Dicembre 2005

Amleto Pallara

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Un umanista in provincia
Nicola Carducci  
 
 

 

 

Dopo Giovanni Pontano, è forse
il Galateo
la personalità
più ricca e più complessa
dell’Umanesimo meridionale.

 

Lo strappò agli studi galateani prediletti, nel pieno della sua attività, poco più di dieci anni or sono, il male inesorabile, ma Amleto Pallara vi aveva già profuso le sue doti di competenza filologica e di acribia esegetica e, con le traduzioni, dato prova di magistrale conoscenza della lingua di Cicerone e di Seneca, che è anche la lingua di Antonio De Ferrariis Galateo.
Riportiamo il giudizio di Francesco Tateo, un’auctoritas in materia: «Amleto Pallara è uno di quegli studiosi che più hanno avvertito, pur muovendo dal culto tradizionale per la storia patria, la necessità e il gusto di affrontare il testo dell’umanista di Galatone, piuttosto che girare intorno alle rimarcature erudite e alle celebrazioni. L’affetto per il proprio corregionale ha avuto in questo caso una funzione decisamente positiva, indirizzando la sua attenzione ad uno degli aspetti più difficili dell’opera galateana, la resa del testo latino in un italiano adeguato al livello dell’originale e capace di trasferirne il significato senza banalizzarlo e fraintenderlo. Tradurre Galateo non è facile, perché si tratta di uno scrittore in cui la topica, la combinazione di autorità, la ripetizione di moduli sembra collocarlo sulla linea della più comune scrittura umanistica, e in cui proprio l’artificio, e talora la spregiudicatezza con la quale adopera i topoi diventa un veicolo di originalità. Sembra che il Pallara sia partito da questo devoto atteggiamento di interprete di fronte ai testi che ha privilegiato nei suoi studi, alcune epistole particolarmente significative della diversità del Galateo, per poi fermarsi sul problema ecdotico offerto dal testo e sul fondamentale problema delle fonti».
Il giudizio oltremodo lusinghiero prosegue con altri apprezzamenti del lavoro del nostro studioso, e noi ci siamo limitati a trascriverne solo una parte, già lunga, quasi a legittima replica a certa insolente burbanza accademica, che poco si identifica con la fermezza scientifica. Il giudizio è contenuto nella presentazione del volume Antonio De Ferrariis Galateo. Lettere, testo, traduzione e commento di Amleto Pallara (Lecce, Conte Editore, 1996) che è una raccolta parziale dei saggi galateani del Pallara e del quale qui ci serviremo per tracciare il profilo del nostro “umanista in provincia”, con richiami ad altri suoi interventi, sparsi in riviste o in alcune miscellanee.
Umanista in provincia, lo qualifichiamo, a tutto suo pieno merito, essendosi egli applicato al suo Galateo in assoluta dignitosa solitudine e riservatezza, senza clangore di trombe mediatiche o unzioni sacre del tempio ufficiale del sapere. Come il Pallara puntualizza nella paginetta di prefazione, le sette epistole galateane, comprese nella detta silloge, sono particolarmente significative di alcune idee, tra le più interessanti, del De Ferrariis, rivelative appunto della sua humanitas: giova più, nello scrittore, la verità e la sincerità che la forbitezza espressiva (Ep. IV, Apologeticon ed Ep. XXXIV, De suo scribendi genere); gli studi letterari non migliorano i costumi dei loro cultori ma ne accrescono la tensione verso il bene e verso il male (Ep. XXXIII, Vituperatio litterarum ed Ep. XXXVI, Callipolis descriptio); bando alle discriminazioni razziali tra cristiani ed ebrei (Ep. XXXV, De neophytis); l’impegno degli italiani nella difesa della civiltà cristiana e nella preservazione della nostra indipendenza (Ep. XXXVI, Eleazaro Caesaraugustae commoranti ed Epp. XXIII e XXIV, De Turcarum apparatu).
L’epistola più discussa e tormentata è la Vituperatio, che sembra compiacersi del paradosso e che ha perciò richiesto una sorta di accanimento nella sua controversa edizione critica, come vedremo.

L’interesse primario di Pallara sembra rivolto allo scioglimento delle varie cruces filologiche e alla individuazione delle fonti e degli autori, cui riportano le citazioni abbondantissime del Galateo senza nominarli; che è impresa da far tremare le vene e i polsi e che Amleto Pallara affronta e supera come forse altri non avrebbe saputo fare. Le traduzioni riescono a tal punto catturanti da far dimenticare, a volte, l’originale latino, autonome come sono nella loro lindura lessicale e struttura concettuale; e qui ne daremo qualche scampolo.
Ma occorre anche qualche cenno all’altro aspetto del nostro umanista in provincia: quello di insegnante di materie letterarie, prima in una scuola media e poi al Magistrale “Pietro Siciliani” di Lecce; e a questo aspetto si collegano altri suoi studi. All’indomani del varo della legge istitutiva della scuola media unica, del 1962, il Pallara si premurò di allestire una grammatica latina per gli esordienti: Verso il latino (Lecce, Milella, 1964), singolare nel suo genere rispetto alle finalità didattiche preminenti. Cornelio Nepote e Fedro erano i primi testi latini con cui familiarizzare, in una scuola primaria che non ne aveva ancora conosciuto la sciagurata abolizione.

