Dicembre 2005

 

Indietro
Uno sguardo
da quel Ponte
Aldo Bello  
 
 

 

 

La struttura del
sistema bancario operante oggi
nel Sud è in grado di assicurare
condizioni
favorevoli alla
crescita delle aziende.

 

Qualcosa di fantascientifico? Il treno cinese che viaggerà per 960 chilometri dei 1.142 complessivi previsti al di sopra dei 4.000 metri, in alcuni segmenti al di sopra dei 4.500, e addirittura si arrampicherà fino a 5.072 metri alla stazione sul Passo di Tanggula. Unirà Lhasa del tibetano Potala buddhista con Golmud, nel Qinghai: il Centro-Ovest del Paese, provincia coperta di montagne con ricche riserve di minerali (potassio, litio, piombo, amianto), ma molto povera. Trecento e sessantun vagoni pressurizzati come i jet per via dell’altitudine, dotati di protezioni contro gli Uv, e sessantuno carrozze ad uso turistico con vetrate panoramiche e lussuosi vagoni-letto attraverseranno sette trafori e 286 ponti, anche su terreni cui sono state iniettate sostanze che li tengano compatti, poiché le temperature variano da 4 a meno 30 gradi. Il treno sfiorerà le riserve che ospitano il leopardo delle nevi e includerà i sentieri di pascolo e di migrazione delle antilopi tibetane e dello yak selvaggio, specie in via di estinzione. Ciò modificherà i ritmi della vita di comunità e villaggi, cambierà gli equilibri di una regione grande e misteriosa.

È la sfida cinese nel nome dello sviluppo, la stessa che portò Pechino a sbarrare lo Yangtzé con una diga che ha sommerso quattromila villaggi e ingoiato decine di paesi, alcuni dei quali risalenti a oltre duemila anni fa. E pochi o nessuno al mondo ha osato batter ciglio. Come nessuno lo aveva battuto quando venne costruita la ferrovia che collega la costa del Pacifico peruviano con le Ande, che ora perde, per soli 225 metri, il primato mondiale di altitudine. Né lo ha battuto quando sono stati realizzati i ponti, a campata unica, che sono stati classificati primi al mondo, e che nell’ordine si chiamano Akashi Kaikyo (Giappone, 1.991 m.), Great Belt East (Danimarca, 1.624 m.), Humber (Regno Unito, 1.410 m.), Jangyn (Cina, 1.385 m.), Tsing Ma (Hong Kong, 1.377 m.), Verrazzano Narrows (Usa, 1.298 m.), Golden Gate (Usa, 1.280 m.), Hoga Kusten (Svezia, 1.210 m.), Mackinac (Usa, 1.158 m.), Minami (South) Bisan-Seto (Giappone, 1.100 m.). Né quando si è sbarrato il Nilo, con la gigantesca diga di Assuan; o prosciugato l’area dello Shatt el-Arab (alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate), in territorio iracheno; e via elencando.

Si è trattato di opere di altissima ingegneria, in ogni caso, e di altrettanti alti costi, sostenuti di frequente da prestiti internazionali. E si è trattato di strutture inserite anche in aree depresse, proprio perché depresse non fossero più, ma nuclei di sviluppo industriale e commerciale, oltre che turistico, per il recupero di aree spesso densamente popolate.
Abbiamo già scritto che il progresso comporta alcune perfidie e qualche tradimento. Così è per l’area tibetana, come lo era stato per quella peruviana, per il Nilo e per i fiumi sacri della nostra memoria storica. Ma è un fatto che la crescita quasi esponenziale del numero di abitanti del pianeta reclama quantità crescenti di risorse, infrastrutture che ne consentano la produzione, collegamenti che accorcino i tempi di movimento e di distribuzione. È il prezzo reclamato da una civiltà che non è, e non può essere, pauperistica, anche se i maggiori problemi saranno posti in futuro dalla salvaguardia degli equilibri naturali e dei livelli di tolleranza dello sfruttamento di quelle risorse. Discorso a parte per la questione della tutela ambientale, la più controversa e per certi aspetti ambigua. Un ponte può deturpare un paesaggio? A San Francisco è un emblema, come lo è sul Bosforo o a New York o a Copenaghen. Un terremoto può dar luogo alla distruzione di una grande struttura del genere? Non accade in Giappone, dove di costruzioni antisismiche se ne intendono, né in Portogallo, dove nel giro di qualche settimana si realizzano strutture viarie-ferroviarie che scavalcano il Tago o il Douro, che non sono fiumiciattoli torrentizi, ma vere e proprie autostrade d’acqua.
Allora: perché mai tanto chiasso e altrettante polemiche per il ponte sullo Stretto di Messina? Chi, e perché strepita, ritenendolo inutile, gridando allo spreco, invocando altre e alternative infrastrutture, e via strologando?

