Forse non cambia
il senso intimo,
essenziale,
radicale di
Finibusterrae,
che è un senso
di precarietà,
di finitudine,
di sospensione nel vuoto.
|
|
Poi bisognerebbe anche dimenticare i nomi dei luoghi, dei paesi,
delle pietre, i nomi dei dolmen, dei menhir, delle chiese, tutti
i nomi avuti in eredità preziosa, bisognerebbe dimenticarli
tutti, cancellarli dalla mappa della propria conoscenza, per vedere
se riemergono dal fondo del nulla, se si ripropongono così
come sono, identici, per capire se davvero i nomi sono necessaria
conseguenza delle cose.
Smemorati di ogni nome bisognerebbe solo fermarsi al limitare, al
punto in cui la terra si distende sopra il mare (o è il mare
che dilaga sulla terra?).
Bisognerebbe restare lì, per un istante solo, sul confine
senza appiglio di uno scoglio, per sentire se non cè
un altro nome, un altro nome possibile, diverso da quello che è
stato dato a un luogo chiamato Finibusterrae. Argine, compimento,
conclusione. Oppure inizio, sconfinamento, viaggio, fuga, navigazione
per lignoto, sospensione del tempo, del destino.

Dimenticare i nomi e tutte le parole che il tempo ha innestato
su quei nomi, per vedere se altre parole riescono a stringere il
senso dei luoghi, a raccontarli nella loro essenza, nella loro cifra
misteriosa.
Dimenticare le parole di Vittorio Bodini, le sue evocazioni di leggenda,
le ombre dei morti che fanno ritorno col cappello in testa ai piedi
di un faro che contiene lessenza delle storie che vanno per
mare e per terra. Dimenticare le parole di Vittorio Pagano. Quelle
parole come pennellate sanguigne sui colori di una tela di Vincenzo
Ciardo, che raccontano di sirene negli occhi, «esca felice
ai morti, al sogno duna nostra Sfinge».
Dimenticare le parole di Luigi Corvaglia. Un intero romanzo. Dove
si narra di antichi e recenti Dei terminali, di Finibusterrae (ma
Corvaglia usa la forma Finibusterre), scheletro gigantesco spazzato
dal vento, della roccia calva che si trascina carponi fino al mare,
di spiagge flagellate e róse. Dove si narra di uomini che
si muovono assorti e lenti, seguendo il ritmo intimo di una monotonia,
che parlano come se ruminassero, lentamente, una lingua aspra, cupa,
povera di immagini, virile, quasi ieratica, latina ed ellenica ancora,
in buona parte. Così dice Luigi Corvaglia.
Sono uomini che sorridono di rado, dice. Il loro riso è uno
spasmo. La lotta secolare con la terra e coi turcheschi li ha trasformati
in creature chiuse e sospettose.
Ancora. Dice Don Paolo, un personaggio del romanzo di Corvaglia:
«Il Signore per dar forma allanima salentina scelse
la pietra. Dalla roccia veniamo e vi ritorniamo». Poi dice
che noi siamo pietra viva che resiste allacciaio, ma che nel
momento in cui viene segnata conserva in eterno limpronta
della passione.
Dimenticare tutto questo, allora. O almeno prendere atto che tutto
questo è cambiato. Che i paesaggi si sono trasformati. Che
alcune storie sono finite, altre sono iniziate. Che sono diverse,
completamente diverse da come sono state. Trame diverse. Intrecci
diversi. Diversi i luoghi e i personaggi. Diversi i tempi degli
accadimenti dei fatti. Diversa la sostanza e lapparenza, il
concetto di diverso e di uguale, di vero e di falso, di apparenza
e sostanza, di memoria e oblio. Forse è diverso anche il
concetto di passato, o quello di tempo nella sua significanza particolare
e globale.

Però cè qualcosa, forse, che resta immutato,
che appartiene ad un codice genetico, alla profondità di
unantropologia, ad una dimensione non sempre completamente
decifrabile, ad una sorta di linguaggio segreto con il quale gli
esseri e la terra riescono a parlarsi e a comprendersi.
Diceva Antonio Verri: cambierà il volto della campagna, quello
degli aggregati umani, di interi paesi; cambieranno abitudini, i
modi di lavoro, i rapporti tra la gente; ma «quel che non
cambierà mai sarà lidea del dialogo con la terra»;
sarà «il grosso respiro, il sibilo lungo che si può
udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con
accanto sentinelle silenziose gli alberi dargento».
