Dicembre 2005

Immigrati e domanda di credito

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Una banca
per il signor Habib
Alessandra Caggia  
 
 

 

 

Sebbene non si possano negare ampi segmenti
di marginalità
e povertà,
gli immigrati
producono reddito, generano
risparmio
e innescano
ingenti flussi
di rimesse.

 

Nella percezione comune l’immigrazione viene considerata un fenomeno emergenziale; è facile dimenticare che, una volta varcate le frontiere, gli immigrati lavorano e abitano con noi, producono beni e servizi indispensabili per il funzionamento della nostra società, ne consumano altri, nascono, muoiono, si sposano o intrecciano relazioni affettive con italiani o con altri stranieri, frequentano scuole e corsi di formazione, partecipano – anche se per ora quasi esclusivamente al di fuori dei canali istituzionali – alla vita politica del nostro Paese, sono protagonisti, o vittime, di conflitti sociali, religiosi o politici. In una parola: vivono.

Caratteristiche ed entità della presenza straniera in Italia

Alla stregua di tutti i Paesi industrializzati, l’Italia per la posizione geografica e per le caratteristiche socio-economiche esercita una sensibile attrazione nei confronti delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi sotto-sviluppati. L’Italia ha iniziato la propria carriera di Paese di immigrazione a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quasi senza rendersene conto e senza esservi preparata né dal punto di vista istituzionale né a livello sociale-culturale. E “noncuranza”, per non dire disattenzione, è stata per molto tempo la parola d’ordine.
Solo nella seconda metà degli anni Ottanta si percepiscono i primi sintomi di una svolta. Si comincia a chiedere agli esperti e alle istituzioni statistiche di spiegare quanti sono gli immigrati, si cerca ragionieristicamente di contarli, si formulano stime mirabolanti, espressive più dello sconcerto e dell’allarme sociale che il fenomeno suscita che dell’effettiva capacità di quantificare un universo così eterogeneo e sfuggente. L’immigrazione, come dimostrato anche da quest’ansia di quantificazione, viene percepita e affrontata da subito in termini di emergenza, come una calamità naturale imprevista e imprevedibile, che arriva dall’esterno in una società che ne farebbe assolutamente a meno. E tale approccio caratterizza ancora oggi parte della nostra popolazione.
In Italia le politiche migratorie sono ancora oggi oggetto di continui conflitti, nelle aule parlamentari come in tutta la società, e il nostro Paese è lungi dall’aver elaborato una dottrina chiara sulle politiche d’integrazione. In realtà, l’elemento inconfutabile è che la presenza straniera è ormai una componente ineliminabile e una caratteristica strutturale della società italiana e tale constatazione dovrebbe bastare a convincere della necessità di affrontare la questione con maggiore incisività.
Il fenomeno dell’immigrazione in Italia ha conosciuto un intenso e costante andamento positivo negli ultimi anni, tanto che i dati più recenti stimano una presenza pari a 2,7 milioni di immigrati alla fine del 2004, pari a circa il 4,6% della popolazione residente nel nostro Paese.

Ai cittadini immigrati e alle famiglie presenti attualmente sul territorio nazionale occorre aggiungere anche coloro che soggiornano senza regolare permesso: le stime sono in questo caso più difficoltose e si va dalle 200.000 presenze irregolari segnalate dalla Fondazione ISMU alle 600.000 dei sindacati e alle 800.000 rilevate dall’Eurispes. La distribuzione degli immigrati sul territorio italiano riflette le caratteristiche socio-economiche e il grado di sviluppo economico-industriale delle differenti macroaree: circa il 58% degli immigrati, infatti, si concentra al Nord, dove il sistema economico è innegabilmente più maturo ed è maggiore il numero di opportunità occupazionali. Il Centro ospita circa il 28% degli immigrati, mentre al Sud e nelle Isole si stabilisce solo il 15% del totale, un numero significativo ma residuale. Probabilmente un dato di questo tipo è riconducibile al fatto che nel Mezzogiorno è molto elevata la presenza degli irregolari, i quali, comprensibilmente, non sono contemplati nelle statistiche.
Caratteristico del nostro Paese è poi un trend in crescita negli ultimi anni della componente femminile (dal 46,7% nel 2001 al 48,4% nel 2003), indicatore di stabilizzazione del flusso migratorio. Le donne, infatti, tendono ad arrivare solo in un secondo momento, quando gli uomini sono sufficientemente stabilizzati e integrati nel Paese di arrivo per poter sostenere un ricongiungimento familiare. La forte presenza, poi, di immigrati coniugati (circa la metà) rafforza ulteriormente l’ipotesi che quella italiana sia una tipologia di progetto migratorio meno “avventuroso” e tendenzialmente definitivo.

