Dicembre 2005

Penisola schizofrenica

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Incolpevole Ue
Marcello Righi  
 
 

 

 

 

A questo servono le strategie
del lamento:
a dimettersi
dalle proprie
responsabilità, senza mai
sacrificare poteri
e poltrone.

 

Di malattie d’Europa e di nefasti squilibri nel mondo si parla molto da tempo, e in particolare da quando l’Unione europea e i suoi Stati non riescono a trovare il modo di dare al Vecchio Continente sia i mezzi sia le istituzioni per poter decidere del proprio destino. E a forza di parlarne senza soluzione di continuità, è forte il rischio di perdere la bussola, di non sapere più bene dove si trovi la realtà e dove si annidi l’immaginario, in che cosa consiste la verità e in che cosa la menzogna.
Sappiamo soltanto che l’Europa non è più divisa tra le Superpotenze della Guerra fredda, che non ha più muri né fili spinati, che dunque oggi le tocca agire con la testa propria, e che le parole sui suoi mali e sui mali del mondo si sono via via moltiplicate. Sicché sembra venuto il momento, per i cittadini, di fermarsi un poco, e di riflettere, di pensare in profondità tutte queste parole che sentiamo e che noi stessi siamo portati a pronunciare.

È stato notato che siamo come immersi in una strana cultura della lagnanza, che accomuna governanti e governati e da cui nessuno ha desiderio effettivo di uscire. In quanto cittadini elettori, riteniamo di essere autonomi e liberi quando denunciamo gli errori o le mancanze dell’Europa o del mondo, ma ecco che ben presto chi governa scimmiotta le nostre lamentele, cioè denuncia l’Europa con lamentele straordinariamente simili alle nostre, a quelle dei comuni cittadini.
In realtà, proprio noi abbiamo dato ai governi una magnifica occasione per scaricare sul mondo esterno responsabilità che sono in gran parte loro, sicché della nostra autonomia e della nostra libertà rimane ben poco. In realtà, siamo succubi di lamenti altrui, quando gemiamo sul mondo. All’unisono con i governanti, difendiamo sovranità nazionali che il mondo (la storia del mondo) ha già corroso, e rifiutiamo gli obblighi di sovranità che invece restano ancora ben salde nelle mani dei politici nazionali, e di noi che li eleggiamo o li licenziamo.
Questa tendenza è particolarmente forte in coloro i quali non vogliono analizzare o correggere i propri errori, che non riescono a riconquistare i consensi popolari perduti, e che nonostante tutto ciò sono determinati a restare dove sono, senza consentire alcun ricambio di persone (e persino di generazioni). Per far ciò hanno deciso di usare l’Europa o il mondo allo stesso modo in cui si usa un capro espiatorio. Se ci sono colpe nel modo in cui sono stati governati i popoli, oppure l’economia, oppure l’occupazione, esse non hanno nulla a che vedere con i governi: sono di volta in volta colpa dell’euro, delle burocrazie di Bruxelles, di élite globalizzate. Oppure sono colpa del terrorismo e dello stesso popolo, che quando va alle urne può rivelarsi sovranamente stupido o eversore. Dunque: colpa di tutti, tranne dei governanti. A questo servono le strategie del lamento: a dimettersi sistematicamente dalle proprie responsabilità, senza mai sacrificare poteri e poltrone.