Hanno scritto a favore e contro, con toni seri e con ironia, con soddisfazione e con preoccupazione: ma soltanto un quotidiano ha titolato in prima pagina, a tutta pagina, contro la struttura, ed è stato “Libero”. Titolo: “Il ponte di Silvio sulla gobba del Nord”. Catenaccio: “8.000 miliardi per unire Reggio a Messina. E mezza Italia aspetta strade decenti”. L’editoriale è del direttore del quotidiano, Vittorio Feltri. La gran bordata è del 13 ottobre, e precede il secondo tiro del giorno seguente. Dunque, come scrive Feltri, «Il ponte sullo Stretto di Messina – purtroppo – si farà... Il manufatto, per usare un termine d’altri tempi, costerà 8.000 miliardi e passa del vecchio conio. Sulla carta. Ma in cemento costerà di più. Vuoi l’inflazione, vuoi gli imprevisti, vuoi gli interventi poco gentili della mafia, alla fine il “coso” richiederà almeno il doppio: 16 mila miliardi».
Così, per Feltri, 3.900 miliardi (circa) di euro sono «8.000 miliardi e passa» di vecchie lire; destinati a raddoppiare per via di inflazione, imprevisti e mafia. Ora, è importante che qualcuno chiarisca all’editorialista il rapporto preciso tra euro e lira, anche perché il “matto di Arcore”, come lui elegantemente ironizzando definisce il presidente del Consiglio, potrebbe obiettargli che (gufate su inflazione, imprevisti e mafie a parte) a far tonda “e passa” la cifra di 8.000 miliardi occorrono altri 500 “e passa” miliardi del vecchio conio, che proprio cosa da poco non sono, neanche a gridarlo in campagna elettorale, sventolando bandiere sudiste.
Già: soldi spesi per il Sud! Mentre la locomotiva del Paese (il Nord, s’intende) per «andare da Milano a Brescia e viceversa» deve «fare testamento»! Come non capire l’abissalità del feltriano grido di dolore? Sei anni di cantieri, lamenta il giornale. Che poi deve riconoscere che in 70 mesi si dovrà «realizzare un capolavoro, non si può certo negare, sospeso nel vuoto grazie a 5 chilometri di cavi d’acciaio del diametro di un metro e 24 centimetri». E i quattrini? «Lo Stato, in ogni caso, non dovrebbe tirare (più) fuori un centesimo a fondo perduto. Il contratto prevede che i quattrini necessari per la costruzione dei 3.300 metri di ponte, con la luce centrale più lunga al mondo, vengano raccolti per il 40% attraverso un aumento di capitale della Stretto di Messina SpA (i cui soci sono: Anas, Rete Ferroviaria Italiana, Regione Calabria e Regione Sicilia) e per il restante 60% attraverso finanziamenti a progetto che verranno rimborsati con i flussi generati dalla gestione dell’opera». Ed è questa la prima contraddizione in termini (concreti) a proposito della spesa sulla gobba del Nord.

