Dicembre 2005

Le controstorie

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I voltagabbana
Ada Provenzano - Carmen Valentini - Donato D’Elia
 
 

 

 

Liborio Romano non tradì per soldi, ma in nome del motto «Ccà
nisciuno è fesso», che decenni dopo Longanesi avrebbe tradotto in un’altra espressione tipica dell’opportunismo italico…

 

Il sasso nello stagno lo aveva gettato per primo Ruggero Guarini, in un commento al film del regista Di Lillo, Il resto di niente, che ha per protagonista, o comunque tra i protagonisti, Eleonora Fonseca Pimentel, icona della Rivoluzione Napoletana del 1799, secondo la vulgata «che vuole i collaborazionisti napoletani un manipolo di eletti patrioti e il popolo che resisteva al francese invasore una manica di farabutti», come ha avuto modo di ricordarci Paolo Granzotto.
La Pimentel fu, diciamo così, in diretta concorrenza con un’altra icona coeva, che poi dovette soccombere nella competizione per il titolo di eroina numero uno della Repubblica Partenopea, in quanto concorrente inconsapevole, vale a dire rivoluzionaria involontaria, trascinata nella mischia dagli eventi (e dagli ardenti spiriti dei suoi giovani anni): parliamo della Luisa Sanfelice, che ricordiamo per qualche biografia romanzata (quella inventata dalla fantasia di Victor Hugo sarebbe la meno attendibile, ma anche la più intrigante), e soprattutto per il bel dipinto del galatinese Gioacchino Toma, che la ritrasse realmente incarcerata e fintamente incinta in una delle più significative espressioni artistiche dell’Ottocento italiano.

Dunque: come tutti coloro i quali sono pronti ad andare in soccorso dei vincitori, la Fonseca Pimentel divenne antiborbonica subito dopo l’ingresso a Napoli del generale Championnet, che è come dire appena un minuto dopo l’allontanamento dalla capitale di re Ferdinando delle Due Sicilie. Fino a qualche istante prima, infatti, l’inclita damigella era stata non una sostenitrice, ma addirittura lo “zerbino” del monarca, di Maria Carolina, della Corona. Della regina, in particolare, aveva intessuto elogi spropositati, prima di definirla, mentre era all’ombra delle baionette transalpine, «rediviva Poppea» e «tribade impura d’imbecille tiranno empia consorte»: tanto per capire fino a che punto può giungere una voltagabbana priva del comune senso del pudore.
Ruggero Guarini ebbe a ricordare la sconcia ballata che la Fonseca Pimentel dedicò a Maria Carolina, senza alcuno scrupolo o riguardo definita baldracca, lesbica, consorte di un tiranno ebete, alla quale augurava di far la fine della sorella, Maria Antonietta, decapitata con sentenza sommaria e con tripudio di piazza.
Ma prima dell’ingresso delle truppe francesi, ben altri sentimenti costei aveva manifestato. Separata dal marito, il tenente Pasquale Tria, per sbarcare il lunario aveva invocato d’urgenza l’aiuto di Ferdinando, il quale l’aveva soccorsa, affidandole l’incarico di bibliotecaria nella ricchissima biblioteca reale voluta da Carlo di Borbone, in seguito Biblioteca Nazionale. E tra quei preziosi volumi, a volte con il vezzoso nome di Altidora Esperetusa, liberamente verseggiava, coinvolgendo il “tiranno imbelle” e la di lui poco commendevole consorte in panegirici che si leggono con palese disagio «per il servilismo, l’adulazione e la piaggeria che vi dominano». Tant’è che finì per meritarsi la spilla a forma di giglio borbonico che, appuntata sulla scollatura dell’abito di gala, distingueva le dame in rapporto di intimità con Ferdinando e con Maria Carolina. La quale ultima veniva dipinta dalla Fonseca Pimentel pre-sanculottiana quale «tempio di saggezza e di virtù», mentre per il re era certa che «l’età di Ferdinando / ogni altra avanzerà che l’alme illustri / dai regi sguardi accese / ardite moveranno a nuove imprese». Sicché «Ddio nce lo guard’e tenga» il «prode Ferdinando / dalla superba fronte / marito e condottier». E sarebbero sacrosantamente finiti nel più abissale degli oblii, versi di tale ispirazione e tanta levatura espressiva, se non servissero ancora oggi a testimoniare e a mettere in luce la statura morale (?!) e l’antropologia umana di questa “eroina” nana.
Che tuttavia non fu sola nell’esercitare l’ignobile arte del tradimento. Ebbe, anzi, illustri emuli negli infelici tempi che seguirono. Come, ad esempio, il cosiddetto “Nibbio dei mari”, il principe e ammiraglio Francesco Caracciolo, passato alla storia come patriota e martire per via dell’impiccagione con disonore al pennone della nave di Nelson.
Caracciolo non si imboscò, e meno che mai disertò, nei tristissimi giorni dell’esilio borbonico. Semplicemente e irrimediabilmente tradì. Ed è noto che la marineria puniva il tradimento col capestro. Questo, il principe e ammiraglio Caracciolo lo sapeva benissimo, tanto che per cancellare dal proprio cadavere una macchia così ingombrante, chiese di non essere appeso al pennone dell’albero maestro, ma di venire fucilato. Dimenticava, l’aristocratico voltagabbana, che si trovava al cospetto dell’ammiraglio della marineria inglese, quella di Abukir (dove Nelson diede una terribile randellata alla squadra navale napoleonica), o quella di Trafalgar, oppure, se si preferisce, quella di Jack “Lucky” Aubrey, Master and Commander dell’H.M.S. “Surprise”.