L’orizzonte temporale di lungo termine e le caratteristiche di stabilità che caratterizzano il progetto della maggior parte degli immigrati vengono confermati dalle motivazioni per cui essi hanno ottenuto la regolarizzazione. Il 90,4% di essi è, infatti, presente in Italia per motivi di lavoro (66,1%) o per motivi di famiglia (24,3%). Non bisogna tuttavia dimenticare che l’analisi dei motivi per cui il permesso di soggiorno è stato rilasciato è in grado di cogliere solo parzialmente le ragioni dell’immigrazione. In parte perché le ragioni ufficiali difficilmente coincidono con quelle dei protagonisti, in parte perché a volte i requisiti per l’accesso alle sanatorie, che costituiscono ad oggi uno dei principali canali di ammissione legale nel nostro Paese, spingono i richiedenti a presentare motivazioni coerenti con tali requisiti.
Infine, per quanto concerne la provenienza degli immigrati, un’ipotetica classifica dei Paesi europei maggiormente rappresentati vede sul podio Romania (circa 240.000 presenze) e Albania (circa 230.000 presenze), certamente vicine geograficamente e forse anche socio-culturalmente, seguite da Ucraina, Polonia, ex Jugoslavia e Moldavia con un numero di immigrati sensibilmente inferiore.
Il secondo gruppo è costituito dagli immigrati provenienti dall’Africa, e in particolare da Marocco (circa 235.000 presenze), Tunisia, Egitto e Senegal; mentre l’Asia si colloca al terzo posto con la presenza di quasi 100.000 immigrati cinesi, 70.000 filippini e gruppi di circa 30-40.000 unità di indiani, pakistani e abitanti dello Sri-Lanka e del Bangladesh. Il continente americano, infine, registra una presenza di immigrati inferiore (circa 250.000), ma in crescita.
Un altro elemento che contribuisce ad una migliore comprensione del fenomeno migratorio e delle sue dinamiche è rappresentato dalla coesione più o meno stretta dei gruppi immigrati che non ha, però, soltanto effetti positivi: la relativa facilità a trovare lavoro in un certo ambiente, grazie all’aiuto di parenti e compaesani, rischia di produrre una sorta di colonizzazione. Si forma cioè, nel sentire comune, uno stereotipo che associa gli immigrati di una determinata provenienza ad un certo tipo di lavoro, con un inquietante appiattimento delle differenze, delle esperienze pregresse, delle effettive attitudini e delle aspirazioni (ad esempio, ad una donna filippina o latino-americana o slava, indipendentemente dal titolo di studio e dalle competenza professionali, il mercato del lavoro offre quasi soltanto lavori domestici o di assistenza). L’aspetto critico è che queste tipizzazioni, consentendo un risparmio di tempo e di energie in sede di selezione, facilitano e in seguito rafforzano la penetrazione in una certa nicchia occupazionale, ma compromettono i tentativi di diversificazione e di miglioramento professionale. Le specializzazioni etniche si configurano dunque come un’arma a doppio taglio, che rischia di creare una trappola occupazionale a cui concorrono involontariamente gli stessi immigrati.

Imprenditorialità immigrata:
peculiarità e rapporti con il sistema bancario

Nel valutare il rapporto tra sistema creditizio e mondo dell’immigrazione va tenuta in evidenza la crescente attitudine ad intraprendere iniziative imprenditoriali, che costituisce già da qualche anno uno degli elementi che caratterizzano maggiormente l’evoluzione del rapporto tra immigrati e inserimento lavorativo. Questa tendenza è il segno inequivocabile di un cambiamento nel ruolo del lavoratore immigrato, tradizionalmente legato al lavoro subordinato, e ora sempre più orientato verso una scelta indipendente, dettata dalla volontà di ottenere un inserimento stabile e un miglioramento professionale.