Nella sua esperienza vissuta, Amleto Pallara, come quelli della sua generazione, intendeva e praticava il proprio compito come una missione (termine poi esecrato); perché nella formazione dei futuri docenti di discipline umanistiche, accanto ai maestri della latinitas, da Gandiglio a Gandino, dal Pighi al Traina, interferiva la lezione dei grandi pedagogisti, da Quintiliano a Vittorino da Feltre a Comenio. Da qui il possesso di Pallara della lingua latina, di cui darà saggio non solo nel tradurre il Galateo, come vedremo, ma anche ardui testi vichiani, quali De nostri temporis studiorum ratione e De antiquissima italorum sapientia, per un’antologia curata dal prof. Antonio Verri, suo amico: La filosofia di G.B. Vico (Firenze, Le Monnier, 1981).
Sempre nella fase pregalateana va ricordata una sua dottissima incursione in territorio dantesco, anche qui ruotante intorno ad una crux filologica: Epistola XI. Ai cardinali italiani, 24-5 (Lecce, I.T.E.S. 1996, pp. 30). Non è questa la sede per insistervi; è sufficiente rilevare che l’ampio circuito della perlustrazione esegetica non tralascia alcuno degli studiosi interessati, dal Boccaccio sino ai novecenteschi Raffaello Morghen, storico, e Arsenio Frugoni, dantista, per concludere che a suo giudizio «il passo dell’epistola quale il Boccaccio lo ha tramandato non è scorretto».

Dopo Giovanni Pontano, è forse il Galateo, come scrisse nel ‘50 Giuseppe Saitta (Il pensiero italiano dell’Umanesimo e del Rinascimento), la personalità più ricca e più complessa dell’Umanesimo meridionale, non senza fremiti prerinascimentali; per la versatilità dei suoi interessi e studi, scientifici, letterari, geografici, storici, filosofici. Se ne sono poi occupati, da angolazioni diverse, Eugenio Garin e Antonio Altamura, Mario Santoro e Francesco Tateo, cui sono seguiti numerosi altri agguerriti cultori, tra i quali il nostro Amleto Pallara.
Risaliamo ora, preliminarmente agli anni in cui visse e operò Antonio De Ferrariis, tra la nativa Japigia e la capitale del Regno (1448-1517): epoca fra le più tristi della storia del Mezzogiorno e dell’Italia tutta, che fa da sfondo in non poche pagine dell’opera galateana, come ha documentato il compianto Donato Moro, nel suo bel libro Per l’autentico Antonio De Ferrariis Galateo (Napoli, Editrice Ferraro, 1991). La dinastia aragonese si era insediata da poco e l’evento aveva suscitato grandi speranze; il Regno riunificato tornava ad inserirsi nel concerto degli Stati italiani, dopo la cupa parentesi degli ultimi Angioini, con una fisionomia rinnovata. Napoli si arricchiva di monumenti e la corte di Alfonso il Magnanimo diventava centro vivacissimo d’irradiazione culturale con l’Accademia Pontaniana.
Ma la realtà effettuale era assai diversa dall’immagine che se ne voleva esibire. Il Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, riporta il giudizio del Machiavelli sulla genia dei galantuomini e baroni pullulanti nelle contrade del Regno, «uomini del tutto nimici di ogni civiltà» (Discorsi, I, 55). I baroni contavano assai di più dell’autorità del sovrano, il quale, dopo la famosa loro congiura tra il 1485 e il 1486, dovette venire a patti e legittimare tutte le loro usurpazioni, avvenute in un secolo di anarchia feudale.
Incombeva poi sempre la minaccia ottomana dal tempo del sacco di Otranto del 1480, non meno di quella costituita dalle mire espansionistiche di Venezia, dopo l’assedio e l’occupazione di Gallipoli del 1484. Si aggiungano, per completare il quadro, le periodiche jacqueries, represse nel sangue dal successore Federico. La guerra franco-spagnola avrebbe fatto il resto, sino alla vittoria finale di Ferdinando il Cattolico di Spagna, con il quale, dal 1503, aveva inizio la lunga notte della dominazione spagnola del Mezzogiorno.
Ce n’è più di quanto non occorra per giustificare il pessimismo del Galateo, che in numerosi suoi scritti parla di barbarie, per liberarsi dalla quale reclamava il ripristino della civiltà greca e la rivendicazione delle radici cristiane. Gli splendori letterari e artistici, nel contesto nazionale che annoverava l’affermazione delle Signorie e dei Principati, non colmavano l’arretratezza del Regno, nel quale peraltro anche le strutture ecclesiastiche parevano concorrere ad accentuarla. E il Galateo, come poté, interveniva con l’Heremita e l’Esposizione del Pater Noster, ad arginare corruzione e prevaricazione; non senza, sia pure, l’ingenua difesa della Donazione di Costantino, che Lorenzo Valla dimostrava essere un clamoroso e strumentale falso (nell’Ep. XXX, De Constantini donatione): lo scotto, certo, di un’epoca di troppi marosi, tra i quali non sempre era dato disporre di una bussola.
Sono costanti, invece, le lagnanze del Galateo sia in ordine a insinuazioni, a suo giudizio calunniose, circa il comportamento assunto di fronte agli eventi, sia in relazione a certi suoi beni materiali, come la assai cara sua villula triputeana, bersaglio di rustici malevoli, non meno che di “infideles” o di mercenari al soldo di Venezia (Ep. XVI, De Villae incendio). In certi casi l’occhio del Galateo è davvero lungimirante e presago, come nella Epistola III, De situ terrarum (indirizzata, non casualmente, al Sannazaro), nella quale si affronta l’argomento delle scoperte geografiche oltre Atlantico ed il problema dei rapporti tra Occidente latino e America. Vi si registra il dibattito, coinvolgente altri interlocutori, per concludere che il vecchio continente, attraverso le scoperte, veicolava la corruzione tra le popolazioni indigene. (Ricordo incidentalmente che il tema sarà ripreso da Montaigne, con esiti non diversi, col mito gratificante del “buon selvaggio”). Estrapoliamo qualche passo:

O macti iterum atque iterum virtute viri, facinus ausi magnum et memorabile! Sed nescio an gentibus quas reperistis in bonum cessit. Vere fortunatae gentes et, ut ait Horatius, beatorum insulae, suis contentae rebus, aurea vivebant specula (“E bravi, veramente bravi per il vostro coraggio, uomini che avete osato un’impresa grande e memorabile! Ma non so se sia andata bene alle genti che avete scoperte. Genti davvero fortunate e, come dice Orazio, isole felici, che, contente delle loro cose, vivevano epoche d’oro”).