Era il 23 dicembre 1798, antivigilia di un drammatico Natale di guerra: con i francesi del generale Championnet alle porte della sua capitale, Ferdinando IV di Borbone si vide costretto ad abbandonare Napoli e a rifugiarsi nella più sicura Palermo. E lo accompagnava, in qualità di ammiraglio della flotta napoletana, appunto, il principe Caracciolo. Il quale, appena instauratasi l’effimera repubblica giacobina (23 gennaio 1799), chiese al re il permesso di far ritorno a Napoli per prendersi cura dei propri averi, che in assenza del proprietario correvano il rischio di essere confiscati.
Ferdinando diede il consenso, consigliando al suo ammiraglio di tenersi lontano dalla politica, di curare esclusivamente i propri affari e di non mettersi in testa idee strane. Al che il “Nibbio dei mari”, quasi cadendo dalle nuvole, assicurò: «Che dite mai, Maestà! Io, il vostro più fedele servitore! Io che sono pronto a dare la vita per la Corona, mettermi in testa cattive idee? Accunfarse co’ i giaccubbini? Mai!».
E invece, appena toccata terra dalle parti di Mergellina, si accunfiò, altroché se si accunfiò, nel senso che se la intese subito con lo spretato Carlo Laubert, con Antonio Ajello, con la Fonseca Pimentel e con gli altri “giaccubbini” sostenuti dalle baionette dell’esercito francese.
Il nodo venne al pettine cinque mesi dopo, quando cessò di esistere la repubblica giacobina: ricercato per alto tradimento, il Caracciolo venne a sua volta tradito da un servo, il quale indicò agli sbirri il pozzo in fondo al quale era nascosto il “Nibbio dei mari”. Che così fu catturato, trasbordato e impiccato, secondo le regole universalmente osservate dalle marinerie.
Una breve digressione, per significare il valore del termine “tradimento”. È stato scritto che l’atto del tradire porta all’ottundimento della propria coscienza e fa straripare le energie negative.
In genere, il traditore è un individuo prossimo al tradito: in effetti, esso tradisce soltanto se stesso. Gli archetipi universali in materia ce lo spiegano molto bene. Adamo venne tradito da se stesso, per superbia e per ignoranza. Osiride trovò la morte per il tradimento del proprio fratello, Set. Gesù venne tradito da un suo discepolo. Il veneziano Giovanni Mocenigo attrasse Giordano Bruno per consegnarlo ai suoi aguzzini. La storia è lastricata di questi esempi.
L’ambizione, il fanatismo, la sete di potere, l’ambiguità, il narcisismo che rende prigionieri delle proprie ragioni e chiude in una limacciosità statica e in una rigidità funesta: queste, e altre ancora, (la paura del futuro, la fragilità culturale, e via dicendo), sono le scaturigini del tradimento. Che a volte emergono in ritardo, proprio come nel caso del Caracciolo, al quale i piemontesi, sessant’anni dopo, intitolarono un’importante via dell’antica capitale del Sud. La storia, infatti, non la fanno i vincitori?

