In cinque anni,
accusano altri, non siamo neanche riusciti
a imporre un
dibattito sulla
politica industriale necessaria
allItalia.
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Ad interrogarsi sul futuro dopo il crollo delle esportazioni che
ha causato una stagnazione che dura ormai da oltre due anni è
il mondo che fino a non molto tempo fa ha prodotto ricchezza e benessere
nel nostro Paese, grazie alle piccole e medie imprese che fecero
scuola non soltanto in Europa. Cioè quel mondo oggi fatto
di industriali assediati dal cambio che ritengono vessatorio, di
uomini politici che sotto sotto sarebbero disposti a reclamare il
ritorno alla vecchia lira, di economisti che scrutano il futuro
del tessuto industriale nazionale.
Secondo i dirigenti delle associazioni imprenditoriali, né
leuro né la Cina sono la causa reale della crisi delle
esportazioni: coloro i quali accusano la moneta unica e Pechino
cercano soltanto di perdere tempo e di trovare dei capri espiatori.
E facendo ricorso a cifre e tabelle, sostengono: la colpa è
di un sistema industriale troppo posizionato nei settori maturi
che stanno andando fuori mercato, e di un sistema di relazioni industriali
vecchio, molto centralizzato, che sembra essere tornato a ragionare
con le logiche della vecchia scala mobile.

Uno dopo laltro, i giudizi distruggono cifre alla
mano non poche interpretazioni e mettono a nudo la situazione
unica dellItalia in Europa. Che viene così riassunta:
dopo ladozione delleuro, la Germania e la Francia hanno
mantenuto la propria competitività; e non è per nulla
vero che il cambio della lira sia oggi per noi sfavorevole: siamo
a 1.600 lire per dollaro, cioè siamo tornati ai tempi del
dopo crollo della lira nello Sme (il vecchio Sistema monetario europeo).
La verità è unaltra: è che noi abbiamo
perso competitività, il nostro costo del lavoro per unità
di prodotto è aumentato di oltre venti punti, mentre negli
altri Paesi è rimasto stabile, e infine noi abbiamo perso
importanti quote di mercato non soltanto in Europa e in genere in
Occidente, ma anche in Cina. E a rimetterci è stato lintero
sistema produttivo nazionale, fatto sostanzialmente di piccole e
medie aziende che oggi, se intendono sopravvivere, devono necessariamente
riposizionarsi.
Ciò significa che imprenditori e sindacati debbono costruire
un sistema di relazioni industriali flessibile, dove il salario
sia legato agli aumenti di produttività: chi va bene guadagna,
chi perde sta fermo: questa è la regola del mercato e della
competitività, alla quale è impossibile sfuggire.

Un po di cifre, confrontate con quelle di Germania e Francia
e della media europea. Il costo del lavoro per unità di prodotto
dal 2000 al 2004 è cresciuto in Italia del 3 per cento, mentre
in Francia è diminuito dello 0,6 (come in Germania), e nellarea
euro è cresciuto soltanto dello 0,4 per cento. Il costo del
lavoro per dipendente nello stesso periodo è cresciuto in
Italia del 2,9 per cento, contro il 2,5 della Francia e il 2,3 della
Germania. Nellarea euro è aumentato del 2,7 per cento,
cioè sempre e comunque meno che nel nostro Paese.
Le polemiche certamente non mancano. Così, mentre cè
chi sostiene che buona parte della colpa va attribuita anche ai
sindacati, «che in Italia sono ancora marxisti», qualcuno
risponde alle accuse di immobilismo degli industriali, sostenendo
che nellultimo anno le nostre imprese hanno reagito con coraggio
e hanno cominciato ad essere più innovative e a trasformare
lintero sistema. Cè tuttavia chi ribatte che
troppi attori non hanno cambiato di fatto comportamenti, mentre
da troppo tempo e da un gran numero di governi limpresa non
è al centro dellinteresse del Paese. In cinque anni,
accusano altri, non siamo neanche riusciti a imporre un dibattito
sulla politica industriale necessaria allItalia. E per questa
ragione lindustria è ancora in mezzo al guado di una
crisi di trasformazione.
Guai, dunque, ad abbandonarsi al pessimismo e alla sfiducia, che
metterebbero a soqquadro quella coesione sociale che era stato uno
dei motivi di fondo del successo italiano. LItalia, fra laltro,
ha ancora uneconomia dalle grandi potenzialità: un
patchwork cucito insieme negli anni spontaneamente, che si deve
trasformare, come sembra si stia trasformando, sia pure lentamente,
in un nuovo tessuto tecnico.
Un economista osservava di recente che in questo nostro Paese tutto
funziona a modo proprio, a volte come una variabile indipendente
(che in realtà può anche voler dire impazzita)
del sistema planetario. Noi ha sostenuto abbiamo insegnato
che gli equilibri si formano sui mercati finanziari basandosi sulla
reputazione, che nel mondo globale della finanza la lingua di lavoro
è quella inglese, che ciò che conta sui mercati è
la parola data, nel rispetto della legge. Dopo di che, si scopre
che da noi è vero esattamente il contrario: il linguaggio
più usato è litaliano dialettale della provincia;
le regole più rispettate sono quelle dellamicizia e
della famiglia (politica e non); le leggi sono ricordate soprattutto
per aggirarle...
Resta un fatto degno di nota, cioè «linsopportabile
odore di provincialismo» che emana da tutto questo. E le conseguenze
che ne derivano sono in linea con la nostra mancata comprensione
di come oggi funziona il mondo. Leconomista osserva infatti
che da anni abbiamo imparato tre cose:
Si cresce con i soldi degli altri. Tutti i Paesi che vogliono
crescere e svilupparsi senza soluzione di continuità fanno
ricorso al risparmio altrui. Dagli Stati Uniti alla Spagna, dallIrlanda
alla Cina: il ruolo degli investimenti esteri è sempre importante,
quando non decisivo, a dispiegare le migliori performances.
Chi non attira, non trattiene. Nel mondo ritornato globale,
agevolare il capitale altrui aiuta anche a capire come favorire
il proprio investimento.
Per avere i benefici delleuro servono (anche) banche
e imprese europee, senza le quali una parte almeno di quei benefici
vanno a farsi benedire.
È anche per questo che il peccato di provincialismo è
oggi così grave. Poteva far comodo dire che ad impoverirci
è leuro. Come può far comodo oggi scaricare
le colpe per gli errori commessi nel passato anche recente. Ma se
vogliamo imparare la lezione giusta, allora dobbiamo cominciare
a riconoscere che è il nostro provincialismo allo stato delle
cose a impedire al Paese di crescere. Non alle nostre aziende migliori,
che infatti crescono ovunque, meno che in Italia.
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