Vereor nedum vos ad cultiorem vitam illas ducere creditis, dum religiones, dum leges, dum varias artes, dum vestes, dum ornatus […] afferre curatis, ingeneratis simul et nostra vitia, tyrannides, ambitiones, arma et machinamenta bellica servitutes […], immensam habendi cupiditatem… (“Temo che, mentre credete di condurli ad una vita più raffinata, mentre vi preoccupate di portar loro riti religiosi, leggi, arti varie, vesti, ornamenti […], introduciate anche i nostri vizi, le tirannidi, le rivalità, le armi e le macchine da guerra, i vincoli servili […], la sfrenata cupidigia di possedere”).


E non è – ci domandiamo – l’esaltazione della natura, di per sé buona, di contro alla civiltà, facile a degenerare? Verrà Rousseau a ribadirlo (lo diciamo incidentalmente) con maggiore forza argomentativa; forse non ignorando l’Arcadia di Sannazaro; e verrà il romanticismo e l’età contemporanea, con la distinzione tra die Natur (Kultur) e die Zivilisation (in Thomas Mann, ad esempio).

Il luogo di osservazione e meditazione del Galateo sulla realtà contemporanea variava; era la sua stessa terra d’origine, tra Gallipoli e Lecce, o più frequentemente la capitale del Regno, dove, la sua presenza a corte non era nelle vesti del funzionario d’alto rango ma in quelle più dignitose e libere del protomedico di fiducia; il che garantiva indipendenza di giudizi e di comportamenti. Quando il Pontano gli rivolse un giorno l’invito a godere della gioia dei Bagni di Baia, egli ricusò, non intendendo partecipare alla vita allegra della società nobiliare e borghese: rara testimonianza – scrive Tateo – «di una singolare personalità, schiva di piaceri, impegnata nella scienza».
La scelta del genere letterario dell’epistola non risponde a esigenze di pura retorica, in più luoghi denunciata dal De Ferrariis come nefasta, ma a motivi di ordine morale, che dunque non sembrano richiamarsi al modello dell’Arpinate, che come uomo il Galateo stimava assai poco, bensì al modello delle senecane Epsitulae morales o delle Seniles del Petrarca (nelle più confidenziali). Bastano a dimostrarlo alcuni titoli: De beneficio indignis collocato (Ep. II), De gloria contemmenda (Ep. V), DE distinctione umani generis et nobilitate (Ep. XIV), De constantia humani animi (Ep. XVII), De nobilitate (Ep. XLI): temi propri dell’umanesimo civile, che, indubbiamente, di qua dal ciceronianesimo delle “simiae”, risentivano dei testi dei grandi classici della latinità; e mi limito a citare in proposito i cinque libri delle Tusculanae disputationes.
Allo schema espositivo delle Seniles petrarchesco ci riconduce la Callipolis descriptio (indirizzata all’amico letterato pontaniano Pietro Summonte), lì dove il Galateo, che era anche uno scrupoloso medico di base nella sua terra, narra come sia solito trascorrere le giornate. È la ep. XXXVI, del 1513, oggetto di studio, con finissima traduzione, di Amleto Pallara (in Lettere, cit., pp. 75-116). Stralciamo qualche passo:
Hic ego et cibo et somno parcius utor, valeo athletice. Tercia aut quarta noctis hora eo dormitum; nona aut decima surgo: lego aliquid aut scribo. Quid faciam? Dormire amplius nequeo […]. Reviso annotationes meas, hoc est antiquos labores meos, qui mihi sunt maximae voluptati, nedum solatio […]. Ante orientem solem, si dies festus est aut profestus, rei divinae vaco in templo divae virginis Agathae; sin nefastus, domi mane deos oro. Ad primam lucem urbem circumeo, aegrotos visito, deinde prandeo sobrie, ut meus est mos […]. Post prandium lego aliquid facile, non quod mentem agitet, sed quod levet atque delectet […]. Eo tempore veniunt ad me aliqui, qui de salute sua consulant […]. Vicesima hora aegrotos reviso: ascendo, descendo, laboro, discurro, sudo, quamvis bruma sit prope. Tandem defessus ac defatigatus ad primas faces domum redeo, ubi aliqui non ignavi ingenii viri me expectant, qui me audiant de philosophia, de moribus, de mathematica, exoterice non acroamatice disserentem. Talis Galatei tui vita.