In Italia, in particolare, ciò che più colpisce è la rapidità con la quale il fenomeno dell’imprenditoria immigrata si sta diffondendo e il ruolo fondamentale che questa va assumendo nello sviluppo della microimprenditorialità e del sistema produttivo locale e nazionale. A spiegare il passaggio degli immigrati al lavoro indipendente concorre una molteplicità di motivazioni, non sempre tenute nel giusto conto ogni qualvolta si effettuano delle analisi del fenomeno. Tra queste, la considerazione che in sistemi economico-produttivi nei quali le imprese si smagriscono, si decentrano e sono sempre più orientate all’esternalizzazione, cresce non solo la richiesta di lavoro povero in posizioni subalterne ma anche lo spazio per piccole imprese e lavoratori autonomi disposti ad entrare in attività che generalmente presentano basse barriere all’ingresso, modeste dotazioni tecnologiche, scarsi margini di profitto, alti rischi di insuccesso e in cui la competizione si basa in ampia misura sulla capacità di tener bassi i costi, per primo quello del lavoro, sui lunghi orari, sulla versatilità e la disponibilità verso le esigenze dei clienti.
E per gli immigrati avviare una piccola attività cui dedicarsi senza risparmio di tempo e di fatica, investendo risparmi e speranze, rappresenta un traguardo ambito e un orizzonte di promozione sociale. Proprio il contrario di quanto avviene per i lavoratori autoctoni, maggiormente attratti da occupazioni più sicure e gratificanti.
Emerge così un’imprenditorialità povera che risponde alle esigenze delle comunità locali (servizi di pulizia, sorveglianza, manutenzione urbana, ristrutturazioni edili, disinfestazioni, trasporti) come pure a quelle delle fasce professionali ad alta qualificazione, composte soprattutto da singoli e famiglie in cui entrambi i coniugi sono impegnati nel lavoro extradomestico (assistenza, manutenzione dell’abitazione, piccolo commercio, servizi di taxi, sostituzione di molte attività svolte un tempo dalle mogli-madri). Senza dimenticare la domanda di servizi da parte degli stessi immigrati e delle loro famiglie (è il caso, ad esempio, dei phone-center).
Sebbene varie ricerche abbiano documentato che gli immigrati sono spesso dotati di livelli di istruzione e competenze professionali più elevate della forza lavoro italiana che svolge le medesime occupazioni, è purtroppo innegabile che «nell’immaginario collettivo l’accesso a posizioni socialmente svalutate e oggetto di crescente rifiuto da parte degli italiani resta il massimo che si è normalmente disposti a concedere a un immigrato terzomondiale».
In altre parole, il tacito presupposto dell’accettazione degli immigrati sui luoghi di lavoro è quello dell’integrazione subalterna: l’immigrato è accolto senza troppe resistenze, a patto che si accontenti dell’ultimo posto, si metta in coda e non pensi di entrare in competizione per occupare posizioni ambite dai lavoratori nazionali. Il passaggio quindi dal lavoro dipendente a quello in proprio, magari nel medesimo settore produttivo per valorizzare l’esperienza maturata on the job, evidenzia nella maggior parte dei casi l’aspirazione a una crescita professionale e sociale e rappresenta per gli immigrati una strada per sfuggire a quei processi di dequalificazione di cui sono più o meno esplicitamente vittime e che rendono oltremodo gravoso il miglioramento della propria condizione occupazionale attraverso le normali carriere gerarchiche.
Le imprese immigrate organizzano la loro attività quotidiana sulla base di forme di collaborazione prestate essenzialmente da familiari, parenti e amici, sia in maniera occasionale che più stabile: tali collaboratori si affiancano al titolare che rimane, per circa la metà delle imprese, anche l’unico lavoratore ufficiale. Per l’altra metà delle imprese, il numero dei collaboratori oscilla mediamente da 1-2 a 8-10, ai quali si aggiungono, anche in questo caso, i collaboratori saltuari, fino ad arrivare ad un totale di anche 50 dipendenti.
In rapporto al mercato interno, infine, si rileva un’interazione piuttosto scarsa, da parte degli imprenditori immigrati, sia con le imprese limitrofe che con enti politici e istituzioni sociali locali: se si esclude la Camera di Commercio (i cui contatti si limitano generalmente alla registrazione iniziale), infatti, l’unico ente con cui gli imprenditori immigrati si confrontano è la banca.

Banche e immigrati:
un dialogo avviato ma ancora difficoltoso

Tra le difficoltà di maggior peso viene il più delle volte annoverata la scarsità di mezzi economici, finanziamenti, agevolazioni bancarie e prestiti: si tratta di una circostanza che rende oltremodo gravosa la fase di avvio e la vita successiva dell’impresa (sovente ugualmente possibili grazie al supporto della rete familiare e parentale o con l’autofinanziamento derivante dai risparmi di lavoro), ma che soprattutto, in molti casi, impedisce la crescita e il rafforzamento/allargamento dell’attività intrapresa.

