Dicembre 2005

Viaggio ad occhi chiusi

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Ma dov’è Finibusterrae
Antonio Errico  
 
 

 

 

Forse non cambia
il senso intimo,
essenziale,
radicale di
Finibusterrae,
che è un senso
di precarietà,
di finitudine,
di sospensione nel vuoto.

 

Poi bisognerebbe anche dimenticare i nomi dei luoghi, dei paesi, delle pietre, i nomi dei dolmen, dei menhir, delle chiese, tutti i nomi avuti in eredità preziosa, bisognerebbe dimenticarli tutti, cancellarli dalla mappa della propria conoscenza, per vedere se riemergono dal fondo del nulla, se si ripropongono così come sono, identici, per capire se davvero i nomi sono necessaria conseguenza delle cose.
Smemorati di ogni nome bisognerebbe solo fermarsi al limitare, al punto in cui la terra si distende sopra il mare (o è il mare che dilaga sulla terra?).
Bisognerebbe restare lì, per un istante solo, sul confine senza appiglio di uno scoglio, per sentire se non c’è un altro nome, un altro nome possibile, diverso da quello che è stato dato a un luogo chiamato Finibusterrae. Argine, compimento, conclusione. Oppure inizio, sconfinamento, viaggio, fuga, navigazione per l’ignoto, sospensione del tempo, del destino.

Dimenticare i nomi e tutte le parole che il tempo ha innestato su quei nomi, per vedere se altre parole riescono a stringere il senso dei luoghi, a raccontarli nella loro essenza, nella loro cifra misteriosa.
Dimenticare le parole di Vittorio Bodini, le sue evocazioni di leggenda, le ombre dei morti che fanno ritorno col cappello in testa ai piedi di un faro che contiene l’essenza delle storie che vanno per mare e per terra. Dimenticare le parole di Vittorio Pagano. Quelle parole come pennellate sanguigne sui colori di una tela di Vincenzo Ciardo, che raccontano di sirene negli occhi, «esca felice ai morti, al sogno d’una nostra Sfinge».
Dimenticare le parole di Luigi Corvaglia. Un intero romanzo. Dove si narra di antichi e recenti Dei terminali, di Finibusterrae (ma Corvaglia usa la forma Finibusterre), scheletro gigantesco spazzato dal vento, della roccia calva che si trascina carponi fino al mare, di spiagge flagellate e róse. Dove si narra di uomini che si muovono assorti e lenti, seguendo il ritmo intimo di una monotonia, che parlano come se ruminassero, lentamente, una lingua aspra, cupa, povera di immagini, virile, quasi ieratica, latina ed ellenica ancora, in buona parte. Così dice Luigi Corvaglia.
Sono uomini che sorridono di rado, dice. Il loro riso è uno spasmo. La lotta secolare con la terra e coi turcheschi li ha trasformati in creature chiuse e sospettose.
Ancora. Dice Don Paolo, un personaggio del romanzo di Corvaglia: «Il Signore per dar forma all’anima salentina scelse la pietra. Dalla roccia veniamo e vi ritorniamo». Poi dice che noi siamo pietra viva che resiste all’acciaio, ma che nel momento in cui viene segnata conserva in eterno l’impronta della passione.
Dimenticare tutto questo, allora. O almeno prendere atto che tutto questo è cambiato. Che i paesaggi si sono trasformati. Che alcune storie sono finite, altre sono iniziate. Che sono diverse, completamente diverse da come sono state. Trame diverse. Intrecci diversi. Diversi i luoghi e i personaggi. Diversi i tempi degli accadimenti dei fatti. Diversa la sostanza e l’apparenza, il concetto di diverso e di uguale, di vero e di falso, di apparenza e sostanza, di memoria e oblio. Forse è diverso anche il concetto di passato, o quello di tempo nella sua significanza particolare e globale.

Però c’è qualcosa, forse, che resta immutato, che appartiene ad un codice genetico, alla profondità di un’antropologia, ad una dimensione non sempre completamente decifrabile, ad una sorta di linguaggio segreto con il quale gli esseri e la terra riescono a parlarsi e a comprendersi.
Diceva Antonio Verri: cambierà il volto della campagna, quello degli aggregati umani, di interi paesi; cambieranno abitudini, i modi di lavoro, i rapporti tra la gente; ma «quel che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra»; sarà «il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento».
Poi c’è altro, forse, che non cambia. Forse non cambia il senso intimo, essenziale, radicale di Finibusterrae, che è un senso di precarietà, di finitudine, di sospensione nel vuoto. Non cambia quell’aspettarsi ad ogni istante lo sbriciolarsi della terra sotto i piedi, lo sprofondare nell’abisso, il naufragare nei due mari che corteggiano la terra come pazienti innamorati, o come re defraudati che pretendono di riconquistare i domini. Se lo chiedeva Vittorio Bodini.

