Dicembre 2005

Se si dimette il sud

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La deriva
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

Non a caso si parlò di “frontiera degli anni
Ottanta” con il Mezzogiorno
italiano non più lasciato alla
deriva, ma
protagonista della politica di sviluppo nell’area
mediterranea.

 

Il malessere meridionale indicato eufemisticamente dalla “forbice” che divide il Nord dal Sud trova ulteriori conferme nei dati del sommerso, il lavoro illegale radiografato dalla Svimez: nelle regioni meridionali un lavoratore su quattro è in nero, a conferma che la più antica piaga che ha riguardato la storia economica del Sud è anche la più dura a morire. Anche se negli ultimi anni le cifre sul piano nazionale sembrano stabili, nel Mezzogiorno in realtà sono tornate a crescere, toccando picchi allarmanti in diverse aree. In complesso, si tratta di percentuali doppie rispetto a quelle delle regioni settentrionali, con una geografia del lavoro nero che trova al primo posto assoluto la Calabria (32,0%), seguita nell’ordine dalla Sicilia (25,3%), dalla Campania (23,6%), dalla Puglia (21,2%), dalla Basilicata (21,0%), dal Molise (11,8%), dalla Sardegna (17,5%) e dall’Abruzzo (11,8%).
Imponente, nel complesso, l’esercito dei lavoratori italiani in nero: tre milioni 300 mila unità, (un milione e mezzo di persone nel Mezzogiorno, un milione e 800 mila nel Centro e nel Nord), concentrate nel settore dei servizi, con ben due milioni e 300 mila lavoratori irregolari (41,1 per cento), poi in quello agricolo (25,0%). Per alcune regioni meridionali, poi, si tratta di un fenomeno “incrociato” con quello del crimine organizzato e con l’utilizzo di immigrati nell’industria della contraffazione, che ha già fatto emergere dati preoccupanti.
Svimez sottolinea come l’anno scorso si sia interrotta una tendenza verso il basso, avviata nel 2000, e come questo costituisca «un importante campanello d’allarme se si considera la sfavorevole congiuntura economica che sta attraversando il Paese». Quale peso abbia questa zavorra nel Sud ce lo rivela il confronto tra le rilevazioni degli ultimi otto anni. Dal 1996 al 2004 nelle regioni meridionali le unità di lavoro irregolare sono cresciute di 233 mila addetti (+17,9%), a fronte del calo di 194 mila addetti nel Centro-Nord (-9,9%). Pertanto, sostiene Svimez, «in un contesto di crescita complessiva dell’occupazione meridionale di 428 mila unità, il cinquanta per cento si è concentrato nella componente irregolare».

La “forbice” tra Sud e Nord presenta un’apertura enorme soprattutto nel settore industriale: 20 per cento di irregolari nelle regioni meridionali, contro solo un 3,5 per cento nel Settentrione. E anche in questo settore primeggia la Calabria, seguita dalla Sicilia, dalla Basilicata e dalla Campania, con la graduatoria chiusa nell’ordine dalla Sardegna e dall’Abruzzo.