Con questo brano, si è inteso dare al lettore un breve saggio del latino galateano, come, con la relativa traduzione che qui segue, un’idea della meritoria adeguatezza stilistica della lingua di Dante:

Io mangio molto moderatamente e dormo poco, sono in forma come un atleta. Tre o quattro ore dopo il tramonto vado a dormire, mi alzo dopo sei ore: leggo qualcosa e scrivo. Che dovrei fare? Non mi va di dormire di più […]. Rivedo i miei scritti, cioè i miei vecchi lavori, che mi procurano grandissimo piacere, nonché molto conforto […]. Prima che spunti il sole, se si tratta di un giorno festivo o di una vigilia, assisto alla messa nella chiesa di Sant’Agata Vergine; se si tratta di un giorno feriale, la mattina prego Dio in casa mia. Ai primi chiarori dell’alba mi metto in cammino per la città e visito i malati; poi faccio colazione sobriamente, com’è mia abitudine […]. Dopo pranzo leggo qualcosa non impegnativo, che non affatichi la mente, ma distragga e diletti […]. È questa l’ora in cui vengono da me coloro che vogliono consultarmi […]. Verso le quattordici torno a visitare gli ammalati: salgo, scendo, mi affanno, corro di qua e di là e sudo, benché l’inverno sia imminente. Finalmente, quando comincia ad annottare, stanco e sfinito torno a casa, dove mi attendono alcuni uomini di non poco ingegno per sentirmi parlare alla buona, non come un cattedratico, di filosofia, di morale, di matematica. Così vive il tuo Galateo.

Ma la lettera, a parte l’idealizzazione piuttosto oleografica della città, una sorta di ÐóÏÈÝ modello, platonica, e dei suoi abitanti, contiene una serie di giudizi etico-civili sulle classi sociali egemoni, che, a scanso del malanimo altrui, già sperimentato dal Galateo, gli derivano – dice e ripete – dalla conoscenza diretta: An quod experientia compertum habemus, falsum esse putemus? E lo sguardo del nostro moralizzatore va oltre i confini della città, con la consapevolezza sia pure della inutilità dei suoi ammonimenti. Egli avverte la «missione del dotto», per dir così, anche se le sue denunce e rampogne che, a volte, echeggiano l’asprezza di Dante, cadranno nel vano; perché «le orecchie di molti sono più aperte al falso che al vero e – come afferma Aristotele – molte cose false sono più accettate di quelle vere, e generalmente anche più gradite». Così è accaduto, e accade, che nessun adulatore «necatum fuisse ob assentationes, sed ditatum et locupletatum et saginatum»; al contrario, sono finiti, e finiscono male, «bene et recte monentes et optima consulentes».

I militari? son «vanagloriosi, millantatori, tracotanti, contumeliosi» (altrettanti Pirgopolinici); i mercanti? sono «spergiuri, parolai, impostori, malfidi»; i medici? «leggeri, vanitosi, intemperanti, donnaioli»; i politici? «presuntuosi, ambiziosi, sprezzanti», e ad essi il nostro fustigatore riserva la sentenza del profeta: Homo, cum in honore esset, non intellexit; comparatus est iumentis insipientibus et similis factus est illis («Quando l’uomo è in auge perde l’intelletto, si comporta come le bestie prive di ragione e diviene simile a queste»). La stoccata più micidiale si abbatte sui legulei:
contentiosos, iniustos, modo harum modo illarum partium patronos, mendaciorum concinnatores, satores et fautores litium et dorophagos, et lucri cupidos exemplo et Crassi et Hortensii («Attaccabrighe, iniqui, difensori ora di questa parte in causa ora della parte avversa, abili inventori di menzogne, fautori e alimentatori di discordie, divoratori di doni ed avidi di ricchezze come dimostrano Crasso e Ortensio»).

È la giurisdizione operante in terra Japigia al tempo del De Ferrariis e che si protrarrà sino al Settecento, per essere poi denunciata dall’illuminista Giuseppe Maria Galanti.
Le riserve che non di rado vengono formulate sulla coerenza comportamentale nei confronti del potere politico, della classe colta dell’età dell’umanesimo (si pensi al trasformismo del Pontano), non intaccano la figura del Galateo, che più di ogni altro mostra di avere viva coscienza della crisi che attraversa l’Europa cristiana, con le naturali ricadute periferiche. Da questa coscienza nascono due sue opere, l’Heremita e l’Esposizione del Pater Noster, questa seconda studiata dal Pallara, senza ignorare la prima. Troppo compromesse sono le gerarchie ecclesiastiche con le ragioni di Stato, che poi si immedesimano con quelle dei ceti dominanti, ed è il nucleo ispiratore dell’Heremita; troppo superficialmente avvertito dai credenti, il messaggio dell’orazione domenicale, bisogna dunque rinverdirlo, con una minuziosa e documentata esposizione.

Qualche suggestione dantesca è evidente ne l’Heremita, personaggio immaginario ma assai verosimile, alla cui morte se ne contendono l’anima, da gran peccatore pentito, sia il diavolo che l’angelo, come appunto narra Dante nel Purgatorio (c. V, 103-108), per bocca di Bonconte da Montefeltro; come a me pare risenta del caustico Luciano di Samosata, ambientando i dialoghi tra l’eremita e altri personaggi nell’aldilà. Il motivo ispiratore è la necessità di una riforma religiosa, in tempi di sussulti scissionistici, di qua e di là dalle Alpi, che è a sua volta ritenuta dal Galateo preliminare per una più vasta riforma etico-intellettuale. È certo un testo carico di troppe allusioni al clima corrotto del tempo, e l’eremita, ormai sulla via della redenzione, non risparmia i suoi fendenti; se ne sente, come il suo ideatore, autorizzato, perché il Galateo, se non ha l’intransigenza di un Savonarola, profondamente religioso qual è, serba, nelle sue invettive, il rigore dei grandi utopisti dell’epoca rinascimentale, da Erasmo a Tommaso Moro. Il valido studioso locale Antonio Elia, scrive in proposito, con altri: «Sono molti i riflessi autobiografici e nella figura dell’Eremita che si ritira nella spelonca è certamente adombrata quella del Galateo, che in un periodo di particolari difficoltà e incomprensioni, si rifugia nella sua villetta di Trepuzzi, ad imprecare nei suoi scritti contro il dilagare del malcostume del tempo». Su questa villetta torneremo più avanti, con Amleto Pallara e Antonio Elia.