Ma dov’è Finibusterrae? Fuori dai confini della geografia, adeguati al tempo i significati della storia, Finibusterrae dov’è? Con quale luogo si può identificare? Oppure occorre andare al di là del luogo, fuoriuscire anche dai territori di una tradizione semantica, considerare la possibilità di uno smottamento dei significati, reinterpretarli e annodarli come maglie nella rete antropologica di Mediterraneo ed Europa?
Probabilmente non è più possibile pensare il Salento, o Finibusterrae, o quella Terra d’Otranto immaginata – quasi miticamente – allo stesso tempo radicata nella terraferma e spinta, protesa verso il mare, sporgente sul mare, senza ripensare, ricostruire, quel senso di appartenenza, quel legame originario, sentito e dichiarato da Vittorio Bodini: «Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa».
Allora dov’è Finibusterrae? Forse può essere ogni luogo oppure nessun luogo. Può essere Leuca, Otranto, Castro, Gallipoli, Santa Cesarea, oppure qualsiasi altro piccolo o grande paese. Forse dipende soltanto dal senso che attribuiamo al nostro essere ed esistere in questa penisola della penisola, che realmente finisce dove comincia quella metafora dell’infinito che è il mare.
Dipende dal nostro modo di guardare il mare che ci ri/guarda, dai desideri che stringiamo nello sguardo, dall’istinto di navigazione o di sconfinamento, dal valore che hanno per noi lo spazio e il tempo.
Oppure, forse, Finibusterrae non esiste. È un luogo del pensiero. Soltanto un viaggiatore straniero può delimitarla nelle coordinate di una geografia.
Chi è nato qui e nascendo ha visto la condizione di confine, di strapiombo, e crescendo ha compreso – o anche solo sentito – il senso del vivere sull’argine dell’infinito, ha in qualche modo sottratto Finibusterrae perfino al tempo della storia.
Ha collocato questo luogo nei territori dell’immaginazione; nella sfera della sensibilità e della percezione; lo ha trasformato in archetipo; su una realtà storica, geografica, antropologica originaria ha costruito un’altra realtà: fantastica, immaginaria, letteraria. Una finzione che, probabilmente come ogni altra finzione, trova il motivo e l’occasione nella realtà che però poi viene cancellata o comunque notevolmente offuscata da quella stessa finzione che ha generato.
Allora Finibusterrae non è altro che letteratura. È un oltre, un altrove. È un luogo del logos. È un paese interiore. Un’idea creata dalle parole. È un luogo vicino e lontano che vive il solito destino che è dato a tutti i luoghi che ad un certo punto cadono sotto il dominio della scrittura. È un destino che li svuota di ogni realtà. Li rende invisibili o comunque distanti: tanto distanti da diventare irriconoscibili, incomparabili con i luoghi reali.
Finibusterrae è una nostalgia che la scrittura cerca di alleviare. Ma è una nostalgia di cose mai state, di una piccola immensa patria mai perduta perché mai davvero abitata. Allora Finibusterrae è un luogo irriconoscibile, incomparabile. Forse irreale. Forse è soltanto il luogo di una memoria inventata, un passato inventato, un presente inventato, un futuro pensato sulle figure di questa invenzione.
Così chi va a Finibusterrae non potrà arrivarci mai. Si può andare solo verso Finibusterrae: continuamente, all’infinito verso questo luogo, verso questa nominazione che contiene un orizzonte vago, la contraddizione poetica dell’illimitatezza nella limitazione del significato.
Allora Finibusterrae è là dove si ha desiderio di andare e non si può arrivare. Perché a Finibusterrae si può solo essere: con un pensiero che si muove tra la terra e il mare, tra un bisogno bruciante di Itaca e l’ansia di un altro viaggio, tra un confine reale e uno sconfinamento immaginario, un rifugio e un miraggio, dentro una storia che per vizio o virtù gli uomini di Finibusterrae trasformano sempre in leggenda da raccontare ai forestieri, ma soprattutto a se stessi.

 

   
   
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