Ritornare alla lira? Certo,
sarebbe il suggello di una sconfitta storica, non solo per lItalia,
ma per lintera
Europa.
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Quando venne chiesto a un leader austriaco se gli piaceva la moneta
comune europea, a un anno dalla sua entrata in circolazione, costui
(che plaudiva anche a Saddam Hussein e appoggiava i kamikaze in
Israele e in Palestina) rispose in tono sarcastico.
Eppure, si restava colpiti dal fatto che ci si poteva trovare una
sera a Parigi e usare gli stessi soldi con i quali la mattina si
era pagato il tassista di Berlino. E ci si ricordava che laccordo
franco-tedesco sul carbone e sullacciaio, il nucleo Ceca del
progetto europeo, era stato concepito per rendere la guerra allinterno
dellEuropa continentale materialmente impossibile.
Il primo gennaio 2002 si poté di colpo usare la stessa moneta
in Finlandia come in Grecia (che abbandonò la moneta dal
nome più antico tra quelle in uso nel mondo, la dracma).
Perché dare ascolto ai commenti sarcastici, che oltretutto
provenivano da una persona (il leader del partito austriaco della
Libertà) che non si era del tutto riconciliata con lesito
della Seconda guerra mondiale?
Racconta il politologo inglese Cristopher Hitchens: «Non sento
di dovermi scusare dei miei sentimenti internazionalisti nemmeno
ora. Ricordo il mio imbarazzo quando Norman Lamont, Cancelliere
dello Scacchiere del primo ministro inglese John Major, ritornò
da Bruxelles con la grande notizia che aveva ottenuto il diritto
di mantenere il volto di Sua Maestà la Regina in tutte le
versioni inglesi delle banconote in euro. Se i tedeschi facevano
il notevole sacrificio di abbandonare il marco, il loro maggiore
successo del dopoguerra, perché sottilizzare sulle insegne
dei Windsor? Non vedevo lora di mostrare ai miei bambini le
vecchie monete inglesi, che avrei tenuto in una scatola di ricordi
come le antiche monete che ci avevano bucato le tasche prima che
fosse introdotto il sistema decimale. E ora non riesco quasi a credere
che i miei figli e i loro figli useranno i soldi esperanto».
Lassunto è questo: lidea di una moneta comune
sembra stia perdendo quota con la stessa rapidità con cui
era stata introdotta. La possibilità che nuovi Paesi adottino
leuro è diventata remota dallinizio del 2005,
da quando i francesi e gli olandesi hanno respinto la Costituzione
europea. Ma soprattutto si avverte una forte nostalgia per i vecchi
soldi, sia in Germania che in altre nazioni che hanno adottato leuro.
Se si dovesse fare un referendum, credo che in nessun caso lelettorato
inglese (ma non soltanto questo) sceglierebbe di abbandonare la
sterlina (o le divise dei Paesi che ancora utilizzano moneta propria),
con o senza il volto della Regina.
La periferia scandinava ora sembra ancor meno facile da convincere.
E per quel che riguarda i nuovi membri e gli aspiranti tali, come
la Polonia nel primo caso, e la Turchia nel secondo, è imbarazzante
pensare alla delusione prodotta dal rinvio di tante promesse coraggiose.
Questi passi indietro economici sono in parte determinati da grandi
e piccole incapacità politiche e burocratiche. Il passaporto
europeo, per fare un piccolo esempio, avrebbe meritato di farsi
ammirare, in un posto di frontiera. Ma una serie di ottusi compromessi
lhanno ridotto a un quadernetto da due soldi dalla copertina
di un marroncino anonimo: un documento palesemente predisposto da
una commissione. E mi piacerebbe sapere a quale spaventosa riunione
è stato deciso che le prime parole dellintroduzione
della Costituzione europea fossero: Sua Maestà il Re
del Belgio.... Finché non entreranno lAlbania
o la Bielorussia, il che sembra ben lontano, il Belgio e il suo
monarca vengono per primi nellalfabeto europeo. Ma le cose
non andarono così alla Convenzione costituzionale americana
a Filadelfia, e non si stanno facendo sforzi per produrre unUnione
più stretta.
