Dicembre 2005

Realtà italiana

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È declino,
ottimismo a parte
S.B. - M.B.  
 
 

 

 

La perdita di
competitività
dell’Italia e delle imprese italiane non va attribuita né all’euro
né alla Cina,
ma alle nostre
responsabilità
e ai nostri difetti.

 

Mentre il Vecchio Continente continua a rallentare, l’Italia è praticamente ferma. L’unico modo di ancorare i dibattiti in corso alla cruda realtà della congiuntura è quello di far capo ai dati del Rapporto Efn-Euroframe, il network che aggrega i dieci maggiori istituti di analisi economiche d’Europa. Da un lato, l’intero Continente paga caro a breve termine il rialzo del petrolio, riducendo le previsioni di crescita del 2005 di almeno due o tre decimali di punto percentuale e si prepara a convivere con un prezzo del barile di greggio stabilmente sopra i 60 dollari. Dall’altro, l’Italia è destinata ad accentuare il suo distacco dall’Unione europea, dopo che per un certo periodo era riuscita – in virtù della comune stagnazione, e non per propria creatività – a mantenersi non molto distante dalla media europea. Infatti, sebbene la previsione 2005 per Eurolandia parli di un magro +1,2 per cento, noi, con un Prodotto interno lordo a crescita zero, denunciamo uno scarto del 100 per cento dai nostri partner continentali. Meglio fanno sia la Germania, che pure con lo 0,8 per cento rimane sotto la media, sia la Francia, che con l’1,5 per cento di crescita starà sopra la media.
Ma quel che è più preoccupante è che il distacco è destinato a mantenersi anche nei prossimi due anni, nonostante la tanto sbandierata “ripresina” (che, a quanto pare, ci farà soltanto uscire dalla recessione per riportarci nella precedente stagnazione). Infatti i Paesi della zona euro chiuderanno il 2006 con un Pil aumentato dell’1,8 per cento, e il 2007 con un +2 per cento (sempre scontando il petrolio a oltre 60 dollari). Con la Germania ancora un poco sotto la media, e la Francia un poco sopra. Per quel che ci riguarda, il distacco sarà del 50 per cento l’anno prossimo (+0,9 per cento, esattamente la metà della media di Eurolandia) e del 40 per cento in quello successivo (sempre 9 decimi di punto, ma +1,1 contro +2 per cento).
Insomma, sia perché la delocalizzazione dell’industria tedesca ha consentito di sostituire il “made in Germany” con il più vantaggioso “made by Germany”, facendo balzare in avanti l’export e scaricando sul welfare il surplus di disoccupazione prodotto; sia perché la Francia sostiene i consumi interni, mentre converte il suo manifatturiero; sia infine perché la bolletta petrolifera per l’Italia è più cara (nessuno dipende da greggio e gas all’80 per cento, come noi): sta di fatto che il declino tricolore è destinato ad allargare il solco che ci divide dal resto d’Europa. E considerato che l’economia continentale continua ad essere nel suo complesso debole, incapace di rompere l’asse tra Asia e Stati Uniti che guida lo sviluppo planetario, quella italiana appare una condizione ancora più preoccupante. E se le stime di Efn saranno confermate, l’Italia chiuderà il periodo 2001-2007 con una crescita complessiva del 5,7 per cento, con una media annuale dello 0,8 per cento. Per sette anni di seguito. Altro che crisi congiunturale, altro che ostentazioni di ottimismo. È necessario che il dibattito politico riparta da un dato di fatto: il declino non è un’invenzione, stiamo perdendo la partita della competizione globale, e più tardi se ne prenderà atto e tanto più alto sarà il prezzo da pagare.

