A questo servono le strategie
del lamento:
a dimettersi
dalle proprie
responsabilità, senza mai
sacrificare poteri
e poltrone.
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Di malattie dEuropa e di nefasti squilibri nel mondo si parla
molto da tempo, e in particolare da quando lUnione europea
e i suoi Stati non riescono a trovare il modo di dare al Vecchio
Continente sia i mezzi sia le istituzioni per poter decidere del
proprio destino. E a forza di parlarne senza soluzione di continuità,
è forte il rischio di perdere la bussola, di non sapere più
bene dove si trovi la realtà e dove si annidi limmaginario,
in che cosa consiste la verità e in che cosa la menzogna.
Sappiamo soltanto che lEuropa non è più divisa
tra le Superpotenze della Guerra fredda, che non ha più muri
né fili spinati, che dunque oggi le tocca agire con la testa
propria, e che le parole sui suoi mali e sui mali del mondo si sono
via via moltiplicate. Sicché sembra venuto il momento, per
i cittadini, di fermarsi un poco, e di riflettere, di pensare in
profondità tutte queste parole che sentiamo e che noi stessi
siamo portati a pronunciare.

È stato notato che siamo come immersi in una strana cultura
della lagnanza, che accomuna governanti e governati e da cui nessuno
ha desiderio effettivo di uscire. In quanto cittadini elettori,
riteniamo di essere autonomi e liberi quando denunciamo gli errori
o le mancanze dellEuropa o del mondo, ma ecco che ben presto
chi governa scimmiotta le nostre lamentele, cioè denuncia
lEuropa con lamentele straordinariamente simili alle nostre,
a quelle dei comuni cittadini.
In realtà, proprio noi abbiamo dato ai governi una magnifica
occasione per scaricare sul mondo esterno responsabilità
che sono in gran parte loro, sicché della nostra autonomia
e della nostra libertà rimane ben poco. In realtà,
siamo succubi di lamenti altrui, quando gemiamo sul mondo. Allunisono
con i governanti, difendiamo sovranità nazionali che il mondo
(la storia del mondo) ha già corroso, e rifiutiamo gli obblighi
di sovranità che invece restano ancora ben salde nelle mani
dei politici nazionali, e di noi che li eleggiamo o li licenziamo.
Questa tendenza è particolarmente forte in coloro i quali
non vogliono analizzare o correggere i propri errori, che non riescono
a riconquistare i consensi popolari perduti, e che nonostante tutto
ciò sono determinati a restare dove sono, senza consentire
alcun ricambio di persone (e persino di generazioni). Per far ciò
hanno deciso di usare lEuropa o il mondo allo stesso modo
in cui si usa un capro espiatorio. Se ci sono colpe nel modo in
cui sono stati governati i popoli, oppure leconomia, oppure
loccupazione, esse non hanno nulla a che vedere con i governi:
sono di volta in volta colpa delleuro, delle burocrazie di
Bruxelles, di élite globalizzate. Oppure sono colpa del terrorismo
e dello stesso popolo, che quando va alle urne può rivelarsi
sovranamente stupido o eversore. Dunque: colpa di tutti, tranne
dei governanti. A questo servono le strategie del lamento: a dimettersi
sistematicamente dalle proprie responsabilità, senza mai
sacrificare poteri e poltrone.
È bene chiarire che nellUnione non siamo i soli ad
accusare le istituzioni comunitarie di ogni male, compresi i mali
su cui Bruxelles non può decidere alcunché, perché
gli Stati glielo hanno impedito. Non siamo neppure i soli a raccontare
enormi menzogne, come dimostrano i lamenti continui di Chirac, anche
se noi ci distinguiamo nel denunciare crisi conseguenti all11
settembre, e poi (calato il silenzio, improvvisamente, sulle conseguenze
in Italia dellabbattimento delle Torri Gemelle) crisi determinate
dalleuro e dallaggressività delleconomia
cinese. Ma a questo punto abbiamo il diritto di chiedere: per quanto
tempo durerà il lamento su moneta unica e Cina, dopo che
è stato frettolosamente gettato alle ortiche quello sull11
settembre? E ancora: come mai alcuni Paesi dellUnione europea
(a cominciare dalla Germania, che è ridiventata campione
mondiale delle esportazioni) non hanno sofferto come noi delleuro
e della Cina?
