Dicembre 2005

Se aumenta la sfiducia

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Imprese fuori mercato
Giorgio Biraghi  
 
 

 

 

In cinque anni,
accusano altri, non siamo neanche riusciti
a imporre un
dibattito sulla
politica industriale necessaria
all’Italia.

 

Ad interrogarsi sul futuro dopo il crollo delle esportazioni che ha causato una stagnazione che dura ormai da oltre due anni è il mondo che fino a non molto tempo fa ha prodotto ricchezza e benessere nel nostro Paese, grazie alle piccole e medie imprese che fecero scuola non soltanto in Europa. Cioè quel mondo oggi fatto di industriali assediati dal cambio che ritengono vessatorio, di uomini politici che sotto sotto sarebbero disposti a reclamare il ritorno alla vecchia lira, di economisti che scrutano il futuro del tessuto industriale nazionale.
Secondo i dirigenti delle associazioni imprenditoriali, né l’euro né la Cina sono la causa reale della crisi delle esportazioni: coloro i quali accusano la moneta unica e Pechino cercano soltanto di perdere tempo e di trovare dei capri espiatori. E facendo ricorso a cifre e tabelle, sostengono: la colpa è di un sistema industriale troppo posizionato nei settori maturi che stanno andando fuori mercato, e di un sistema di relazioni industriali vecchio, molto centralizzato, che sembra essere tornato a ragionare con le logiche della vecchia scala mobile.

Uno dopo l’altro, i giudizi distruggono – cifre alla mano – non poche interpretazioni e mettono a nudo la situazione unica dell’Italia in Europa. Che viene così riassunta: dopo l’adozione dell’euro, la Germania e la Francia hanno mantenuto la propria competitività; e non è per nulla vero che il cambio della lira sia oggi per noi sfavorevole: siamo a 1.600 lire per dollaro, cioè siamo tornati ai tempi del dopo crollo della lira nello Sme (il vecchio Sistema monetario europeo).
La verità è un’altra: è che noi abbiamo perso competitività, il nostro costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre venti punti, mentre negli altri Paesi è rimasto stabile, e infine noi abbiamo perso importanti quote di mercato non soltanto in Europa e in genere in Occidente, ma anche in Cina. E a rimetterci è stato l’intero sistema produttivo nazionale, fatto sostanzialmente di piccole e medie aziende che oggi, se intendono sopravvivere, devono necessariamente riposizionarsi.
Ciò significa che imprenditori e sindacati debbono costruire un sistema di relazioni industriali flessibile, dove il salario sia legato agli aumenti di produttività: chi va bene guadagna, chi perde sta fermo: questa è la regola del mercato e della competitività, alla quale è impossibile sfuggire.

Un po’ di cifre, confrontate con quelle di Germania e Francia e della media europea. Il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2000 al 2004 è cresciuto in Italia del 3 per cento, mentre in Francia è diminuito dello 0,6 (come in Germania), e nell’area euro è cresciuto soltanto dello 0,4 per cento. Il costo del lavoro per dipendente nello stesso periodo è cresciuto in Italia del 2,9 per cento, contro il 2,5 della Francia e il 2,3 della Germania. Nell’area euro è aumentato del 2,7 per cento, cioè sempre e comunque meno che nel nostro Paese.
Le polemiche certamente non mancano. Così, mentre c’è chi sostiene che buona parte della colpa va attribuita anche ai sindacati, «che in Italia sono ancora marxisti», qualcuno risponde alle accuse di immobilismo degli industriali, sostenendo che nell’ultimo anno le nostre imprese hanno reagito con coraggio e hanno cominciato ad essere più innovative e a trasformare l’intero sistema. C’è tuttavia chi ribatte che troppi attori non hanno cambiato di fatto comportamenti, mentre da troppo tempo e da un gran numero di governi l’impresa non è al centro dell’interesse del Paese. In cinque anni, accusano altri, non siamo neanche riusciti a imporre un dibattito sulla politica industriale necessaria all’Italia. E per questa ragione l’industria è ancora in mezzo al guado di una crisi di trasformazione.
Guai, dunque, ad abbandonarsi al pessimismo e alla sfiducia, che metterebbero a soqquadro quella coesione sociale che era stato uno dei motivi di fondo del successo italiano. L’Italia, fra l’altro, ha ancora un’economia dalle grandi potenzialità: un patchwork cucito insieme negli anni spontaneamente, che si deve trasformare, come sembra si stia trasformando, sia pure lentamente, in un nuovo tessuto tecnico.
Un economista osservava di recente che in questo nostro Paese tutto funziona a modo proprio, a volte come una variabile indipendente (che in realtà può anche voler dire “impazzita”) del sistema planetario. Noi – ha sostenuto – abbiamo insegnato che gli equilibri si formano sui mercati finanziari basandosi sulla reputazione, che nel mondo globale della finanza la lingua di lavoro è quella inglese, che ciò che conta sui mercati è la parola data, nel rispetto della legge. Dopo di che, si scopre che da noi è vero esattamente il contrario: il linguaggio più usato è l’italiano dialettale della provincia; le regole più rispettate sono quelle dell’amicizia e della famiglia (politica e non); le leggi sono ricordate soprattutto per aggirarle...
Resta un fatto degno di nota, cioè «l’insopportabile odore di provincialismo» che emana da tutto questo. E le conseguenze che ne derivano sono in linea con la nostra mancata comprensione di come oggi funziona il mondo. L’economista osserva infatti che da anni abbiamo imparato tre cose:

– Si cresce con i soldi degli altri. Tutti i Paesi che vogliono crescere e svilupparsi senza soluzione di continuità fanno ricorso al risparmio altrui. Dagli Stati Uniti alla Spagna, dall’Irlanda alla Cina: il ruolo degli investimenti esteri è sempre importante, quando non decisivo, a dispiegare le migliori performances.

– Chi non attira, non trattiene. Nel mondo ritornato globale, agevolare il capitale altrui aiuta anche a capire come favorire il proprio investimento.

– Per avere i benefici dell’euro servono (anche) banche e imprese europee, senza le quali una parte almeno di quei benefici vanno a farsi benedire.

È anche per questo che il peccato di provincialismo è oggi così grave. Poteva far comodo dire che ad impoverirci è l’euro. Come può far comodo oggi scaricare le colpe per gli errori commessi nel passato anche recente. Ma se vogliamo imparare la lezione giusta, allora dobbiamo cominciare a riconoscere che è il nostro provincialismo allo stato delle cose a impedire al Paese di crescere. Non alle nostre aziende migliori, che infatti crescono ovunque, meno che in Italia.

 

   
   
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