Ma ve n’è un’altra. Si legge, sempre in seconda pagina: «Largo 60 metri, retto da due torri alte 382,80 metri – e da fiumi di inchiostro sprecati nei decenni – il progetto prevede tre cassoni di cui due laterali per la piattaforma stradale e uno centrale per quella ferroviaria. Ogni carreggiata avrà tre corsie. Questa colata di cemento, ferro e catrame, bella da vedersi […], sarà un boccone prelibato per centinaia di aziende, ma anche, e forse soprattutto, per quanti troveranno un lavoro: il piano prevede infatti la creazione di 40.000 posti, concentrati in Sicilia e in Calabria. Mentre i “padroni”, coloro che si divideranno gli utili, o le eventuali perdite, vengono da tutt’Italia e da tutto il mondo. Gli azionisti di riferimento della sola Impregilo sono Igli SpA (Gruppo Gavio, Gruppo Techint, Autostrade, Efibanca e Sirti), Gemina, Banca Popolare di Milano, Assicurazioni Generali e la banca d’affari internazionale Lazard…». Qualcuno riesce a individuare un “padrone” meridionale? Le cosche siciliane e calabresi sono azioniste di qualcuno degli enti e istituti su citati? Chiunque sappia qualcosa, parli ora. O vada al diavolo per sempre.
Finito qui? Per niente. La «follia dello Stretto», riferisce ancora il quotidiano, costa più di tutta la Parmalat, che è stata risanata con 4,2808 miliardi di euro. Improvvidamente qualcuno si chiederà: e gli azionisti che la Parmalat ha truffato, gettandoli sul lastrico, facendo svanire migliaia di miliardi “del vecchio conio”? Ma che, vogliamo provocare? Quello è il Nord che lavora e che produce, che poi freghi pure è solo un dettaglio. Vuoi mettere? Testualmente: «Per chi ha minori pretese di egemonia ma si accontenterebbe di quote di maggioranza assoluta, c’è la metà di Luxottica... o, a piacere, il 50% del Gruppo Monte dei Paschi di Siena... o di SnamReteGas».
E sbotta finalmente l’articolista: «Ma pesiamolo questo benedetto ponte. Per pagarlo occorre mettere sulla bilancia 358.814 kg d’oro o 21 milioni e 122.233 kg d’argento, facendo riferimento alle quotazioni milanesi di martedì sera». Martedì era l’11 ottobre: in quella tragica sera tutti gli abitanti del Nord (e forse anche parte di quelli del Centro) avranno tenuto serrata la bocca, temendo di vedersi strappati i denti artificiali per mettere su tutte quelle chilate d’oro necessarie per costruire un ponte d’altra natura e finalità. Meglio, dunque, allargare il discorso, che è più o meno questo: la spesa per il ponte sullo Stretto è cento volte inferiore a quella sostenuta per costruire l’Empire State Building, ma «con valuta del 1931», anche se – precisa l’ineffabile autore – si tratta pur sempre di «valori incomparabili oggi, non perché non sia calcolabile il tasso d’inflazione, ma per l’impossibilità di confrontare il prezzo della manodopera e della sicurezza nei cantieri edili. Poi occorrerebbe attualizzare, rispetto a due anni dopo la grande crisi del 1929, il livello raggiunto sui mercati dalle materie prime come il rame e l’acciaio, il cemento, o dall’energia, e tenere ovviamente in debito conto anche il divario tecnologico che ci separa dal secolo scorso». Ma scusate tanto: di che cosa sta parlando, allora, costui? E che confronto fa? A che tipo di lettori si rivolge?
Proseguiamo. Anzi, facciamo proseguire il discorso, che ha un filo conduttore inquietante: «Torniamo ai giorni nostri, allora. Trasferiamoci in Lombardia, ad appena qualche centinaio di chilometri di distanza (sic!) da Scilla e Cariddi. Se si pensa che, ai prezzi del 2004, per il polo fieristico Rho-Pero, cioè la nuova Fiera di Milano, sono stati sborsati appena 595 milioni e 80 mila euro, si scopre che è costato otto volte meno dell’ultima meraviglia del mondo che dovrebbe collegare la Trinacria al continente». E non basta: «In tempi di dipendenza energetica», tanto per affrancarci dalla schiavitù del petrolio, si potrebbe realizzare in alternativa «una bella centrale atomica». Anche perché, con quello che si spende per il ponte, «avremmo in omaggio anche 100 miliardi di kilowattora gratis. Significherebbe coprire un terzo di tutto il fabbisogno di elettricità italiano per un anno». Nessuno chieda a chi dovrebbe essere destinato questo terzo di kilowattora: se lo richiedesse il Sud sarebbe rimbrottato da qualche spirito malmestoso del Nord.