«La bancarizzazione e l’utilizzo dei servizi offerti dalle banche rappresentano una dimostrazione tangibile dell’inserimento dell’immigrato nel tessuto sociale e produttivo italiano, e sono un segnale di cittadinanza economica. […] Per i migranti, l’intermediazione della banca è indispensabile per la gestione del risparmio, per una sua valorizzazione in impieghi utili e produttivi nei diversi territori coinvolti dalle migrazioni». In questi termini recentemente si è espresso Giuseppe Zadra, direttore generale ABI, al convegno promosso da ABI e CeSPI su “Migrant Banking in Italia”.
In realtà, il rapporto della clientela immigrata con la banca si limita, per ora, sostanzialmente ai servizi definibili ordinari: aperture di conti correnti, libretti di risparmio, cambio di valuta, rimesse di soldi all’estero, prestiti e mutui per l’acquisto della casa. In verità, è innegabile che il sistema bancario sconta un certo ritardo sul versante della sensibilità ai mutamenti della clientela e il mancato pieno sviluppo di un’efficace strategia nei confronti del segmento di utenza potenziale costituito dagli immigrati è riconducibile a due ordini di ragioni: la questione della redditività e quella della fiducia.
La prima ha a che fare con l’iniziale sottostima delle capacità e potenzialità economiche della popolazione straniera. La seconda riguarda «una persistente diffidenza» nei confronti di tale tipologia di clienti, considerati «poco affidabili», sono sempre parole di Zadra, che non manca però di sottolineare come negli ultimi anni si stia assistendo ad un cambiamento di rotta, sia sotto il profilo della redditività sia sotto quello della fiducia.
Gli ostacoli maggiori si riscontrano certamente nell’accesso al credito, ove si consideri che: raramente è disponibile documentazione comprovante l’attività svolta e i redditi conseguiti; manca assolutamente una “storia” del rapporto; l’assenza di sostanza responsabile (mobiliare e/o immobiliare) si accompagna quasi sempre ad un’instabilità/indeterminatezza di alcuni elementi minimi richiesti dalle banche per l’avvio dei rapporti (residenza, domicilio...).
Sicuramente auspicabile in tale contesto sembra la possibilità di poter far ricorso a forme di garanzia collettiva (per es., consorzi fidi, fondi di garanzia istituiti a livello locale o provinciale) in grado di assicurare da un lato un accesso più “normale” al credito e dall’altro, anche come diretta conseguenza, una migliore integrazione e sviluppo sociale di tali fasce di popolazione.

Il credito agli immigrati: evidenze empiriche

Nonostante le difficoltà sopra evidenziate va però positivamente rilevato come la domanda di finanziamento proveniente dai cittadini stranieri residenti in Italia abbia presentato una dinamica significativa e crescente nel corso del periodo 2000-2004 e abbia avuto un andamento nettamente superiore rispetto a quella proveniente dalla clientela standard. Il tasso di variazione medio annuo registrato nel periodo è pari infatti al 51,6%, con una crescita eccezionale avutasi nel 2001 (+79,3%).
Come si evidenzia dai dati, è il comparto dei mutui a presentare i tassi di crescita più elevati: ciò è facilmente spiegabile, oltre che per la garanzia reale acquisita per tale operazione, anche per la stabilizzazione della permanenza in Italia e il processo di regolarizzazione che hanno reso possibili numerosi ricongiungimenti familiari, favorendo certamente la domanda di mutui immobiliari. Inoltre, è interessante notare che, in tale comparto del credito, la domanda straniera cresce con tassi di variazione superiori rispetto alla domanda italiana: nel 2004 gli immigrati rappresentano il 4,6% della popolazione italiana ma assorbono quasi il 6% del volume totale di finanziamento erogato.

La capacità di credito degli stranieri è aumentata grazie non solo al maggior numero di soggetti affidabili ma anche al miglioramento delle condizioni socio-economiche delle famiglie di stranieri. La maggiore integrazione sociale e la stabile permanenza in Italia, infatti, hanno gradualmente accresciuto il numero di famiglie che hanno requisiti simili alla clientela italiana. Parallelamente, gli intermediari finanziari stanno iniziando a superare molteplici perplessità circa il comportamento creditizio degli stranieri e tutto ciò ha permesso una crescita progressiva sia degli importi sia della durata media dei finanziamenti, che ha riguardato in maniera generalizzata i mutui come il credito al consumo.

