Non a caso si parlò di frontiera
degli anni
Ottanta con il Mezzogiorno
italiano non più lasciato alla
deriva, ma
protagonista della politica di sviluppo nellarea
mediterranea.
|
|
Il malessere meridionale indicato eufemisticamente dalla forbice
che divide il Nord dal Sud trova ulteriori conferme nei dati del
sommerso, il lavoro illegale radiografato dalla Svimez: nelle regioni
meridionali un lavoratore su quattro è in nero, a conferma
che la più antica piaga che ha riguardato la storia economica
del Sud è anche la più dura a morire. Anche se negli
ultimi anni le cifre sul piano nazionale sembrano stabili, nel Mezzogiorno
in realtà sono tornate a crescere, toccando picchi allarmanti
in diverse aree. In complesso, si tratta di percentuali doppie rispetto
a quelle delle regioni settentrionali, con una geografia del lavoro
nero che trova al primo posto assoluto la Calabria (32,0%), seguita
nellordine dalla Sicilia (25,3%), dalla Campania (23,6%),
dalla Puglia (21,2%), dalla Basilicata (21,0%), dal Molise (11,8%),
dalla Sardegna (17,5%) e dallAbruzzo (11,8%).
Imponente, nel complesso, lesercito dei lavoratori italiani
in nero: tre milioni 300 mila unità, (un milione e mezzo
di persone nel Mezzogiorno, un milione e 800 mila nel Centro e nel
Nord), concentrate nel settore dei servizi, con ben due milioni
e 300 mila lavoratori irregolari (41,1 per cento), poi in quello
agricolo (25,0%). Per alcune regioni meridionali, poi, si tratta
di un fenomeno incrociato con quello del crimine organizzato
e con lutilizzo di immigrati nellindustria della contraffazione,
che ha già fatto emergere dati preoccupanti.
Svimez sottolinea come lanno scorso si sia interrotta una
tendenza verso il basso, avviata nel 2000, e come questo costituisca
«un importante campanello dallarme se si considera la
sfavorevole congiuntura economica che sta attraversando il Paese».
Quale peso abbia questa zavorra nel Sud ce lo rivela il confronto
tra le rilevazioni degli ultimi otto anni. Dal 1996 al 2004 nelle
regioni meridionali le unità di lavoro irregolare sono cresciute
di 233 mila addetti (+17,9%), a fronte del calo di 194 mila addetti
nel Centro-Nord (-9,9%). Pertanto, sostiene Svimez, «in un
contesto di crescita complessiva delloccupazione meridionale
di 428 mila unità, il cinquanta per cento si è concentrato
nella componente irregolare».
La forbice tra Sud e Nord presenta unapertura
enorme soprattutto nel settore industriale: 20 per cento di irregolari
nelle regioni meridionali, contro solo un 3,5 per cento nel Settentrione.
E anche in questo settore primeggia la Calabria, seguita dalla Sicilia,
dalla Basilicata e dalla Campania, con la graduatoria chiusa nellordine
dalla Sardegna e dallAbruzzo.

In sintesi: «Per la prima volta dopo diversi anni, leconomia
meridionale ha segnato un tasso di crescita inferiore a quello del
Centro-Nord. La crescita del Prodotto interno lordo nelle regioni
settentrionali è stata dell1 4% (+0,2%), mentre in
quelle meridionali è stata dello 0,8%. Il maggior numero
di occupati è stato perso da Campania e Sicilia, seguite
dalla Puglia (che ha visto crescere del 3,3% il numero dei propri
disoccupati). Pesano in modo particolare la perdita di competitività,
la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto: e
il buon andamento dellexport dei prodotti meridionali (+8,9%,
contro un +5,8% nazionale) non è stato sufficiente a compensare
labbassamento dei consumi interni e il ridimensionamento della
spesa pubblica. Tutto questo ha accresciuto le difficoltà
delle famiglie meridionali.
Drammatiche le conseguenze. Intanto, nelle regioni meridionali molti
giovani (soprattutto donne) rinunciano a cercare il primo posto
di lavoro, segno di sfiducia nei confronti dellofferta e della
disponibilità reale di occupazione. Inoltre, questo «diffuso
senso di scoraggiamento ha indotto soprattutto le fasce più
deboli dellofferta di lavoro, cioè sempre i giovani
e le donne, a rifugiarsi nel sommerso, o, ancora una volta, a scegliere
la strada dellemigrazione». E pensare che proprio al
Sud risiedono oltre nove milioni di persone con età fino
a 34 anni, pari quasi alla metà (45 per cento) della popolazione
complessiva dellarea. Ma sono proprio costoro ad incontrare
un muro nella ricerca dellimpiego.