È bene chiarire che nell’Unione non siamo i soli ad accusare le istituzioni comunitarie di ogni male, compresi i mali su cui Bruxelles non può decidere alcunché, perché gli Stati glielo hanno impedito. Non siamo neppure i soli a raccontare enormi menzogne, come dimostrano i lamenti continui di Chirac, anche se noi ci distinguiamo nel denunciare crisi conseguenti all’11 settembre, e poi (calato il silenzio, improvvisamente, sulle conseguenze in Italia dell’abbattimento delle Torri Gemelle) crisi determinate dall’euro e dall’aggressività dell’economia cinese. Ma a questo punto abbiamo il diritto di chiedere: per quanto tempo durerà il lamento su moneta unica e Cina, dopo che è stato frettolosamente gettato alle ortiche quello sull’11 settembre? E ancora: come mai alcuni Paesi dell’Unione europea (a cominciare dalla Germania, che è ridiventata campione mondiale delle esportazioni) non hanno sofferto come noi dell’euro e della Cina?
Il vero male non è dunque nelle eurocrazie, anche perché il mondo è difficile come quasi sempre lo è stato. Il male risiede nelle politiche che sono fermamente interessate a mantenere il potere e, simultaneamente, a sbarazzarsi delle responsabilità. In questo, Francia e Italia si somigliano a tal punto che senza alcuna fatica hanno scavalcato quel che in passato le aveva tanto divise: dalla guerra in Iraq ai tratti di carattere e ai modi di parlare. Oggi sono unite dalla comune propensione al lamento, dall’unica attitudine a cercare le cose del mondo più appropriate per essere usate ai fini del potere. C’è stato un tempo in cui l’11 settembre spiegava ogni disastro. Poi, in rapida sequenza, sono stati utilizzati: l’euro, la Commissione europea, l’allargamento dell’Unione, la guerra irachena, il negoziato con la Turchia... Tutti questi eventi esterni stavano lì per scagionare le crisi altrui, per essere presentati come mondi di peccato e addirittura di storia. Le nostre e le altrui incapacità a imparare qualcosa di costruttivo dai propri errori e dai propri scacchi è all’origine della paralisi che oggi parte da alcuni Paesi e attraversa l’intera Europa comunitaria.

In realtà, tutti quanti patiscono di quest’uso del mondo esterno che non edifica nulla, che è praticato ai soli fini autoassolutori di politica interna, che celebra i riti di un antiamericanismo di maniera che è l’altro alibi dei politici impotenti. Ne patisce l’Europa, perché a forza di menzogne si finisce per perdere di vista quel che l’Unione in quanto tale può fare o non fare, quel che esiste già come Europa federale e quel che tuttora non esiste. Ne patiscono i governi e i politici nazionali, perché a forza di usare pretestuosamente il terrorismo o l’Europa o gli “amici vicini o lontani” finiscono col descrivere se stessi come autentici miserabili: governanti magari riottosi, ma del tutto incapaci e schiavi di forze esterne. E ne patiscono i cittadini europei, che vorrebbero correggere tutto questo, ma che vedono i propri stessi lamenti assunti da chi dovrebbe emendarsi, correggersi, senza giustificare le proprie stasi e omissioni.
Si è sostenuto che è significativo il volto che finisce per avere il mondo esterno nell’immaginario collettivo, quando questo è l’uso che se ne fa. Esso assume di volta in volta la faccia di Dio oppure del demonio: dell’unico grande demiurgo, dunque, in balia del quale ciascuno di noi si trova. Il terrorismo planetario ha il volto di Satana: Bin Laden cavalca bianchi cavalli dell’Apocalisse, è una piovra che si organizza e colpisce con tale precisione che solo una guerra infinita può fargli fronte. Il potere tecnocratico ha il volto di un Dio severo e onnipotente, contro il quale altra difesa non esiste che la lamentazione.
La fotografia di Jean-Claude Trichet, che di recente campeggiava sulla prima pagina del Financial Times, è un segno impressionante dei tempi che viviamo: il presidente della Banca centrale europea ha il dito puntato, come il Creatore di Michelangelo, sui tassi che forse si rialzano e forse no, e sul dito demiurgico pende una lampada che mima il sole acceso nella Genesi. Fiat lux: questa, l’immagine che abbiamo del superbanchiere di Francoforte e delle vilipese euro-burocrazie. Un’immagine divinizzata e demonizzata, che in apparenza prende su di sé tutte le responsabilità e lascia – a governanti e istituzioni nazionali – la dorata solitudine del potere e dei posti di comando senza responsabilità.

 

   
   
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