Migrant Banking: una rassegna casistica

Per concludere, può essere utile dare conto di una serie di iniziative – tra quelle più significative – che alcune banche italiane hanno avviato a sostegno dei lavoratori immigrati. In particolare:


Gruppo SanPaolo IMI
Accordi di cooperazione con banche dei Paesi di origine delle popolazioni immigrate e creazione, all’interno di una filiale localizzata in uno dei quartieri di Torino con la più alta densità di extracomunitari, di uno sportello multietnico con personale che parla arabo, cinese, inglese e francese, e di uno spazio di accoglienza con segnaletica in cinque lingue e volantini disponibili in otto lingue.


Banca Popolare di Milano

Ha attivato Conto Extrà, un “conto base” che, oltre ai normali servizi predisposti per tutta la clientela, offre al titolare condizioni particolarmente convenienti per inviare denaro all’estero. Ha creato, insieme con Unicredit e Deutsche Bank, un fondo di garanzia che eroga prestiti ad immigrati che vogliano avviare un’attività autonoma (per un massimo di 7.500 euro, rimborsabili in tre anni ad un tasso del 2,5%). In questa attività di microcredito è coinvolta la Fondazione San Carlo di Milano.

Banca Popolare di Bergamo
Ha avviato dal 2003 un progetto denominato “Welcome”, che ha l’obiettivo principale di capire e individuare le esigenze e le difficoltà che un immigrato presenta nei confronti della banca. L’iniziativa più rilevante è stata la creazione di uno sportello “pilota” (peraltro posizionato in una zona della città ad alta concentrazione di presenza/transito di immigrati) dove opera una persona straniera, in grado di parlare più lingue, che offre consulenza specifica.

Banca Sella
Oltre ad aver creato dei conti “dedicati” agli immigrati, offre istruzioni in francese, inglese e tedesco alla voce “servizi bancari per l’immigrato”.

Banca Popolare Pugliese
Ha attivato il prodotto “Everywhere”: si tratta di un pacchetto di servizi bancari per i lavoratori stranieri che comprende: Carta Eura, la carta di credito ricaricabile, che consente di prelevare il contante nella valuta del Paese in cui si effettua l’operazione, Bancomat, conto corrente, libretto di deposito e un servizio per l’invio di denaro all’estero.
La Banca Popolare Pugliese, inoltre, ha già avviato un progetto di microcredito (in collaborazione con una cooperativa leccese composta da extracomunitari e personale impegnato nel campo del sociale), per finanziare l’attività di ambulanti di nazionalità senegalese con l’erogazione di piccoli prestiti.

Cassa di Risparmio di Genova (Carige)
È stata la prima banca in Italia ad aprire in via Gramsci, nel cuore di Genova, quasi dieci anni fa, uno sportello dedicato agli stranieri residenti in città e ad offrire assistenza e consulenza per l’accesso ai servizi bancari, specialmente i mutui sulla casa.

Conclusioni

L’immigrazione è un fenomeno in crescita con cui ormai – al di là delle emergenze e dei periodici allarmi collegati agli sbarchi clandestini sulle nostre coste – si deve fare i conti quale componente strutturale del nostro Paese e del suo sistema produttivo. Allo stesso modo, fenomeno strutturale sta diventando l’imprenditorialità immigrata, che tende ad assumere una dimensione economica sempre più rilevante. Tuttavia, le pagine di cronaca testimoniano come l’immigrato sia ancora, il più delle volte, wanted but not welcome: la profittabilità della sua presenza economica, di lavoratore debole, si scontra infatti, il più delle volte, con la non accettazione della sua presenza sociale. Il fatto che provenga da un Paese povero e collocato ad un livello inferiore in un’ipotetica graduatoria dello sviluppo lo rende lavoratore disponibile a occupazioni insalubri e precarie, ma diventa poi un fattore che lo fa rifiutare come vicino di casa, come frequentatore dello stesso bar, o come amico personale. Sebbene non si possano negare ampi segmenti di marginalità e povertà, gli immigrati producono reddito, generano risparmio e innescano ingenti flussi di rimesse.
Rispetto a ciò, dunque, le banche sono direttamente interpellate e difatti hanno cominciato da qualche tempo ad interrogarsi attivamente sui problemi e le esigenze di questo nuovo segmento di clientela. Resta aperta, dunque, la sfida all’ideazione di un’offerta strutturata e organica da parte del sistema bancario, che sia sufficientemente mirata all’utenza immigrata senza per questo provocarne una sorta di ghettizzazione. Servono creatività e competenza; è indispensabile un cambiamento culturale che coinvolga anche il personale operante in banca; è necessaria un’unitarietà di intenti e di sforzi tra banche e altre istituzioni e associazioni, in particolare nell’area del non profit.

 

   
   
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