Il vero male non è dunque nelle eurocrazie, anche perché
il mondo è difficile come quasi sempre lo è stato.
Il male risiede nelle politiche che sono fermamente interessate
a mantenere il potere e, simultaneamente, a sbarazzarsi delle responsabilità.
In questo, Francia e Italia si somigliano a tal punto che senza
alcuna fatica hanno scavalcato quel che in passato le aveva tanto
divise: dalla guerra in Iraq ai tratti di carattere e ai modi di
parlare. Oggi sono unite dalla comune propensione al lamento, dallunica
attitudine a cercare le cose del mondo più appropriate per
essere usate ai fini del potere. Cè stato un tempo
in cui l11 settembre spiegava ogni disastro. Poi, in rapida
sequenza, sono stati utilizzati: leuro, la Commissione europea,
lallargamento dellUnione, la guerra irachena, il negoziato
con la Turchia... Tutti questi eventi esterni stavano lì
per scagionare le crisi altrui, per essere presentati come mondi
di peccato e addirittura di storia. Le nostre e le altrui incapacità
a imparare qualcosa di costruttivo dai propri errori e dai propri
scacchi è allorigine della paralisi che oggi parte
da alcuni Paesi e attraversa lintera Europa comunitaria.
In realtà, tutti quanti patiscono di questuso del
mondo esterno che non edifica nulla, che è praticato ai soli
fini autoassolutori di politica interna, che celebra i riti di un
antiamericanismo di maniera che è laltro alibi dei
politici impotenti. Ne patisce lEuropa, perché a forza
di menzogne si finisce per perdere di vista quel che lUnione
in quanto tale può fare o non fare, quel che esiste già
come Europa federale e quel che tuttora non esiste. Ne patiscono
i governi e i politici nazionali, perché a forza di usare
pretestuosamente il terrorismo o lEuropa o gli amici
vicini o lontani finiscono col descrivere se stessi come autentici
miserabili: governanti magari riottosi, ma del tutto incapaci e
schiavi di forze esterne. E ne patiscono i cittadini europei, che
vorrebbero correggere tutto questo, ma che vedono i propri stessi
lamenti assunti da chi dovrebbe emendarsi, correggersi, senza giustificare
le proprie stasi e omissioni.
Si è sostenuto che è significativo il volto che finisce
per avere il mondo esterno nellimmaginario collettivo, quando
questo è luso che se ne fa. Esso assume di volta in
volta la faccia di Dio oppure del demonio: dellunico grande
demiurgo, dunque, in balia del quale ciascuno di noi si trova. Il
terrorismo planetario ha il volto di Satana: Bin Laden cavalca bianchi
cavalli dellApocalisse, è una piovra che si organizza
e colpisce con tale precisione che solo una guerra infinita può
fargli fronte. Il potere tecnocratico ha il volto di un Dio severo
e onnipotente, contro il quale altra difesa non esiste che la lamentazione.
La fotografia di Jean-Claude Trichet, che di recente campeggiava
sulla prima pagina del Financial Times, è un segno impressionante
dei tempi che viviamo: il presidente della Banca centrale europea
ha il dito puntato, come il Creatore di Michelangelo, sui tassi
che forse si rialzano e forse no, e sul dito demiurgico pende una
lampada che mima il sole acceso nella Genesi. Fiat lux: questa,
limmagine che abbiamo del superbanchiere di Francoforte e
delle vilipese euro-burocrazie. Unimmagine divinizzata e demonizzata,
che in apparenza prende su di sé tutte le responsabilità
e lascia a governanti e istituzioni nazionali la dorata
solitudine del potere e dei posti di comando senza responsabilità.
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