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Fortemente evocativi, ma lontani da toni decadentistici, questi
versi di Antonio Mele (il celebre vignettista Melanton),
in virtù dei quali il poeta gioca sul filo della memoria
viva-bruciante ad entrare e uscire da quadri onirici, a fondere
tempo che fu e tempo presente, a proporci con naturalezza tranches
de vie e visioni di giorni familiari e domestici che furono anche
nostri, e comunque figli di una civiltà, di tradizioni, di
comportamenti di nitida (anche tattile, e persino olfattiva) identità
salentina. È nostalgia sedimentata, quella che alternativamente
svetta e sinabissa fra i versi liberi, dunque proiezione di
valori forti e tuttaltro che vischiosi: bensì impasto
antropologico, sobria parola, eletta lezione di comportamento.
È qui laltro grimaldello di lettura, nellandare
e venire dalla civiltà agreste, dalle sue giaculatorie, dalle
sue consuetudini e dal suo moral familism, al ricrescente
battito dei sempre freschi giorni; dal fragoroso palpitante
teatro / delle tempeste inattese al veliero che va,
/ attraversando tutti gli orizzonti. Dal passato che non è
estinto, soltanto dorme, al futuro che avrà un nome e altre
storie, altre stagioni scolpite, rinnovando glimmacolati
pudori / del nostro forte respiro.
Dicevo agreste la civiltà che ha generato questa,
e altre poesie come questa: ma liberate ormai dai sudori acidi del
lavoro terragno, placate nella sofferenza che pure fu contadina
e per la più gran parte australe, e quasi riscattate dallirrimediabile
tramonto di quella civiltà, che pure fu con la filosofia,
con la geometria, con la medicina venute da lontano nel tempo, ma
soltanto nostre retaggio e sapienza degli uomini dai volti
di rame e dalle mani dulivo.
E camina, e camina, come tutti noi, tra luoghi di spaventosa tenerezza
e maceranti mestieri di vivere. Mentre volano i cavalli delle nostre
nonne-fantasia, uguale e diverso, il viaggio traversa i misteriosi
e affascinanti orizzonti dellesistenza.
(a.b.)
Ai miei fratelli Annina e Paolino
e a chi come noi ha respirato mille vite.
Sono andati via tutti.
La nonna, nostro padre, zio Nino, le zie.
Ognuno ci ha lasciato qualcosa
nella casa che adesso dorme.
A chi volesse di noi
non servirebbe neanche risalire le scale
né spingere appena quella porta
così dolcemente socchiusa
per entrare di nuovo in paradiso.
Le pareti vibrano ugualmente
di voci e di sussurri,
le pentole nere nel camino sono ancora calde,
e il tavolo ovale, benché nudo,
profuma intenso di pane e di racconti.
Cè quel silenzio quasi di meriggio
quando lestate gonfiava il basilico sui balconi
e dagli scuri serrati delle finestre
il bagliore del sole disegnava sul pavimento
lame di luce taglienti come pensieri.
Siamo sempre tutti lì,
a cogliere un tempo che ci è stato donato,
fatto di stagioni scolpite,
di uomini di terra, di donne madri e sorelle,
di bambini da crescere.
E se anche dolore cè stato,
in quel piccolo regno solido e sereno,
i rami delle nostre anime
hanno sanguignamente tenuto
alle disperanti ferite,
rinnovando glimmacolati pudori
del nostro forte respiro.
Saccende ad ogni passo il calendario limpido
di quelle vite inestinguibili,
e ogni ombra si scosta
al ricrescente battito dei sempre freschi giorni.
Oggi è certo domenica:
cè suono di violino nelle stanze,
e la tovaglia brilla di sughi rossi e di mani.
Larchetto di zio Nino è un ricamo nellaria
e accompagna la danza del frusciare dei grembiuli.
I candidi letti trapuntati di fiori
sembrano campagne odorose,
e splendono gli specchi lucidati dei comò
quante volte coperti
per tenere lontani i temporali dautunno.
Àzzate, San Giuvanni, e nnu ddurmire,
ca visciu tre nuveje caminare:
una dacqua, una de vientu,
una de tristu mmaletiempu....
Risale fragoroso il palpitante teatro
delle tempeste inattese,
tra il frenetico chiudere dimposte
e il correre di sedie nella stanzetta buia,
con lo smarrirsi docchi
al folgorante crepitio di tuoni e vento.
Àzzate, San Giuvanni, e nnu ddurmire...:
anche tuono è la voce di zia Teresina,
prima alta poi quieto riparo,
e non è detto che sia rimprovero o preghiera
quel governare saldo la cadenza dei cori
che copre il fremito delle nostre paure.
Tra i lampi che rimbalzano sui vetri,
le deboli grida si distendono oltre i muri
e presto toccheranno il cielo.
Poi sarà come sempre è stato:
la sera tornerà a riempirsi di stelle
e il tavolo ovale sinfiorerà di noi,
pronti a seguire la nonna nel mistero.
La nonna è la nostra fantasia, il nostro carro felice.
Quando viene a sedersi, dinverno specialmente,
le nebbie e il freddo si diradano,
e i cavalli volano ovunque,
portandoci in luoghi di spaventosa tenerezza.
Non scopriremo mai la fine di quei viaggi
sempre uguali e diversi,
e camina, e camina....
Anche domani ci addormenteremo.
Nostro padre rincasa in punta di piedi
e origlia i nostri sogni.
Per altre mille vite riconosceremo
il suo carezzante silenzio.
Adagia il cappello sulla panca di noce,
siede al tavolo in compagnia dei suoi pensieri,
scopre il piatto, e si versa da bere.
Dal largo bicchiere
il vino spande riflessi arcobaleni:
sindora di albe e di tramonti, ed è sole, ed è
luna,
mare rosso che sale verso la notte piena.
Di quei bicchieri di vino
sono segnate le nostre sere di settembre,
quando i contadini venivano
per la paga della vendemmia
e li asciugavano tutti dun fiato
augurando alla nostra salute.
Avevano volti di rame e mani dulivo,
e i loro occhi erano lucenti e profondi
come i pozzi dei desideri.
Tornavano a Natale
con ceste colme duova o di formaggi,
e zia Cettina e zia Teresina le riponevano sul tavolo,
riempiendole coi loro dolci di cannella.
Così era ogni volta, in quellaria dabbraccio,
quando la casa sempre aperta
sapriva al venire della gente,
e gli uomini di terra diventavano maghi e cavalieri,
e apparivano fate, e la figlia del re.
Doveravamo allora, e in quel tempo?
Finché i nostri figli
ci regaleranno altri padri, e madri,
e candidi letti trapuntati di primavera,
ogni giorno respireremo
le rigogliose storie di quei giorni.
E il tavolo ovale
sarà ancora unaia di feste e dinfinito,
un veliero che va,
attraversando tutti gli orizzonti,
oltre sorella morte, oltre la vita.
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