Sessant’anni dopo, appunto. Quando il tradimento fu decisivo per le sorti del Reame e per la nascita del Regno sabaudo. Anche se si trattò di tradimenti (per certi personaggi, almeno) sporcati dal legittimo sospetto della compravendita, con imbroglio incorporato nella promessa di premio con vile denaro.
La vicenda del generale Francesco Landi, in proposito, è illuminante. Fu lui che, a sbarco dei Mille appena avvenuto, con Garibaldi chiuso nella sacca di Calatafimi, con le sue camicie rosse stremate e ormai prive di munizioni, decise sorprendentemente di far suonare la ritirata. Avesse impegnato un semplice battaglione, ordinandogli di attaccare, l’epopea dei Mille sarebbe miseramente naufragata lì, in una località dal nome emblematico: Pianto di Romano. Le cose, invece, andarono diversamente, per via di una strategia preventivamente perdente, cioè con inclusione del ricorso al tradimento.
A cose fatte, e ad annessione del Reame avvenuta, il Landi si recò al Banco di Napoli per riscuotere la polizza di quattordicimila ducati che rappresentavano il prezzo di quel tradimento. Ma quando il cassiere gli disse che il documento era stato falsificato e che la cifra reale che poteva essere riscossa era limitata a soli quattordici ducati, al generale venne un colpo e morì imprecando ad alta voce contro «quel ladro di Garibaldi».
Altro eroico traditore, Giuseppe Ghio. Era stato colui il quale aveva sventato a Sapri, città di spigolatrici, il colpo di mano di Carlo Pisacane. Tre anni dopo, nel territorio di Soveria Mannelli, sebbene fosse al comando di un esercito di diecimila uomini, si arrese a un migliaio di camicie rosse garibaldine male in arnese. Una volta entrato in Napoli, un riconoscente Garibaldi lo designò comandante della piazza. Problemi di coscienza? Zero. Con grande naturalezza, il Ghio ripose la divisa borbonica e indossò quella piemontese. Anche se non godette a lungo dei benefici ottenuti al prezzo di Giuda: una sera fu trovato morto ammazzato nella località Ponti Rossi, sotto un’arcata dell’Acquedotto Romano. E di costui non rimase altra memoria, se non quella del prezzolato.

Nei giorni del tramonto del Regno di Napoli le diserzioni non si contarono, sia in terra sia in mare, dove, per fare un esempio indicativo, issata la bandiera bianca il comandante di fregata Amilcare Anguissola si consegnò con la sua nave, la “Veloce”, all’ammiraglio piemontese Persano (quello che sarebbe stato poi battuto a Lissa da una flotta austriaca numericamente inferiore). Per riscattare il nome della famiglia, i fratelli dell’Anguissola chiesero e ottennero dal re il privilegio di combattere in prima linea.

Liborio Romano, invece, non tradì per soldi, ma in nome del motto «Ccà nisciuno è fesso», che decenni dopo Longanesi avrebbe tradotto in quell’altra espressione tipica dell’opportunismo italico, «Tengo famiglia», che avrebbe fatto la sua bella figura stampata nel bianco del tricolore. Sostiene Granzotto: quando Francesco II partì per Gaeta (dove il suo esercito, quello di “Franceschiello”, diede, come lo diede a Civitella, filo da torcere ai soldati piemontesi del generale Cialdini, lo stesso che nel suo proclama aveva liquidato i borbonici quale «masnada di briachi»), chiamò Romano, suo ministro che conosceva funambolo nel doppiogioco, e gli disse: «Don Libo’, guardateve ‘o cuollo!». E Romano, di rimando: «Starò accorto che rimanga al suo posto il più a lungo possibile».

Appena mezz’ora dopo, Don Liborio telegrafava all’«invittissimo generale», sollecitandolo «a giungere in fretta, ché la popolazione tutta attende il Salvatore con la maggior impazienza, per salutarlo redentore d’Italia».
La città natale di Liborio Romano è la stessa nella quale riposano le sue spoglie, Patù. La tomba è spoglia, una pietra bianca sulla quale è scritto soltanto il suo nome. Sulla facciata del palazzo che appartenne alla famiglia, invece, si legge questa lapide: «Nella dolorosa maturazione degli italici destini / Liborio Romano / persecuzione carcere esilio / serenamente accettò / l’anima affisa alla futura patria grande / nella attesa ora della riscossa / ad altissime responsabilità assurto / seppe / sprezzando lusinghe ambizioni calunnie / preservare la sua terra da cruente lotte fratricide. / Nel centenario dell’Unità / la sua Patù orgogliosa ricorda / qui ove nacque e morì».

Si potrebbe sorridere amaro, ricordando chi fu lo “sprezzatore”. Non fosse per i tanti voltagabbana venuti in seguito, ben peggiori del modello originale, al punto che se ne sono persi la fisionomia e soprattutto il conto. E, fosse possibile, ci sarebbe da spedire sull’altra riva, quella della pace eterna, una lettera con uno scritto brevissimo, ridotto a una sola domanda: «Don Liborio, ora che dalle parti crasse della Penisola sbraitano i secessionisti della Lega, ci dici chi te l’ha fatto fare?».

 

   
   
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