Meglio esser cauti, dunque. Anche per i pericoli che potrebbero corrersi con la «bella centrale nucleare». Scrive infatti l’autore del pezzo: «Se si teme una nuova Cernobyl, si può puntare sull’energia cosiddetta pulita: assicurare all’Italia una fornitura ventennale da 2 miliardi di metri cubi di gas siberiano l’anno a un prezzo variabile dai 4 ai 6 miliardi di euro».
Venerdì 14 ottobre, altro titolo a tutta (sesta) pagina: “Strade, teatri e ferrovie sacrificati allo Stretto”. Riportiamo dall’incorniciato sulle “Grandi opere in lista d’attesa”, con gli interventi “dimenticati”: Bre-Be-Mi, ovverossia il collegamento stradale tra Brescia, Bergamo e Milano; la realizzazione di un’arteria alternativa alla via Aurelia; il collegamento ferroviario tra Genova e Milano, e quelli tra Milano e Verona, tra Verona e Padova e tra Venezia e Trieste.
Vi chiederete: e per il Sud? Calma e gesso. Sostiene “Libero”: «Anche nel Mezzogiorno ci sono opere che attendono da tempo immemore di essere realizzate». Giusto. Ma quali? La variante Anas di Caserta, ad esempio, che è fondamentale per rilanciare lo sviluppo della Campania; oppure il carcere di Mistretta, anche in vista – forse – delle reclusioni dei mafiosi che metteranno il becco nell’affare del Ponte; e infine, con sprezzo del ridicolo, nientemeno che la strada Nerico-Muro Lucano-Baragiano, faraonica stradella interpoderale (a giudicare dalle aree collegate) che chiuderebbe, se finalmente ammodernata, l’orrenda forbice citata dagli spiriti perdigiorno che si dilettavano di questioni meridionali e contribuirebbe allo sviluppo della civiltà dei terrunàzz.
Cosa, questa della strada appena menzionata, che mi preoccupa assai, perché quasi sicuramente qualcuno scriverebbe (ma con liquido diverso dall’inchiostro) di chissà quante migliaia di tonnellate di polenta sottratta alle diseredate campagne del Nord per finanziare un’infrastruttura del genere al Sud. E mi sentirei in colpa, porterei il rimorso fino all’ultimo dei miei giorni. Sempre temendo le reprimende giustissime dei colleghi del Nord produttore e lavoratore, così partecipi, così vivamente risentiti per le rapine a mano disarmata di noialtri cinici negatori dei sacrifici di chi, per percorrere persino la Milano-Brescia, deve proprio far testamento. Cinesi che non siamo altro! Megalomani privi di scrupoli! Ha ragione il direttore della “Padania”: «A uno che per venire al lavoro ci mette un’ora e mezza di macchina per coprire esattamente 57,4 chilometri, un po’ gli girano le scatole. E visto il traffico di macchine e di tir, come me la pensano migliaia di pendolari ogni giorno. Anche il sabato e la domenica. Ecco perché il Ponte sullo Stretto non ci sarà mai simpatico». E questa è una dichiarazione di franca lealtà: Gianluigi Paragone la pensa così, è un suo diritto pensarla come vuole, anche quando aggiunge: «Certo, recentemente il Cipe ha sbloccato molte importanti infrastrutture in Padania, e di questo dobbiamo dire grazie all’impegno della Lega. Eppure la pazienza è inversamente proporzionale all’attesa: il Nord ha atteso troppo per avere la Pedemontana e le sue sorelle. Strade, strade, strade: le imprese chiedono strade perché ogni coda sono soldi che non tornano. Solo quando le nostre gomme toccheranno il nuovo cemento, allora ai padani forse il Ponte sarà più simpatico... Il Ponte l’è roba da ganassa. Quel mausoleo sembra davvero un capriccio da imperatore che drena soldi, sottratti a migliori investimenti...».
Eterno problema di tanta brava e generosa gente: i danè. A chi? A loro, naturalmente. Anche quando sono destinati ad opere veramente inutili, come il traforo del Frejus, che costa tre volte più del ponte messinese, ma nessuno lo dice; o quando si risanano imprese del Nord o si salvano banche del Nord, e tutti fanno finta di non sapere. E poi, pane al pane: se vince il centro-sinistra il ponte non si fa. E poiché la prima pietra si poserà dopo le elezioni, cioè a metà 2006, è probabile che molti si stiano strappando i capelli inutilmente. È anche probabile che i laboratori scientifici, sismologici, tecnologici, il cui insediamento è previsto nel progetto, siano ingoiati dai livori politici e ideologici di questi nostri tempi infami. Bell’immagine di sé darebbe l’Italia, presunta sesta potenza economica del pianeta! Bel bidone tirato al Sud, con la storia della paura del terremoto o della mafia. Perché in realtà costruiamo dappertutto, e bene, oltre la Penisola. E il business fa gola ai boss delle due sponde, come faceva gola il porto di Gioia Tauro, o, prima ancora, il Quinto centro siderurgico, poi felicemente abortito; e, dopo ancora, come sottolinea Stefano Cingolani su “Il Riformista”, fa gola «il business dei traghetti, la raccolta delle arance e del bergamotto. Fa gola l’edilizia, gli appalti per le fognature, il mercato delle braccia, la riscossione dei tributi». E commenta: «In fondo Vittorio Feltri è coerente: che gliene importa al Nord del ponte sullo Stretto? Sono risorse sottratte al popolo delle partite Iva. Ma che dire di giornali che quando Impregilo (aveva nel mirino il progetto da almeno un decennio) era della Fiat o di Romiti mobilitavano le loro migliori penne per cantare le magnifiche sorti e progressive del Ponte; e adesso arricciano il naso o addirittura gettano fango». Così va il (nostro) mondo.