Poi cè altro, forse, che non cambia. Forse non cambia
il senso intimo, essenziale, radicale di Finibusterrae, che è
un senso di precarietà, di finitudine, di sospensione nel
vuoto. Non cambia quellaspettarsi ad ogni istante lo sbriciolarsi
della terra sotto i piedi, lo sprofondare nellabisso, il naufragare
nei due mari che corteggiano la terra come pazienti innamorati,
o come re defraudati che pretendono di riconquistare i domini. Se
lo chiedeva Vittorio Bodini.
Ma dovè Finibusterrae? Fuori dai confini della geografia,
adeguati al tempo i significati della storia, Finibusterrae dovè?
Con quale luogo si può identificare? Oppure occorre andare
al di là del luogo, fuoriuscire anche dai territori di una
tradizione semantica, considerare la possibilità di uno smottamento
dei significati, reinterpretarli e annodarli come maglie nella rete
antropologica di Mediterraneo ed Europa?
Probabilmente non è più possibile pensare il Salento,
o Finibusterrae, o quella Terra dOtranto immaginata
quasi miticamente allo stesso tempo radicata nella terraferma
e spinta, protesa verso il mare, sporgente sul mare, senza ripensare,
ricostruire, quel senso di appartenenza, quel legame originario,
sentito e dichiarato da Vittorio Bodini: «Il Sud ci fu padre
/ e nostra madre lEuropa».
Allora dovè Finibusterrae? Forse può essere
ogni luogo oppure nessun luogo. Può essere Leuca, Otranto,
Castro, Gallipoli, Santa Cesarea, oppure qualsiasi altro piccolo
o grande paese. Forse dipende soltanto dal senso che attribuiamo
al nostro essere ed esistere in questa penisola della penisola,
che realmente finisce dove comincia quella metafora dellinfinito
che è il mare.
Dipende dal nostro modo di guardare il mare che ci ri/guarda, dai
desideri che stringiamo nello sguardo, dallistinto di navigazione
o di sconfinamento, dal valore che hanno per noi lo spazio e il
tempo.
Oppure, forse, Finibusterrae non esiste. È un luogo del pensiero.
Soltanto un viaggiatore straniero può delimitarla nelle coordinate
di una geografia.
Chi è nato qui e nascendo ha visto la condizione di confine,
di strapiombo, e crescendo ha compreso o anche solo sentito
il senso del vivere sullargine dellinfinito,
ha in qualche modo sottratto Finibusterrae perfino al tempo della
storia.
Ha collocato questo luogo nei territori dellimmaginazione;
nella sfera della sensibilità e della percezione; lo ha trasformato
in archetipo; su una realtà storica, geografica, antropologica
originaria ha costruito unaltra realtà: fantastica,
immaginaria, letteraria. Una finzione che, probabilmente come ogni
altra finzione, trova il motivo e loccasione nella realtà
che però poi viene cancellata o comunque notevolmente offuscata
da quella stessa finzione che ha generato.
Allora Finibusterrae non è altro che letteratura. È
un oltre, un altrove. È un luogo del logos. È un paese
interiore. Unidea creata dalle parole. È un luogo vicino
e lontano che vive il solito destino che è dato a tutti i
luoghi che ad un certo punto cadono sotto il dominio della scrittura.
È un destino che li svuota di ogni realtà. Li rende
invisibili o comunque distanti: tanto distanti da diventare irriconoscibili,
incomparabili con i luoghi reali.
Finibusterrae è una nostalgia che la scrittura cerca di alleviare.
Ma è una nostalgia di cose mai state, di una piccola immensa
patria mai perduta perché mai davvero abitata. Allora Finibusterrae
è un luogo irriconoscibile, incomparabile. Forse irreale.
Forse è soltanto il luogo di una memoria inventata, un passato
inventato, un presente inventato, un futuro pensato sulle figure
di questa invenzione.
Così chi va a Finibusterrae non potrà arrivarci mai.
Si può andare solo verso Finibusterrae: continuamente, allinfinito
verso questo luogo, verso questa nominazione che contiene un orizzonte
vago, la contraddizione poetica dellillimitatezza nella limitazione
del significato.
Allora Finibusterrae è là dove si ha desiderio di
andare e non si può arrivare. Perché a Finibusterrae
si può solo essere: con un pensiero che si muove tra la terra
e il mare, tra un bisogno bruciante di Itaca e lansia di un
altro viaggio, tra un confine reale e uno sconfinamento immaginario,
un rifugio e un miraggio, dentro una storia che per vizio o virtù
gli uomini di Finibusterrae trasformano sempre in leggenda da raccontare
ai forestieri, ma soprattutto a se stessi.
|