Infine, per i maggiori divari territoriali, queste le cifre: il
Sud è al diciottesimo posto nella graduatoria del Prodotto
interno lordo pro-capite in Europa, dopo la Grecia, Cipro e la Slovenia;
è al diciassettesimo posto per i consumi delle famiglie per
abitante, consumi pari all87 per cento della media dellEuropa
a 25; è al terzo posto per tasso di disoccupazione totale,
superato solo dalla Polonia e dalla Repubblica slovacca; è
al ventiduesimo posto per gli investimenti per abitante, pari al
74 per cento della media dellUnione europea; è al ventisettesimo
posto per tasso di attività, vale a dire allultimo
posto nella graduatoria complessiva dei Paesi aderenti allEuropa
a Venticinque.
Si tratta di cifre che fanno riflettere, nel senso che propongono
una sorta di nuova questione meridionale, dopo i successi e i fallimenti
di quella che appassionò i grandi spiriti del Sud dallUnità
fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Al termine di quegli anni,
sotto linflusso dei Manlio Rossi Doria, dei Pasquale Saraceno,
e per noi pugliesi dei Vittore Fiore, si volle il Sud sicuramente
agganciato allItalia, ma con i maggiori vincoli e legami nellEuropa
comunitaria: questEuropa avrebbe dovuto fare ciò che
non aveva saputo, potuto o voluto fare la Penisola. Non a caso si
parlò di «frontiera degli anni Ottanta» come
di un traguardo da raggiungere con il Mezzogiorno italiano non più
lasciato alla deriva, ma protagonista della politica di sviluppo
nellarea mediterranea, «ponte e non più muro»,
si disse allora, con prospettive addirittura tricontinentali, che
poi fummo incapaci di affrontare. Anzi, diluita la questione
classica e moderna nel più vasto calderone degli interessi
europei, da una parte, e poi italo-padani, del Mezzogiorno si smise
di parlare, di scrivere, di ragionare. In fatto, se non anche in
diritto, il Sud venne abolito, prima ancora che pensasse
di abolirsi da sé, come osservava qualche anno fa un testo,
bello e provocatorio, di Gianfranco Viesti.

Altro che abolirsi, ribattevano alcuni: i quali ri-prospettavano
altre e più profonde frontiere, slave, danubiane, fino alle
soglie del Mar Nero e dunque tra il Vicino e il Medio Oriente. Ma
il problema è, innanzi tutto, quello di casa, che non si
sa (si può, si vuole) risolvere, se è vero, come è
vero, che le finanziarie ormai sono occhiutamente attente agli interessi
padani, nordestini, da nuovo triangolo industriale, e sempre più
deserte di reali contenuti economico-finanziari destinati alle infrastrutture
e ai servizi per il Sud. Variando, almeno di quel poco che basta,
la storia si ripete. E a dimostrarlo ci stanno le cifre che ogni
anno rese pubbliche e poi regolarmente finite nel dimenticatoio
danno la misura della deriva meridionale.
Unultima considerazione. Si è appurato, grazie ad una
specifica ricerca, che sempre più meridionali sono costretti
a salire al Nord per fare gli imprenditori: i dati della Camera
di Commercio di Milano smentiscono lo strumentale luogo comune sulla
pigrizia del Sud, ma ne confermano un altro, secondo il quale leconomia
del Mezzogiorno mortifica non soltanto chi cerca limpiego
tranquillo, ma anche chi rischia in proprio. Su dieci aziende fondate
da calabresi, quattro nascono o si trasferiscono altrove; e sono
molti di più i titolari abruzzesi di attività in Lombardia
che i lombardi presenti con una loro impresa a sud di Roma. È
vero che la gran parte degli emigranti va ad aprire ristoranti tipici
e bar nei quali gli autoctoni non hanno più alcuna voglia
di investire. Ma resta la certezza di aver bruciato il sogno in
cui nel dopoguerra tentarono di credere le migliori intelligenze
del Paese. Si auspicava come scrisse Indro Montanelli
che gli industriali del Nord lasciassero lazienda di famiglia
ai primogeniti e spedissero a Sud i cadetti, con i capitali e la
mentalità per realizzare la svolta che avrebbe realmente
unificato lItalia: nel portafogli, e non solo nei comizi.
Invece, molti figli di papà sono rimasti ad annoiarsi a casa
loro e troppi figli di contadini e di mezzadri sono stati costretti
a compiere il cammino inverso, magari dopo aver conseguito un diploma
o una laurea. Tante le cause, con una sopra tutte quante le altre:
lordine pubblico. Perché è vero che mafia e
camorra e ndrangheta e derivati prosperano più facilmente
dove manca il lavoro, ma è altrettanto vero che il lavoro
non si può trasferire dove mafia, camorra e ndrangheta
e affini e derivati lo strangolano con i taglieggiamenti e con i
ricatti. Una volta a sostenere queste tesi si veniva bollati come
razzisti. Poi come sfascisti. Chissà che una volta o laltra
non si passi finalmente per meridionalisti.
|