Il Pater Noster è il solo testo galateano redatto in un volgare salentinizzato, perché, ancora sull’esempio di Dante, era destinato non ai dotti ma al più vasto pubblico: un commento analitico sostenuto da dottrina classica e cristiana e da esperienza di vita, che abbraccia le corti e i tuguri, le grandi vicende della storia e le oscure sofferenze quotidiane. Col metodo a lui usuale, il Galateo si avvale delle attestazioni letterarie di autori, oltre che greci e latini, anche italiani, purché non in “vernaculo”, salvo per quanti – come precisa il Pallara – «abbiano un contenuto morale o politico che riscuota la sua approvazione di uomo di sani principi e di cristiano convinto o di italiano orgoglioso delle nostre tradizioni, o di fedele (nostalgico) suddito degli Aragonesi» (Noterelle in margine all’Esposizione del Pater Noster di A. Galateo, in “Studi di storia e cultura meridionale”, 1992, pp. 73-89).

Della corona Dante, Petrarca e Boccaccio, non si rinvengono echi linguistici del poeta di Laura, né dell’autore del Decamerone, mentre dimostra di «conoscere bene e apprezzare il solo Dante, tanto da adottare non solo singole espressioni ma versi interi».
Sarebbe in questa sede inopportuno entrare nei dettagli della illustrazione di Pallara, giova invece riferire del Galateo alcuni passi del suo testo, che fanno luce sul suo pensiero filosofico, in qualche punto non molto distante dal realismo di Machiavelli, nel contrapporre ad esempio i concetti di virtù e fortuna: «che potimo fare noi? Potimo tenere lo curso di lo cielo, le vicissitudini de le cose humane di questo mundo, che non potimo tenere un capillo del capo nostro, che non casca, excepto si volessimo lo capo con capilli strani». Ancor più significativa la rivendicazione della priorità della lingua materna sulla lingua latina, non meno che sulla lingua “etrusca”, cioè toscana; che è una posizione di straordinaria audacia sia rispetto agli statuti dell’Accademia pontaniana che in relazione al bembismo incipiente:

Hogie in Italia è venuta la cosa ad tale che, chi non parla a punto el toscano non pare che sia italiano, e più che ad alcuni pare multo bello e de homo prattico e cortesano sapere Francese e Castigliano. Ad me […] el troppo ornato parlare dispiace. Attendamo più al ben vivere che non allo bello dire, e si potessimo, come dice Seneca, manifestare li concepti de la mente nostra senza parlare, lo doveriamo fare. Quello parlare elegante, exquisito et affettato è cosa de homeni chi non pensano in altro, si non a ben parlare. Questa cosa fu odiosa ad Plato, Aristotele, Seneca, fì alli maestri de la eloquentia Tullio e Quintiliano, e a tutti li filosofi e theologi e a nostro Signore et alli suoi Evangelisti e Propheti […]. Io parlarò con quella medesima lengua che ho imparato da la mia nutrice […]. Sia felice quello che è nato in patria dove si parla bene, ma più felice saria quello chi fosse nato in patria dove se vivesse bene.
Non poche di queste convinzioni si rintracciano alla base sia della Vituperatio litterarum sia del De suo scribendi genere, come vedremo.
Si è fatto cenno in precedenza della villetta trepuzzina, posseduta dal Galateo a poca distanza da Lecce, dove era solito “rifugiarsi” dalle fatiche “professionali” e dedicarsi allo scrivere. Negli anni delle scorrerie turche e veneziane, tra il 1480 e il 1484, era già stata bersaglio di devastazione; ma un giorno se la vide investita da un incendio, e se ne duole assai con l’amico Crisostomo Colonna, nell’Ep. XVI, De villae incendio. È anche questa oggetto di studio di Pallara, che fra l’altro così ne scrive: «È una lettera quanto mai vivace, e, nonostante le apparenze, dall’inizio alla fine vibrante di affetto, di orgoglio, di commozione, di dispetto, di tristezza e di nostalgia, nella quale questi sentimenti sono espressi in una lingua che, intessuta di locuzioni di scrittori che abbracciano un vasto arco della letteratura latina divenuta duttile e malleabile, appare fresca, nativa e genuina nelle mani di un umanista che l’ha fatta propria e, perciò, se ne serve con straordinaria perizia e, spesso, notevole eleganza» (in Contributi, Anno V, n. 1, marzo 1986, pp. 47-64). Da quanto ha potuto ricostruire in loco il citato Antonio Elia, era una tenuta di non piccole proporzioni, che il Galateo, da buon pater familias, intendeva destinare ai suoi cinque figli e ai nipoti; il vocabolo villula è dunque più un vezzeggiativo che un diminutivo, se l’oliveto comprendeva ben settecento alberi. Leggiamone il passo più vibrante di commosso lirismo:

Accedit quod, male flantibus etesiis, triputeanam villulam meam, hoc est plusquam dimidium bonorum meorum, ignis obsumpsit, nec Superi vellent hoc licuisse sibi. Quas plantavi arbores, quarum toties inutilis ramos curva falce amputavi, pro quibus toties incalluit haec insueta laboribus manus, hisce oculis vidi crepitantibus flammis exuri […]. Miserabile spectaculum! Vidi flammarum globos ex hac in illam arborem volitantes; vidi Dryadas, animulas arbuscularum mearum, per nigrum fumum et atram caliginem, per vacuum aera gementes fugientesque et execrantes incendiarii illius impias manus. Pereas tu, quis quis es, immo et scelerate rustice, qui leves stipulas et inanes culmos arida primum parvo igni alimenta congessisti! Obstruatur fune pestilens ille spirilus, qui lentum et nascentem ignem excitavit! (Come se ciò ancora non bastasse, a causa dei venti canicolari, male spiranti per me, il fuoco (e gli dei non avessero voluto attribuirsi il diritto di farlo!) ha distrutto la mia villetta di Trepuzzi, cioè più della metà dei miei beni. Quegli alberelli che avevo piantato, che tante volte avevo potato col rocchetto ricurvo, per i quali tante volte si era incallita la mia mano non avvezza a simili lavori, con questi occhi li ho visti ardere, avvolti dalle fiamme crepitanti […]. Spettacolo veramente pietoso! Ho visto le lingue di fuoco passare rapide da questo a quell’albero, ho visto le Driadi, le piccole anime dei miei alberelli, fuggire attraverso il fumo nero e la fosca caligine, per il libero cielo, gemendo e maledicendo le mani scellerate di quell’incendiario. Possa morire tu, chiunque sia, incauto, anzi infame bifolco, che ammucchiasti i culmi vuoti e la paglia leggera, in cui, secchi com’erano, trovò facile esca quello che in principio era un piccolo fuoco. Sia soffocato con un capestro quel soffio pestilenziale dal quale presero vigore le fiamme che lentamente si sprigionavano).

Qualche notizia merita di essere data sui risultati dell’acuto esame compiuto da Pallara su un altro testo controverso del Galateo, l’Epistola XXV A Crisostomo, circa la presunta fondazione di una “accademiola” a Lecce, sul modello della Pontaniana. Sono stati in non pochi a ritenerla, appunto, di natura rigorosamente culturale, da Benedetto Croce a Nicola Vacca ad Aldo Vallone (per citarne i più autorevoli). Ma il nostro studioso, con le appuntite armi della filologia e della esegesi, smonta tale convinzione o ipotesi che fosse. Così conclude: «A differenza della Pontaniana, l’accademiola del Galateo era costituita solo da otto brave persone, senza particolari comuni interessi culturali che si riunivano saltuariamente nella casa dell’Ingenuo (uno degli otto), per consumare una frugale cena e per poter parlare liberamente, al riparo delle orecchie indiscrete dei prepotenti o dei delatori o dei detrattori». Per Pallara la data della lettera è il 1499, in prossimità dell’inizio della guerra turco-veneta, e gli amici lamentavano, tra loro, la fragilità dello Stato napoletano a preservarsene immune. Ma non per questo, riprende Pallara, si può ritenerla «una specie di loggia o vendita o comechesivoglia chiamarla, di una setta a promuovere i vantaggi di Casa d’Aragona, contro tutti che fossero palesi o nascosti nemici», che è stata l’opinione del De Simone; contro cui ribatte il Nostro: «che, anzi, agli occhi dei filo-aragonesi doveva essere tutt’altro» (in Sallentum, nn. 1-2-3, gennaio-dicembre 1986, pp. 33-52).

La questione ebraica, com’è noto, è antica e dibattuta quanto, forse, lo è la storia che i profeti hanno affidato alle Sacre Scritture; è anche singolare per la molteplicità dei suoi aspetti, dall’etnico al religioso, dal culturale al politico; negli anni del Galateo, poi, vieppiù sentita, nella paventata imminenza delle guerre di religione. Di qui l’accostamento e l’assorbimento di quella cultura da parte di un Pico della Mirandola; di qui, anche, l’interesse del De Ferrariis per il popolo ebraico, nell’Ep. XXXV De Neophytis. Agisce in Pico come nel Galateo il concetto della universale humanitas, che non discrimina tra gli individui come tra i popoli. L’epistola è tutta una esaltazione motivata degli ebrei, della loro storia, della loro cultura, con accenti che sfiorano il profetismo:

Si christiani sumus, si semen Abrahae nos esse quotidie palam in templis profitemur, si Christum, magistrum et dominum colimus, quare iudaicam originem, inter omnes barbaros in omni virtute praestantissimam et iustissimam, abominamur? (Se siamo cristiani, se ogni giorno apertamente professiamo nelle chiese di essere seme di Abramo, se veneriamo Cristo quale maestro e signore, perché abominiamo il popolo ebraico, quello che tra tutti gli altri popoli eccelle per ogni virtù, il più giusto di tutti?).
E io ritengo che la scelta di questa epistola è ben mirata, nelle intenzioni di Amleto Pallara, di qua dalle solite cruces che tutte le lettere galateane serbano in sé, per le traversie della loro tradizione manoscritta (nelle citt. Lettere, pp. 171-181).


Le tre epistole, IV Apologeticon, XXXIII Vituperatio litterarum, XXXIV De suo scribendi genere, differiscono dalle altre, perché di argomento assiologicamente letterario. Il principio di fondo, cui si richiamano direttamente o indirettamente, è la reciproca convertibilità delle cose con le parole (res et verba convertuntur), che, diciamo noi subito, rappresenterà il concetto basilare della letteratura illuministica. La prima è un’autodifesa contro chi gli “rimprovera” una certa sciatteria formale, una presunta improvvisazione stilistica, una qualche rozzezza grammaticale: autodifesa che poggia preminentemente su motivazioni di natura morale. Insomma, è più importante per la vita degli individui e dunque della collettività, l’attenzione esclusiva agli amminicoli retorici, alle regole del dire, o piuttosto l’esemplarità di un’esistenza, la pratica dei buoni costumi?

