica. Di queste, il controllo sociale costituisce il punto debole
dellItalia. Lanello debole è stato ed è,
da noi, la fiacchezza della sanzione sociale, da parte degli onesti,
nei confronti di chi opera con scarsa correttezza, manca di parola,
mescola i propri affari con quelli dellimpresa, corrompe il
fisco o il pubblico appaltatore, si lascia corrompere, tradendo
gli interessi della comunità.
Si sono criticati invadenze ed eccessi del potere giudiziario. Sono
tra coloro che giudicano benemerita lopera della magistratura,
pur deplorandone gli eccessi. Ma una parte non piccola dellinvadenza
fu frutto di una carenza di controllo sociale e di gravi omissioni
degli organismi di categoria. Chi vuole meno controllo dei giudici
devessere più attivo nel controllo sociale, individuando
non solo gli errori piccoli, le piccole responsabilità, ma
anche quelli grandi e grandissimi: anche se da noi neppure il dibattito
sulle responsabilità della rotta di Caporetto è ancora
del tutto chiuso.
Tommaso Padoa Schioppa
Docente onorario di Economia
Università di Francoforte
Ai
tempi di Giuseppe Toniolo non era usuale parlare di etica
delleconomia e tanto meno di etica economica, in Italia e
in Europa. La neoscolastica ne parlava, il magistero sociale della
Rerum Novarum (che è del 1891) anche, ma non certo gli economisti
di orientamento positivista, né, per altre ragioni, quelli
di orientamento idealista e crociano.
Per i primi, leconomia segue leggi meccaniche che si incentrano
sullagire dellhomo oeconomicus animato dalla sola razionalità
della massimizzazione del profitto; per i secondi, leconomia
era lattività dello spirito nellambito distinto
dellutile radicalmente separata dal bene che doveva orientare,
invece, lazione morale. Sia considerando i fatti economici
come puri fatti materiali, sia considerandoli come momenti dello
spirito che fa storia, il risultato non cambiava: nelle Università
italiane statali leconomia veniva insegnata come disciplina
caratterizzata quasi esclusivamente dalla categoria dellutile.
Contro queste concezioni si ergeva il pensiero di Toniolo: nella
parte terza dellintroduzione del suo Trattato di economia
sociale egli chiarisce che lordine economico è un aspetto
inferiore del più complesso ed elevato ordine sociale, in
quanto questultimo è «un sistema armonico di
relazioni tra gli uomini conviventi converso a conseguire nellobbedienza
di una legge etica suprema il bene comune, cioè ad apportare
quegli aiuti reciproci con cui tutti i consociati, individui e famiglie,
possono meglio effettuare il proprio perfezionamento fisico, intellettuale
e morale coordinato al fine ultimo ultramondano».

Il linguaggio è proprio dei primi lustri del secolo scorso,
ma si rimane sorpresi dalla novità della riflessione: leconomia
non è il tutto della società. Giovanni Paolo II chiamerà
economicismo la tendenza a considerare leconomia
come la totalità anziché come una parte, perché
essa non è il tutto della persona umana.
Se il modello dellhomo oeconomicus non convince o è
addirittura in via di superamento, ciò accade perché
leconomia ricomincia a fare i conti con letica. Ancora
in quella terza parte dellIntroduzione Toniolo scrive con
sorprendente attualità che la molla prima delle leggi economiche
e sociali sta nella regia psicologica e nelle virtù morali
delle popolazioni. Ebbene, uno dei fenomeni più evidenti
oggi è che la ricchezza è data, come sostiene Toniolo,
dal capitale umano e dal capitale sociale, ossia dal capitale immateriale;
già oltre un decennio fa lo sosteneva Wojtyla nellenciclica
Centesimus annus, là dove afferma che la principale risorsa
è luomo.
Leconomia oggi appare soprattutto come un fenomeno qualitativo
prima che quantitativo; a creare ricchezza non sono tanto le risorse
materiali, quanto piuttosto quelle immateriali come lintelligenza,
la creatività e il lavoro interdisciplinare, la capacità
di intercettare i bisogni degli altri e di soddisfarli, la capacità
di lavorare insieme generando fiducia reciproca, la disponibilità
allinnovazione e al cambiamento.
Gli studiosi sono concordi nel mettere al primo posto le energie
psicologiche, come ad esempio lo spirito di iniziativa, e le energie
comunitarie che vengono chiamate capitale sociale: tale è
un gruppo umano solidale dove i contenziosi e le liti siano ridotti
al minimo, solidale al suo interno grazie a rapporti rinsaldati
dalla fiducia reciproca e capace di riconoscersi in una tradizione
narrativa comune, cosicché il gruppo lavora meglio a costi
inferiori, con minore spreco, con maggiore efficacia. Come ha confermato
anche la celebre pubblicazione di Samuel Huntington sulle virtù
morali del Nord-Est americano e sul loro ruolo economico, è
difficile sostenere che letica non sia lelemento che
fa la differenza per uneconomia maggiormente degna di questo
nome.
Nella prospettiva della dottrina della Chiesa, leconomia va
pensata anche come scienza delluomo e più precisamente
come scienza sociale. Al centro della sua riflessione non vanno
posti prima di tutto e soprattutto i beni materiali ed economici,
cioè i beni suscettibili di apprezzamento e valutazione a
partire dalla loro attitudine a soddisfare i bisogni materiali delluomo,
quanto i rapporti sociali, quindi interpersonali, istituzionali,
mediati dai beni economici, intendendo questi ultimi come beni in
grado di far fronte ai bisogni primari dellumanità.
Si situa proprio in questi scenari la dimensione intrinsecamente
etica delleconomia sia come aspetto della vita pratica delluomo
sia come scienza. La persona umana, infatti, deve essere al centro
della ricerca e della prassi economica, come è più
e più volte ribadito nellambito del magistero sociale
della Chiesa. I Padri Conciliari solennemente affermarono luomo
come lautore, il centro e il fine di tutta la vita economica
e sociale. Quel magistero sociale ribadisce costantemente ed esplicitamente
che leconomia ha bisogno delletica perché entrambe
trovano il loro fondamento e la loro ragion dessere nelluomo;
entrambe sono discipline tese, secondo prospettive diverse, a comprendere
la creatura umana in tutta la pienezza della sua dignità.
Giampaolo Crepaldi, Vescovo
Segretario del Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace
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