Non è il cambio forte dell’euro
che penalizza
i produttori
europei: i problemi di crescita
dell’economia
europea erano esattamente gli stessi tre anni fa.
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Si dice, oggi, che l’Europa è un “vaso di coccio”:
ma è proprio così? Il poco lusinghiero paragone una
volta era riservato ad alcuni Paesi (fra i quali l’Italia),
e le ultime spigolature dei dati economici non fanno altro che confermare
l’italica fama, insieme con quella di altre aree dell’Europa
a Venticinque. Ma, salendo di un gradino nella geografia, la saggezza
convenzionale ha finito con l’appiccicare anche all’Europa
intera, o quanto meno a quella continentale, o se proprio si vuole
a quella continentale e occidentale, questa metafora non proprio
esaltante.
Usa, Asia e competizione. Da una parte c’è un’America
che continua ad essere una caldaia bollente di innovazione e un
“datore di lavoro di ultima istanza”, che assorbe come
una spugna, e con la flessibilità di una spugna, schiere
di immigrati legali e illegali; dall’altra c’è
un’Asia che provvede numeri immani di lavoratori a basso costo
e, in misura crescente, anche “manodopera” di alta tecnologia;
e dall’altra ancora c’è una globalizzazione inarrestabile
che sta investendo anche settori che si credevano al riparo dalla
concorrenza estera. Da anni molte lavorazioni di back office sono
state “subappaltate” all’estero, dal trattamento
delle pratiche di rimborso delle assicurazioni mediche alla contabilità
della biglietteria per le compagnie aeree.
Più di recente, anche molti progetti di software vengono
fatti svolgere da programmatori indiani, malaysiani o cinesi, che
poi vanno anche scalando i gradini del valore aggiunto a mano a
mano che acquistano esperienza e sicurezza, offrendo soluzioni gestionali
e programmatorie “chiavi in mano” a clienti situati quasi
in ogni parte del mondo.
Infine, i progressi della telematica e l’incredibile riduzione
dei costi della trasmissione dati sta invadendo ancora altri servizi:
un paziente dovrà sempre farsi l’analisi del sangue
o la radiografia là dove abita, ma non c’è nessuna
ragione perché la valutazione diagnostica non possa essere
fatta da un patologo di Calcutta o perché un radiologo vietnamita
non possa analizzare la radiografia trasmessa in pochi secondi al
suo studio di Ho Chi Minh City e non possa poi rimandare indietro
ancora, in pochi secondi, la sua diagnosi.
Tentazioni protezioniste. Questa situazione pone problemi
da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Le tendenze
protezionistiche serpeggiano dappertutto, ma la tentazione –
come sempre nel caso del libero scambio – è il frutto
proibito, il cui morso farà più male che bene.
Cinque anni fa, più o meno, i giornali pubblicarono la foto
di una manifestazione a Washington, intesa a protestare contro l’attribuzione
alla Cina di uno status normale nelle regole degli scambi commerciali:
i dimostranti, seduti sui gradini della Capitol Hill, innalzavano
variopinti cartelli: “Nessun assegno in bianco alla Cina”;
“La Cina ci ha già fatto perdere 800 mila posti di lavoro.
Il prossimo sarà il tuo?”; “Fate lavorare l’economia
globale per le famiglie che lavorano”. Ebbene, col senno del
poi, vale a dire col senno di un lustro dopo, è possibile
dire quanto vane e infondate fossero quelle proteste: le importazioni
americane dalla Cina da allora sono raddoppiate e il numero degli
occupati negli Stati Uniti d’America è... aumentato
di circa cinque milioni di unità. Ma il virus del protezionismo
è incurabile; periodicamente sconfitto, periodicamente ricompare
dopo essere rimasto nell’organismo sociale, e ad ogni volgere
al peggio della vicenda congiunturale ritorna a nuova vita.
E l’Europa sembra essere la meno attrezzata per rispondere
a queste sfide e a questo virus. Ma sarebbe sbagliato considerare
il Vecchio Continente come affetto da un’incurabile incapacità
ad adeguarsi al XXI secolo. Nella temperie europea di questi anni
possiamo infatti distinguere tre nodi veri e due nodi falsi.
I nodi veri. Il primo nodo vero è quello della politica.
Il mondo che è oggi irreversibilmente plasmato dalla tecnologia
e dalla globalizzazione è un mondo che richiede una grande
mobilità delle risorse e un grande sforzo di “formazione
permanente”. C’è una luce in fondo al tunnel di
un più alto benessere che viene promesso dalla nuova ondata
di rivoluzione industriale in corso, un’ondata che fa intravedere
più produttività e quindi più elevati standard
di vita.
Ma per cavalcare quest’onda, è necessario cambiare istituti
e istituzioni che ostacolano la mobilità: e questo è
il compito della politica. In Europa ci sono tensioni per le riforme,
e questo è almeno segno che delle riforme c’è
chi conosce fino in fondo l’importanza. Ci sono stati successi
e insuccessi, ma la via è segnata ed è troppo presto
per sostenere che l’Europa fallirà.
Il secondo nodo del Vecchio Continente è rappresentato dai
costi elevati. Ma l’Europa ha la sua “Cina”: i Paesi
orientali a basso costo del lavoro danno all’Europa, come al
Giappone con il vicino gigante cinese, l’opportunità
di accoppiare industrie avanzate con bassi costi di manifattura.
Il terzo nodo è quello dell’innovazione. I processi
dirigistici degli accordi di Lisbona non hanno risolto il problema
e c’è la possibilità, se non ancora la voglia
(ma la voglia dovrà prima o poi arrendersi di fronte alla
necessità), di dare al mercato più spazio per spianare
i sentieri dell’innovazione.
I nodi falsi. Se questi sono i nodi veri, quali sono quelli falsi?
Essenzialmente, sono due: il cambio e la finanza pubblica. Non è
il cambio forte dell’euro che penalizza i produttori europei:
basti pensare che i problemi di crescita dell’economia europea
erano esattamente gli stessi tre anni fa, quando il cambio era molto
più competitivo di quello di oggi. La finanza pubblica preoccupa,
ma è una preoccupazione che mette il carro davanti ai buoi.
Se i primi tre nodi, quelli veri, vengono sciolti, i deficit di
bilancio svaniranno come neve sotto il sole della crescita.
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