Scriva con eleganza e raffinatezza, come facevano gli Attici, chi vuole; io parlo come mi pare: mi impongo di evitare i solecismi solamente nella vita e nella medicina che esercito, nella quale sono in gioco non il significato delle parole, ma la vita umana. Pensiamo a quello che dobbiamo fare, non al modo come dobbiamo parlare (Quid agendum nobis sit cogitemus, non quid dicendum). Io, sia quando parlo sia quando scrivo, seguo questo criterio: mi esprimo con semplicità […]; importante è per me manifestare quello che è, non certo scegliere con cura i vocaboli, o badare alle parole: libere vivo, liberius loquor.

È la priorità della cose che importa salvaguardare; con gli assiomi dell’arcigno Catone – ricordiamo noi –: rem tene, verba sequentur, donde discende il vir bonus dicendi peritus. Io penso che l’interesse di Amleto Pallara anche per l’Apologeticon (op. cit., pp. 153-170), che egli arricchisce di un sorprendente apparato di chiose, rispecchia l’estrema serietà dell’uomo Pallara nello studioso, tanto più evidente quanto maggiore è l’umiltà investigativa di lui nell’accostarsi ai testi e controllata l’estrema prudenza nell’argomentare e nel congetturare. Ma occorre da parte mia un’ulteriore noticina storico-culturale: e non è, questa autodifesa dello scienziato De Ferrariis, un’eco della più nota invettiva di Leonardo, omo sanza lettere, contro la fungaia dei “trombetti”?

E siamo giunti al testo più tormentato dall’autore e più controverso tra i suoi interpreti, nella prospettiva non facile di una condivisa o condivisibile edizione critica: la Vituperatio litterarum, indirizzata a Belisario Acquaviva, allievo del Pontano e uomo d’arme, che, a fianco dell’aragonese re Ferrandino, contrastò valorosamente l’avanzata di Carlo VIII. Per questa fedeltà al sovrano, rimarchevole in quei tempi di diffuso trasformismo opportunistico, ottenne il feudo di Nardò col titolo di conte. Un testo controbverso, dicevamo, in più punti della tradizione manoscritta e perciò, per molti aspetti, una crux speciale, sui cui Amleto Pallara, senza nascondersi le difficoltà talora impervie, riesce a gettare forse decisivi fasci di luce. Nel cit. vol. Lettere (p. 9-73), al capitolo introduttivo segue il testo dell’epistola, emendato degli errori e delle omissioni, con in più un imponente apparato delle fonti greco-latine, cui direttamente o indirettamente vi si richiama il Galateo. La Vituperatio inoltre costituisce essa stessa, per il suo contenuto, non scevro di punte in apparenza paradossali, e nel merito, essendo altro il compito di Pallara, egli si appella alle conclusioni incontestabili di Donato Moro e della Andreoli Nemola. Ossia, bersaglio della Vituperatio non è la letteratura in sé, come, a lungo, si è immaginato, bensì il malo uso che ne fanno i “grammaticuli”, coloro che (ed è il leit motiv dell’Apologeticon) dissociano le res dai verba, i mestieranti insomma che non si curano del ben vivere quanto del bello dire. Quella del Galateo è dunque la riproposizione di un ideale di letteratura non disgiunta dalla “sapienza”, cui perciò compete una ineludibile “missione d’incivilimento” dell’umanità. Non disponendo io degli strumenti adatti per penetrare nel dedalo della controversia, mi limito a qualche diretto rinvio sia al testo latino, come emendato e restituito alla sua più probabile autenticità da Pallara, sia al corrispondente passo della traduzione.

Veritas et monita praeceptaque sapientum probis hominibus grata et iucunda sunt, pravis vero molesta et odiosa; litterae, ut et virtutes, ut dixi, sic et vitia fovere et augere solent. Hae igitur, ut aiunt, non meliorem hominem reddunt, sed politiorem et forte in alterutram partem (La verità, gli ammonimenti e i precetti dei sapienti sono bene accetti e graditi agli uomini probi, odiosi e fastidiosi agli uomini pravi; le lettere, lo ripeto, sogliono alimentare e accrescere così le virtù, come i vizi. Esse pertanto, come è stato detto, non rendono l’uomo migliore ma più rifinito e raffinato, secondo i casi, nel bene e nel male).

Via via che s’inoltrava nella conoscenza del Galateo e ne scopriva, specialmente in alcune, il sotteso spessore etico, Amleto Pallara avvertiva l’opportunità di allargare la cerchia dei lettori, almeno delle epistole, oggetto dei suoi studi; l’idea di tradurle nella nostra lingua è nata in lui anche dalla percezione di tale opportunità.

Tornando alla terza epistola di argomento letterario, contenuta in Appendice al cit. volume Lettere (pp. 143-152) col titolo De suo scribendi genere, osservo che nell’ultima revisione di Pallara, di cui si è detto nella nota, il titolo è significativamente mutato in “De suo scribendi genere” vel “excusatio vituperationis”: mutamento che avrebbe richiesto un’adeguata spiegazione, che però la morte gli ha impedito. Risale all’anno stesso della Vituperatio, 1513, di poco posteriore; al solito, anch’essa, munita di un massiccio corredo di glosse, su cui, in questa sede, non si può che sorvolare. Il passo che va invece riferito, a parziale spiegazione del nuovo titolo, è il seguente:

Curae sunt mihi non verba sed sententiae, eruditio non elocutio. Nec ignoro nonnullos doctorum hominum offensum iri, cum litteras abominor, execror, profano. At siquis mentem non verba inspexerit, cognoscet me nunc maxime litteras laudare cum vitupero (A me sta a cuore non l’espressione ma il pensiero, la dottrina non il modo di esporla. So bene che non pochi uomini dotti si sdegneranno, sentendomi detestare, esecrare, vituperare le lettere. Ma se qualcuno di essi terrà conto delle mie intenzioni e non delle mie parole, comprenderà che io mostro grande apprezzamento per le lettere proprio quando ne parlo male).

