Dicembre 2005

L’inedito

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De Profundis
sulle onde del mare
Costas Valetas  
 
 

 

 

Quella terra non differiva per niente dalla Sicilia, dunque non mi sembrava per
nulla una terra straniera…

 

Quando arrivammo sul presunto luogo della tragedia (il capitano aveva rilevato il punto con precisione), la nave fermò i motori. Gli allievi si affacciarono sul ponte con i fiori in mano. E mentre la sirena suonava per tre volte, il capitano, gli ufficiali e l’equipaggio al completo nelle loro uniformi da parata si schierarono vicino a noi: gli ufficiali al centro, e poi gli allievi per formare un ferro di cavallo di fronte al mare.
Presi un foglio dalla tasca e lessi ad alta voce alcune righe che avevo scritto.
Il capitano si tolse il berretto, subito imitato dagli ufficiali e dagli allievi dell’“Egnatia”.
Mentre le ragazze lanciavano i mazzi di fiori in mare, il loro professore di matematica dispiegò nella leggera brezza marina il vessillo che le allieve di terza liceo Marilù, Anita e Giuseppina avevano ricamato per l’occasione e sul quale si leggeva: “Il liceo classico Pantaleon alle vittime della crudeltà nazista”.

* * *

Appena sbarcato dal “Cavour” sul molo di Patrasso, il mio primo pensiero fu che quella terra non differiva per niente dalla Sicilia, dunque non mi sembrava per nulla una terra straniera. I canti greci mi trascinavano nelle pianure torride della mia isola, inondate da rimpianto. Le cime delle montagne ricordavano gli alti massicci del centro e la sommità fumante dell’Etna. La campagna non differiva da quella di Bagheria e di Aspra. Le isole si confondevano con Lampedusa e Pantelleria. I vigneti ricordavano Marsala e Trapani, mentre Monenvasia evocava l’orgogliosa città di Erice, e i vecchi quartieri di Patrasso i vicoli oscuri di Palermo.
Le loro imbarcazioni non differivano per niente da quelle dei pescatori di Mazara del Vallo.
Noi dobbiamo sorvegliare il nostro comportamento, ma io mi lasciai andare al mio umore incrociando sul marciapiede tre donne vestite a lutto.
– Che vuoi dire? – mi domandò André che non nascondeva le sue simpatie per il fascismo. – Noi dobbiamo agire come un esercito d’occupazione. Cerchiamo di comportarci correttamente con la popolazione.
– Si è mai sentito dire che un esercito d’occupazione si comporta con delicatezza nel territorio occupato?
Al dispiacere d’aver provocato quella discussione io risposi: – Le genti di qua non mi sembrano straniere. Ho l’impressione di trovarmi a Castelvetrano.
– Grande sentimentale, rispose André, riempiendo il suo bicchiere di vino.

* * *

Due mesi più tardi, nelle montagne d’Arcadia, presi parte ad una retata di partigiani. Noi non li affrontammo neanche una volta, ma il comandante della divisione si felicitò con noi per la precisione dei nostri movimenti. Assente da Patrasso, centellinai con amici l’eccellente vino resinoso di una taverna. Sceglievo sempre la tavola dell’angolo dietro il pozzo e fissavo con lo sguardo la finestra della casa di fronte. Una bellissima ragazza dagli occhi a mandorla ombrati da lunghe ciglia si faceva vedere di tanto in tanto dietro la tenda. Come siamo diventati amici? Ho avuto l’impressione che ci conoscessimo dall’infanzia.
– Vieni a casa mia – mi disse Maria il giorno in cui ci conoscemmo. A casa lei sedette fra suo padre e sua madre, ma sia lei che sua sorella erano di fronte a me. Ci scambiammo convenevoli di circostanza bevendo del vino bianco con i biscotti e le paste preparate in casa.
Il notaio, il padre di Maria, si alzò e disse con tono solenne: – Signor sottotenente, voglio evitare ogni equivoco. Mai un ufficiale dell’esercito d’occupazione s’è seduto alla nostra tavola. Noi siamo patrioti e odiamo l’invasore che occupa la nostra terra. Facciamo un’eccezione per lei, perché la consideriamo uno dei nostri. Lei è siciliano e uomo di cultura. Tutto manifesta che i suoi sentimenti non corrispondono a quelli dei suoi camerati. La mia famiglia e io beviamo alla sua salute e le diamo il benvenuto. Spero di rivederla presto in circostanze migliori per la dignità della mia nazione.

A mia volta alzai il mio calice e dissi: – Signor Notaio, ho l’onore di chiedervi la mano di Maria.
Stupore generale. Tutti tacquero e, per un istante, il silenzio fu totale. Ma mentre il notaio rispondeva che era troppo presto per parlare di questo, io sentii contro il ginocchio l’eloquente pressione della gamba di Maria.
Il colpo di Stato di Badoglio mi colse in casa sua, circostanza che mi salvò da una morte certa perché i Tedeschi arraffavano i nostri e li ammassavano sulle navi, che andavano a capovolgere al largo.

* * *

L’insegnante di matematica diede quindi il gonfalone a Marilù Cereria. I lunghi capelli di Marilù sfiorarono i bordi della bandiera di seta. Fu allora che la brezza che segue subito dopo la calura complicò, per i Tedeschi, l’abbandono della nave-feretro. I becchini correvano dei rischi a trasbordare sul rimorchiatore che li accompagnava, lasciando affondare la vecchia carcassa ove erano chiusi i nostri soldati. Dietro gli studenti gli altri passeggeri, ignorando tutto degli avvenimenti, guardavano senza comprendere. Marilù gettò la bandiera in acqua. I mazzi di fiori galleggiavano come dei minuscoli delfini prima di sparire nella spuma della scia.
La nostra piccola cerimonia non aveva solamente un carattere didattico ed educativo. Molti tra gli annegati erano siciliani. Il megafono del piroscafo ci informò che era l’ora del pranzo. Le giovinette abbandonarono il ponte con grida di gioia. Io gettai un’ultima occhiata all’immensità del mare. Un delfino che ci seguiva si tuffò e poi riapparve nella schiuma.

(Trad. Bruno Rombi)

 

   
   
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