In sintesi: «Per la prima volta dopo diversi anni, l’economia meridionale ha segnato un tasso di crescita inferiore a quello del Centro-Nord. La crescita del Prodotto interno lordo nelle regioni settentrionali è stata dell’1 4% (+0,2%), mentre in quelle meridionali è stata dello 0,8%. Il maggior numero di occupati è stato perso da Campania e Sicilia, seguite dalla Puglia (che ha visto crescere del 3,3% il numero dei propri disoccupati). Pesano in modo particolare la perdita di competitività, la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto: e il buon andamento dell’export dei prodotti meridionali (+8,9%, contro un +5,8% nazionale) non è stato sufficiente a compensare l’abbassamento dei consumi interni e il ridimensionamento della spesa pubblica. Tutto questo ha accresciuto le difficoltà delle famiglie meridionali.
Drammatiche le conseguenze. Intanto, nelle regioni meridionali molti giovani (soprattutto donne) rinunciano a cercare il primo posto di lavoro, segno di sfiducia nei confronti dell’offerta e della disponibilità reale di occupazione. Inoltre, questo «diffuso senso di scoraggiamento ha indotto soprattutto le fasce più deboli dell’offerta di lavoro, cioè sempre i giovani e le donne, a rifugiarsi nel sommerso, o, ancora una volta, a scegliere la strada dell’emigrazione». E pensare che proprio al Sud risiedono oltre nove milioni di persone con età fino a 34 anni, pari quasi alla metà (45 per cento) della popolazione complessiva dell’area. Ma sono proprio costoro ad incontrare un muro nella ricerca dell’impiego.
Infine, per i maggiori divari territoriali, queste le cifre: il Sud è al diciottesimo posto nella graduatoria del Prodotto interno lordo pro-capite in Europa, dopo la Grecia, Cipro e la Slovenia; è al diciassettesimo posto per i consumi delle famiglie per abitante, consumi pari all’87 per cento della media dell’Europa a 25; è al terzo posto per tasso di disoccupazione totale, superato solo dalla Polonia e dalla Repubblica slovacca; è al ventiduesimo posto per gli investimenti per abitante, pari al 74 per cento della media dell’Unione europea; è al ventisettesimo posto per tasso di attività, vale a dire all’ultimo posto nella graduatoria complessiva dei Paesi aderenti all’Europa a Venticinque.
Si tratta di cifre che fanno riflettere, nel senso che propongono una sorta di nuova questione meridionale, dopo i successi e i fallimenti di quella che appassionò i grandi spiriti del Sud dall’Unità fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Al termine di quegli anni, sotto l’influsso dei Manlio Rossi Doria, dei Pasquale Saraceno, e per noi pugliesi dei Vittore Fiore, si volle il Sud sicuramente agganciato all’Italia, ma con i maggiori vincoli e legami nell’Europa comunitaria: quest’Europa avrebbe dovuto fare ciò che non aveva saputo, potuto o voluto fare la Penisola. Non a caso si parlò di «frontiera degli anni Ottanta» come di un traguardo da raggiungere con il Mezzogiorno italiano non più lasciato alla deriva, ma protagonista della politica di sviluppo nell’area mediterranea, «ponte e non più muro», si disse allora, con prospettive addirittura tricontinentali, che poi fummo incapaci di affrontare. Anzi, diluita la “questione” classica e moderna nel più vasto calderone degli interessi europei, da una parte, e poi italo-padani, del Mezzogiorno si smise di parlare, di scrivere, di ragionare. In fatto, se non anche in diritto, il Sud venne “abolito”, prima ancora che pensasse di abolirsi da sé, come osservava qualche anno fa un testo, bello e provocatorio, di Gianfranco Viesti.

Altro che abolirsi, ribattevano alcuni: i quali ri-prospettavano altre e più profonde frontiere, slave, danubiane, fino alle soglie del Mar Nero e dunque tra il Vicino e il Medio Oriente. Ma il problema è, innanzi tutto, quello di casa, che non si sa (si può, si vuole) risolvere, se è vero, come è vero, che le finanziarie ormai sono occhiutamente attente agli interessi padani, nordestini, da nuovo triangolo industriale, e sempre più deserte di reali contenuti economico-finanziari destinati alle infrastrutture e ai servizi per il Sud. Variando, almeno di quel poco che basta, la storia si ripete. E a dimostrarlo ci stanno le cifre che ogni anno – rese pubbliche e poi regolarmente finite nel dimenticatoio – danno la misura della deriva meridionale.

Un’ultima considerazione. Si è appurato, grazie ad una specifica ricerca, che sempre più meridionali sono costretti a salire al Nord per fare gli imprenditori: i dati della Camera di Commercio di Milano smentiscono lo strumentale luogo comune sulla pigrizia del Sud, ma ne confermano un altro, secondo il quale l’economia del Mezzogiorno mortifica non soltanto chi cerca l’impiego tranquillo, ma anche chi rischia in proprio. Su dieci aziende fondate da calabresi, quattro nascono o si trasferiscono altrove; e sono molti di più i titolari abruzzesi di attività in Lombardia che i lombardi presenti con una loro impresa a sud di Roma. È vero che la gran parte degli emigranti va ad aprire ristoranti tipici e bar nei quali gli autoctoni non hanno più alcuna voglia di investire. Ma resta la certezza di aver bruciato il sogno in cui nel dopoguerra tentarono di credere le migliori intelligenze del Paese. Si auspicava – come scrisse Indro Montanelli – che gli industriali del Nord lasciassero l’azienda di famiglia ai primogeniti e spedissero a Sud i cadetti, con i capitali e la mentalità per realizzare la svolta che avrebbe realmente unificato l’Italia: nel portafogli, e non solo nei comizi. Invece, molti figli di papà sono rimasti ad annoiarsi a casa loro e troppi figli di contadini e di mezzadri sono stati costretti a compiere il cammino inverso, magari dopo aver conseguito un diploma o una laurea. Tante le cause, con una sopra tutte quante le altre: l’ordine pubblico. Perché è vero che mafia e camorra e ‘ndrangheta e derivati prosperano più facilmente dove manca il lavoro, ma è altrettanto vero che il lavoro non si può trasferire dove mafia, camorra e ‘ndrangheta e affini e derivati lo strangolano con i taglieggiamenti e con i ricatti. Una volta a sostenere queste tesi si veniva bollati come razzisti. Poi come sfascisti. Chissà che una volta o l’altra non si passi finalmente per meridionalisti.

 

   
   
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