Ormai sappiamo che il De Ferrariis, come comportava il costume umanistico, a sostegno delle sue opinioni si appellava alle massime autorità del mondo classico. Eccolo qui:

Dicono che Platone facesse sfoggio di retorica specialmente allorché attaccava i retori, dimostrasse la sua grande ammirazione per Omero e per gli altri poeti specialmente quando sosteneva che i poeti dovessero essere banditi dalla sua repubblica (Aiunt Platonem tunc maxime usum retorica, cum contra rhetores invehebatur; tunc Homerum ceterosque pöetas admiratum, cum illos a sua re pubblica eiiciebat).

Una excusatio dunque a tamponare l’ondata verbosa dei malevoli, dei quali il De Ferrariis si sentiva occulto o pubblico bersaglio da tempo; come del resto accade in tempi di sconvolgimenti storici. Sicché io suppongo che a ragion veduta il Pallara abbia voluto studiare e ampiamente postillare le due epistole (XXIII e XXIV) De Turcarum apparatu (op. cit. pp. 183-198); in un passo della prima si lamenta la strumentalità opportunistica di scambiare la prudenza per viltà e un forte amor di patria per il suo contrario:

Se qualcuno di noi mostra di temere la tempesta che ci sovrasta, viene ritenuto vile e pazzo e nemico nello stesso tempo del re e della patria. Ecco in quale stato siamo ridotti: a coloro, ai quali non è consentito di parlare, non è permesso neanche di temere, cosa che non è negata neppure agli schiavi.

E la tempesta è duplice, ottomana e veneziana; «Quel non aver timore, credimi [il destinatario della lettera è il conte di Potenza], non si può avere che a caro prezzo, cioè al prezzo di una reputazione di inettitudine o di stupidità o di incoscienza o (cosa che taluni ritengono più scusabile) di finzione». Con la rivendicazione di un sensus sui di tempra socratica:

Non timebo ego mortem. Hoc viro dignum est; nam si non aliud bonum, finis tamen malorum est. At non timere servitutem, ignominiam suam ac suorum, stupra, verbera, compedes barbarorum, durum atque inhumanum imperium, divinarum atque humanarum rerum eversionem, hoc viro minime dignum est (Io non ho paura della morte, e questo è sentire da vero uomo: la morte, infatti, se non è essa stessa un bene, è tuttavia la fine di ogni male. Ma non temere la schiavitù, il disonore proprio e dei propri cari, gli stupri, le frustate, i ceppi, l’oppressione spietata e disumana dei barbari, non è affatto degno di un vero uomo).

Il ricordo del sacco di Otranto del 1480 è ancora vivo. Negli anni in cui precipitava la crisi italiana e il Machiavelli per arrestarne il processo elaborava la sua dottrina dello Stato, anche il De Ferrariis rifletteva su di essa, non da storico né da politico stricto sensu né da semplice suddito aragonese, e confidava le sue considerazioni al tranese Eleazaro, medico di Federico D’Aragona, in un epistola (la XXXIX, op. cit., pp. 117-137), il cui studio costituisce l’ultima fatica di Amleto Pallara; studio ripartito in tre densissimi paragrafi: “I manoscritti e le edizioni”, “La presente edizione”, “Il destinatario e la datazione”. Per esprimere il suo pensiero sulla crisi italiana, col tipico accorgimento umanistico, il protomedico e letterato De Ferrariis ricorre alla massima auctoritas della sapienza e della esperienza, la Bibbia. La lettera si apre infatti con la figura di un sovrano, il re David, che abusa del suo immenso potere per possedere la bellissima Betsabea, «moglie di Uria l’hitteo, guerriero forte e valoroso». La stessa sorte subisce l’Italia, altrettanto bella e preda della cupidigia straniera, propriamente di Ferdinando il Cattolico, spagnolo, e Luigi XII, francese, con la complicità di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI. Ma a prestarsi a tale cupidigia (e a questo punto l’analogia con Betsabea cessa), è l’infelice Italia stessa, leggera, volubile, causa della propria rovina, amica degli stranieri, la quale un tempo fu nutrice, anzi madre affettuosa di tutte le genti e ora languisce come una prostituta, con le vesti lacere, con le membra dilaniate (Infelix Italia, levis, inconstans, in sui perniciem igeniosa, exterorum amica et quae, quomdam alumna immo mater pia omnium gentium fuerat, nunc prostituta iacet, discissis vestibus, laniatis membris).

Noi abbiamo qui ridotto all’osso l’articolata allegoria che muove dalla Bibbia per arrivare ai giorni del nostro umanista di Galatone; il quale, col tema della “bellezza d’Italia”, si colloca al centro di una tradizione topica, che va dal Petrarca («Italia mia, benché il parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio…») a Vincenzo Filicaia («Italia, Italia, o tu cui feo la sorte / dono infelice di bellezza, ond’hai / funesta dote d’infiniti guai / che in fronte scritti per gran doglia parte»), e che, com’è noto, prosegue con Leopardi. Per queste risonanze dell’epistola ad Eleazaro, non mi sentirei di escludere una qualche sintonia del Pallara, a motivazione del suo interesse filologico ed esegetico per essa. Perché, chi ha conosciuto Amleto Pallara, sa che nell’acuto studioso, nel fine letterato, nell’irreprensibile docente, si è sempre accompagnata, persuasivamente, la limpida personalità dell’uomo.

 

   
   
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