Dicembre 2005

I giorni del basilico e del rame

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La casa del tavolo ovale
Melanton
 
 

 

 

Fortemente evocativi, ma lontani da toni decadentistici, questi versi di Antonio Mele (il celebre vignettista “Melanton”), in virtù dei quali il poeta gioca sul filo della memoria viva-bruciante ad entrare e uscire da quadri onirici, a fondere tempo che fu e tempo presente, a proporci con naturalezza tranches de vie e visioni di giorni familiari e domestici che furono anche nostri, e comunque figli di una civiltà, di tradizioni, di comportamenti di nitida (anche tattile, e persino olfattiva) identità salentina. È nostalgia sedimentata, quella che alternativamente svetta e s’inabissa fra i versi liberi, dunque proiezione di valori forti e tutt’altro che vischiosi: bensì impasto antropologico, sobria parola, eletta lezione di comportamento.
È qui l’altro grimaldello di lettura, nell’andare e venire dalla civiltà agreste, dalle sue giaculatorie, dalle sue consuetudini e dal suo moral familism, al “ricrescente battito dei sempre freschi giorni”; dal “fragoroso palpitante teatro / delle tempeste inattese” al “veliero che va, / attraversando tutti gli orizzonti”. Dal passato che non è estinto, soltanto dorme, al futuro che avrà un nome e altre storie, altre stagioni scolpite, “rinnovando gl’immacolati pudori / del nostro forte respiro”.
Dicevo “agreste” la civiltà che ha generato questa, e altre poesie come questa: ma liberate ormai dai sudori acidi del lavoro terragno, placate nella sofferenza che pure fu contadina e per la più gran parte australe, e quasi riscattate dall’irrimediabile tramonto di quella civiltà, che pure fu – con la filosofia, con la geometria, con la medicina venute da lontano nel tempo, ma soltanto nostre – retaggio e sapienza degli uomini dai volti di rame e dalle mani d’ulivo.
E camina, e camina, come tutti noi, tra luoghi di spaventosa tenerezza e maceranti mestieri di vivere. Mentre volano i cavalli delle nostre nonne-fantasia, uguale e diverso, il viaggio traversa i misteriosi e affascinanti orizzonti dell’esistenza.

(a.b.)


Ai miei fratelli Annina e Paolino
e a chi come noi ha respirato mille vite.

Sono andati via tutti.
La nonna, nostro padre, zio Nino, le zie.
Ognuno ci ha lasciato qualcosa
nella casa che adesso dorme.

A chi volesse di noi
non servirebbe neanche risalire le scale
né spingere appena quella porta
così dolcemente socchiusa
per entrare di nuovo in paradiso.
Le pareti vibrano ugualmente
di voci e di sussurri,
le pentole nere nel camino sono ancora calde,
e il tavolo ovale, benché nudo,
profuma intenso di pane e di racconti.
C’è quel silenzio quasi di meriggio
quando l’estate gonfiava il basilico sui balconi
e dagli scuri serrati delle finestre
il bagliore del sole disegnava sul pavimento
lame di luce taglienti come pensieri.

Siamo sempre tutti lì,
a cogliere un tempo che ci è stato donato,
fatto di stagioni scolpite,
di uomini di terra, di donne madri e sorelle,
di bambini da crescere.
E se anche dolore c’è stato,
in quel piccolo regno solido e sereno,
i rami delle nostre anime
hanno sanguignamente tenuto
alle disperanti ferite,
rinnovando gl’immacolati pudori
del nostro forte respiro.

S’accende ad ogni passo il calendario limpido
di quelle vite inestinguibili,
e ogni ombra si scosta
al ricrescente battito dei sempre freschi giorni.
Oggi è certo domenica:
c’è suono di violino nelle stanze,
e la tovaglia brilla di sughi rossi e di mani.
L’archetto di zio Nino è un ricamo nell’aria
e accompagna la danza del frusciare dei grembiuli.
I candidi letti trapuntati di fiori
sembrano campagne odorose,
e splendono gli specchi lucidati dei comò
quante volte coperti
per tenere lontani i temporali d’autunno.

“Àzzate, San Giuvanni, e nnu ddurmire,
ca visciu tre nuveje caminare:
una d’acqua, una de vientu,
una de tristu mmaletiempu...”.

Risale fragoroso il palpitante teatro
delle tempeste inattese,
tra il frenetico chiudere d’imposte
e il correre di sedie nella stanzetta buia,
con lo smarrirsi d’occhi
al folgorante crepitio di tuoni e vento.
“Àzzate, San Giuvanni, e nnu ddurmire...”:
anche tuono è la voce di zia Teresina,
prima alta poi quieto riparo,
e non è detto che sia rimprovero o preghiera
quel governare saldo la cadenza dei cori
che copre il fremito delle nostre paure.
Tra i lampi che rimbalzano sui vetri,
le deboli grida si distendono oltre i muri
e presto toccheranno il cielo.
Poi sarà come sempre è stato:
la sera tornerà a riempirsi di stelle
e il tavolo ovale s’infiorerà di noi,
pronti a seguire la nonna nel mistero.

La nonna è la nostra fantasia, il nostro carro felice.
Quando viene a sedersi, d’inverno specialmente,
le nebbie e il freddo si diradano,
e i cavalli volano ovunque,
portandoci in luoghi di spaventosa tenerezza.

Non scopriremo mai la fine di quei viaggi
sempre uguali e diversi,
“e camina, e camina...”.
Anche domani ci addormenteremo.

Nostro padre rincasa in punta di piedi
e origlia i nostri sogni.
Per altre mille vite riconosceremo
il suo carezzante silenzio.
Adagia il cappello sulla panca di noce,
siede al tavolo in compagnia dei suoi pensieri,
scopre il piatto, e si versa da bere.
Dal largo bicchiere
il vino spande riflessi arcobaleni:
s’indora di albe e di tramonti, ed è sole, ed è luna,
mare rosso che sale verso la notte piena.

Di quei bicchieri di vino
sono segnate le nostre sere di settembre,
quando i contadini venivano
per la paga della vendemmia
e li asciugavano tutti d’un fiato
augurando alla nostra salute.
Avevano volti di rame e mani d’ulivo,
e i loro occhi erano lucenti e profondi
come i pozzi dei desideri.
Tornavano a Natale
con ceste colme d’uova o di formaggi,
e zia Cettina e zia Teresina le riponevano sul tavolo,
riempiendole coi loro dolci di cannella.
Così era ogni volta, in quell’aria d’abbraccio,
quando la casa sempre aperta
s’apriva al venire della gente,
e gli uomini di terra diventavano maghi e cavalieri,
e apparivano fate, e la figlia del re.

Dov’eravamo allora, e in quel tempo?
Finché i nostri figli
ci regaleranno altri padri, e madri,
e candidi letti trapuntati di primavera,
ogni giorno respireremo
le rigogliose storie di quei giorni.
E il tavolo ovale
sarà ancora un’aia di feste e d’infinito,
un veliero che va,
attraversando tutti gli orizzonti,
oltre sorella morte, oltre la vita.

 

   
   
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