Dicembre 2005

Colpa dell’euro?

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Chi frena l’Europa
Jean Jacques Aurioux Economista
 
 

 

 

 

Non è il cambio forte dell’euro
che penalizza
i produttori
europei: i problemi di crescita
dell’economia
europea erano esattamente gli stessi tre anni fa.

 

Si dice, oggi, che l’Europa è un “vaso di coccio”: ma è proprio così? Il poco lusinghiero paragone una volta era riservato ad alcuni Paesi (fra i quali l’Italia), e le ultime spigolature dei dati economici non fanno altro che confermare l’italica fama, insieme con quella di altre aree dell’Europa a Venticinque. Ma, salendo di un gradino nella geografia, la saggezza convenzionale ha finito con l’appiccicare anche all’Europa intera, o quanto meno a quella continentale, o se proprio si vuole a quella continentale e occidentale, questa metafora non proprio esaltante.

Usa, Asia e competizione. Da una parte c’è un’America che continua ad essere una caldaia bollente di innovazione e un “datore di lavoro di ultima istanza”, che assorbe come una spugna, e con la flessibilità di una spugna, schiere di immigrati legali e illegali; dall’altra c’è un’Asia che provvede numeri immani di lavoratori a basso costo e, in misura crescente, anche “manodopera” di alta tecnologia; e dall’altra ancora c’è una globalizzazione inarrestabile che sta investendo anche settori che si credevano al riparo dalla concorrenza estera. Da anni molte lavorazioni di back office sono state “subappaltate” all’estero, dal trattamento delle pratiche di rimborso delle assicurazioni mediche alla contabilità della biglietteria per le compagnie aeree.
Più di recente, anche molti progetti di software vengono fatti svolgere da programmatori indiani, malaysiani o cinesi, che poi vanno anche scalando i gradini del valore aggiunto a mano a mano che acquistano esperienza e sicurezza, offrendo soluzioni gestionali e programmatorie “chiavi in mano” a clienti situati quasi in ogni parte del mondo.
Infine, i progressi della telematica e l’incredibile riduzione dei costi della trasmissione dati sta invadendo ancora altri servizi: un paziente dovrà sempre farsi l’analisi del sangue o la radiografia là dove abita, ma non c’è nessuna ragione perché la valutazione diagnostica non possa essere fatta da un patologo di Calcutta o perché un radiologo vietnamita non possa analizzare la radiografia trasmessa in pochi secondi al suo studio di Ho Chi Minh City e non possa poi rimandare indietro ancora, in pochi secondi, la sua diagnosi.

Tentazioni protezioniste. Questa situazione pone problemi da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Le tendenze protezionistiche serpeggiano dappertutto, ma la tentazione – come sempre nel caso del libero scambio – è il frutto proibito, il cui morso farà più male che bene.
Cinque anni fa, più o meno, i giornali pubblicarono la foto di una manifestazione a Washington, intesa a protestare contro l’attribuzione alla Cina di uno status normale nelle regole degli scambi commerciali: i dimostranti, seduti sui gradini della Capitol Hill, innalzavano variopinti cartelli: “Nessun assegno in bianco alla Cina”; “La Cina ci ha già fatto perdere 800 mila posti di lavoro. Il prossimo sarà il tuo?”; “Fate lavorare l’economia globale per le famiglie che lavorano”. Ebbene, col senno del poi, vale a dire col senno di un lustro dopo, è possibile dire quanto vane e infondate fossero quelle proteste: le importazioni americane dalla Cina da allora sono raddoppiate e il numero degli occupati negli Stati Uniti d’America è... aumentato di circa cinque milioni di unità. Ma il virus del protezionismo è incurabile; periodicamente sconfitto, periodicamente ricompare dopo essere rimasto nell’organismo sociale, e ad ogni volgere al peggio della vicenda congiunturale ritorna a nuova vita.
E l’Europa sembra essere la meno attrezzata per rispondere a queste sfide e a questo virus. Ma sarebbe sbagliato considerare il Vecchio Continente come affetto da un’incurabile incapacità ad adeguarsi al XXI secolo. Nella temperie europea di questi anni possiamo infatti distinguere tre nodi veri e due nodi falsi.

I nodi veri. Il primo nodo vero è quello della politica. Il mondo che è oggi irreversibilmente plasmato dalla tecnologia e dalla globalizzazione è un mondo che richiede una grande mobilità delle risorse e un grande sforzo di “formazione permanente”. C’è una luce in fondo al tunnel di un più alto benessere che viene promesso dalla nuova ondata di rivoluzione industriale in corso, un’ondata che fa intravedere più produttività e quindi più elevati standard di vita.
Ma per cavalcare quest’onda, è necessario cambiare istituti e istituzioni che ostacolano la mobilità: e questo è il compito della politica. In Europa ci sono tensioni per le riforme, e questo è almeno segno che delle riforme c’è chi conosce fino in fondo l’importanza. Ci sono stati successi e insuccessi, ma la via è segnata ed è troppo presto per sostenere che l’Europa fallirà.
Il secondo nodo del Vecchio Continente è rappresentato dai costi elevati. Ma l’Europa ha la sua “Cina”: i Paesi orientali a basso costo del lavoro danno all’Europa, come al Giappone con il vicino gigante cinese, l’opportunità di accoppiare industrie avanzate con bassi costi di manifattura.
Il terzo nodo è quello dell’innovazione. I processi dirigistici degli accordi di Lisbona non hanno risolto il problema e c’è la possibilità, se non ancora la voglia (ma la voglia dovrà prima o poi arrendersi di fronte alla necessità), di dare al mercato più spazio per spianare i sentieri dell’innovazione.

I nodi falsi. Se questi sono i nodi veri, quali sono quelli falsi? Essenzialmente, sono due: il cambio e la finanza pubblica. Non è il cambio forte dell’euro che penalizza i produttori europei: basti pensare che i problemi di crescita dell’economia europea erano esattamente gli stessi tre anni fa, quando il cambio era molto più competitivo di quello di oggi. La finanza pubblica preoccupa, ma è una preoccupazione che mette il carro davanti ai buoi.

Se i primi tre nodi, quelli veri, vengono sciolti, i deficit di bilancio svaniranno come neve sotto il sole della crescita.

 

   
   
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