«E mo’ fatelo ‘sto ponte sullo Stretto», esorta tra il serio e il faceto Antonio Pennacchi, nella sua rubrica intitolata “Stalin bar”. Mussolini in sei mesi fece Littoria, scrive. E prosegue: «È una cosa da fare. Anzi, per me quel ponte è proprio di sinistra: progressista e proletario.... “Ma l’impatto ambientale, il panorama”. Ma quale impatto, quello il panorama lo arricchisce, che c’è di più bello a questo mondo di un ponte? Guarda un ponte romano, guarda quello di Brooklin. È il lavoro dell’uomo – da che mondo è mondo – il valore aggiunto di ogni paesaggio». E a chi lamenta la mancanza di strade, di acqua, magari di altro, replica: «Per elevare gli standard medi devi elevare per forza i livelli di eccellenza. È solo elevando l’eccellenza – per un meccanismo combinato di mimesi, emulazione, mitopoiesis degli orizzonti di attesa – che questa si tira appresso gli standard medi... Dice: “Ma le difficoltà tecniche”. E quelle le devi superare. Tu sei il primo e più grande costruttore della storia. Tu hai eretto i primi ponti e fino a ieri sei andato in giro a costruire dighe dappertutto. Oggi sei scomparso, i cinesi fanno a gara anche di grattacieli e a te non ti si vede. Vuoi competere nella globalizzazione? Dimostra allora che sai ancora fare cose che colpiscono gli immaginari. Come il ponte di Messina, per esempio».
È stato detto che ogni grande opera pubblica finisce per suscitare dibattiti, opposizioni, lacerazioni politiche e sociali. Tanto più un ponte, che «ha di per sé un particolare valore simbolico». Quando svedesi e danesi decisero di costruire il loro (di 8 chilometri, anche se non a una sola campata) per collegare Malmoe a Copenaghen, scoppiò un putiferio: «I verdi insorsero. Gli xenofobi temevano l’invasione degli immigrati dal continente. Tra Svezia e Danimarca rispuntarono rivalità etnico-culturali, storiche e militari persino... Adesso a Malmoe e a Copenaghen l’unica questione è se il pedaggio riuscirà a coprire i costi di gestione. Ma quelli sono popoli pragmatici e luterani. Noi che siamo idealisti e cattolici non scenderemo mai a un tale materialismo. Noi leveremo alte le voci dello spirito. “Né un uomo né un soldo per quell’inutile e pericoloso monumento”, scrive Guglielmo Ragozzino sul Manifesto. Tra quei mostri di Scilla e Cariddi si aprano le bocche dell’inferno».
La «porcheria inutile» (la definizione è del quotidiano “Padania”) dovrebbe consentire il transito di 6.000 veicoli all’ora e di 200 treni al giorno, resistendo a un vento di oltre 200 km/h e a terremoti oltre il settimo grado della scala Richter: cifre contestate da Marco Ponti, ordinario di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano, mai tenero nei confronti dell’opera, e che tuttavia, sul “Corriere della Sera”, sostiene: «Meglio il Ponte sullo Stretto del traforo del Frejus... che costa tre volte tanto e serve ancora meno... Se non possiamo evitare il Ponte, almeno battiamoci contro il Frejus...».
Eppure c’è sempre qualcosa di maestoso e di affascinante in ogni sfida affrontata dall’uomo sulla terra e sul mare. C’è l’impronta della sua civiltà, e c’è il sigillo della sua intelligenza, scavalchi uno Stretto mitologico o perfori una montagna di frontiera. Al di là della suggestione della megastruttura, al Ponte sono comunque assegnati due obiettivi paralleli: testimoniare la rinascita di due regioni problematiche per molti versi; riaffermare il legame indissolubile tra Penisola e Isola, particolarmente rilevante in tempi di becere ideologie separatiste, e di sottoculture che, privilegiando gli egoismi localistici, volontariamente si smemorano di scomode vicende storiche vissute sulla pelle del Sud.
Dunque, c’è anche qualcosa di malinconico in questo perseverare nell’accanimento contro un’Italia ritenuta “altra” e “diversa”, estranea, anche ostile; c’è un mortificante tramonto dell’immaginazione determinato da un gretto utilitarismo; e c’è una visione del mondo da un angolo ottuso, che fa piccoli gli uomini e ridotti gli orizzonti. Tutto questo impoverisce e non gratifica, esclude e non aggrega. Quanto tempo è passato dal 1861? E perché hanno voluto il 1861? Ma si ebbe davvero allora il primo colonialismo italiano? Dell’Italia che era tale fino al Tronto e poco oltre l’Ombrone?

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2005