Non ci sono più alibi. Non abbiamo più scuse o attenuanti. Non possiamo più prendercela con la moneta unica. È stato scritto che l’euro è nudo come un “puer malitiosus et robustus”, non è il re borioso di cui parla la favola. È una moneta solida, trasparente, affidabile, base di riferimento dell’Ue per fondare politiche monetarie ed economiche assennate, non soggette agli eccessi di creatività e di superficialità congiunturale. L’euro ha molti nemici tra i fautori delle scorciatoie, quelli che enfatizzano la crescita americana e dimenticano il rigonfiamento di bolle speculative pericolose da parte del capo della Federal Reserve, Alan Greenspan.
In pochissimi anni l’euro si è rivelato valuta di riferimento dotata di forte reputazione per il mondo intero, al punto che viene accumulato nelle riserve nazionali a fianco del dollaro e in contrapposizione alla moneta americana. Le politiche monetarie espansive oltre la ragionevolezza e le proprie possibilità adottate dalle amministrazioni americane sotto l’egida di Greenspan hanno spinto la crescita Usa, amplificando deficit statali e commerciali, indebitamento delle famiglie e delle industrie. Hanno reso il dollaro una moneta volatile, strumento di potere degli Stati Uniti a spese della comunità internazionale.

Per alcuni, l’espansione economica è una variabile indipendente, a prescindere dalla qualità dello sviluppo, dai pesi che si caricano sulle spalle delle generazioni future, dei ceti sociali e delle nazioni più deboli. L’euro non viene usato dalla Banca centrale europea per drenare risorse dal mondo intero, remunerandole con delusioni e perdite, a favore della crescita economica dell’Unione europea, o per favorire le dissipazioni delle nazioni europee viziose. L’euro sostiene la reputazione e la credibilità di un sistema economico (e si spera anche politico, negli anni a venire) che si avvia a diventare punto di riferimento per il mondo intero. Riflettiamo senza pregiudizi, senza scambiare uno strumento con l’uso che se ne può fare con saggezza o con insipienza.
L’euro ha consentito alle nazioni europee virtuose di indirizzare le risorse per incrementare produttività e competitività, per investire nelle innovazioni e nelle modernizzazioni, per conquistare nuove quote di commercio internazionale. L’euro tuttavia ha rappresentato un ancoraggio sicuro anche per le nazioni viziose, contribuendo a contenere l’inflazione, a mantenere buoni i giudizi delle società di valutazione e quindi i tassi di interesse a livelli bassi, facilitando il contenimento dei deficit e dell’indebitamento senza impedire politiche d’investimento e di sviluppo. Non è certo una pozione magica. Ma sono assurde e fuorvianti le sgradevoli intemperanze, scomposte nella forma e ingannevoli nella sostanza, consumate anche in sedi europee contro la moneta unica; manifestazioni di isterica ignoranza che fanno il paio con quelle contro la Cina: vie di fuga per confondere le acque, per distogliere l’attenzione dalla realtà, per comportamenti irrazionali che tentano di coprire errori nelle politiche economiche e industriali.
La perdita di competitività dell’Italia e delle imprese italiane non va attribuita né all’euro né alla Cina, e meno che mai al Trattato di Maastricht, ma alle nostre responsabilità e ai nostri difetti. Non è colpa dell’euro se l’Italia non ha raggiunto gli obiettivi di crescita indicati dal governo, se tante attese sono state deluse o frustrate. Sostengono esponenti del board della Banca centrale europea: «Coloro i quali accusano euro e Cina cercano soltanto di perdere tempo e di trovare capri espiatori. Germania e Francia hanno mantenuto la loro competitività. E non è vero che il cambio della lira sia oggi sfavorevole: siamo a 1.600 lire per dollaro, come dopo il crollo della lira nello Sme».
Ecco: gli ottimismi di maniera sono pericolosi. Tutti dovrebbero dire al Paese parole di verità, non illustrare sogni, o scambiare aspirazioni con obiettivi concreti, o creare falsi nemici e alimentare illusioni, perché tutto questo è diseducativo, comprime la voglia di fare, mortifica le energie indispensabili per risalire la china. L’ottimismo smentito dalla realtà favorisce reazioni pericolosamente negative, poi genera assuefazione. E non può essere questo il sogno italiano.

 

   
   
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