Non può assolutamente piacere lalleanza di partiti,
dagli xenofobi ai post-stalinisti, che si sono uniti per sconfiggere
la Costituzione e che adesso desiderano ardentemente che leuro
venga abolito. Ma non si riesce a liberarsi neanche del sarcasmo
che accolse la moneta unica europea. Certo, se leuro sarà
soltanto una delle tante monete, avrà perso quasi tutti i
suoi significati. Lesperanto aveva lo scopo di rimpiazzare
la babele delle lingue in competizione con una lingua universale,
e riuscì solamente ad aggiungerne unaltra, oltretutto
ibrida. Un euro che abbia corso legale solo in alcune parti dEuropa
non solo metterà in luce il fallimento del Vecchio Continente
nelleliminare le differenze, ma incarnerà esso stesso
una di quelle differenze. Quale delusione maggiore?
Che cosè accaduto in Italia? Sono trascorsi pochissimi
anni dalla conversione della lira, e in questo tempo molte delle
illusioni che laccoglimento del nuovo segno monetario avevano
generato si sono dissolte e un crescente disappunto si è
diffuso a tutti i livelli dellopinione pubblica. In primo
luogo, leuro ha deluso come immagine fisica.
Le miserevoli monete e monetine metalliche, alcune peraltro di valore
unitario elevato, oppure le monete cartacee, tutte di modesta taglia
e di scarsa caratterizzazione, hanno dato limpressione di
un peggioramento rispetto alle monete precedenti. Si dirà
che questo ha poca importanza, ma si dimentica che la moneta è
un bene astratto per il quale limpatto psicologico è
molto importante. Inoltre, le nuove monete divisionarie si sono
rivelate di difficile utilizzo, perché troppo piccole e di
difficili letture. Questo fatto, insieme alla fissazione di un valore
di conversione elevato e complicato, ha creato un grave problema
di percezione dei prezzi delle merci, nel senso che ha reso difficile
la comparazione con i livelli di prezzo precedenti espressi in lire.
Al riguardo, le autorità hanno manifestato una sorta di compiacimento
per la rapidità con cui i cittadini italiani hanno preso
confidenza con leuro, trascurando il fatto che quasi tutti
hanno continuato a lungo, fino ad oggi, a fare riferimento alle
lire (spesso in modo impreciso) per orientarsi sugli andamenti di
mercato, prova della difficoltà intuitiva di capire la nuova
moneta.

Una conseguenza prevedibile della conversione è stato un
immediato arrotondamento dei prezzi verso lalto, soprattutto
delle merci di basso valore unitario e di acquisto ricorrente (merci
caratterizzate, comè stato detto, «dallimportanza
di non essere importanti»). Ma la diffusione a catena ad altre
merci e lentità degli adattamenti sono state del tutto
imprevedibili. Si è manifestata una spinta inflazionistica
vera e propria che poi non si è arrestata al primo anno,
ma ha avuto seguito negli anni successivi.
Per i cittadini italiani, i quali speravano finalmente di essere
arrivati a un sistema di prezzi stabile, questa è stata la
delusione peggiore, proprio perché tutti immaginavano che
leuro avrebbe portato la stabilità dei prezzi, perduta
da molti anni.
Su questa materia, peraltro, le impressioni fondate dei cittadini
si sono scontrate con gli indici ufficiali rilevati dallIstat,
che ha negato sin dallinizio spinte inflazionistiche superiori
a pochi punti percentuali. La discussione è divenuta molto
accesa quando un istituto di ricerca economico non ufficiale ha
stimato uninflazione del 30 per cento (nellanno 2002).
Alla fine, la conclusione è stata che avesse ragione sia
chi sosteneva linflazione reale alta, e chi, allopposto,
sottolineava la quasi inesistenza ufficiale di inflazione,
riferendosi i primi al fenomeno così come percepito dai consumatori
sulle merci di ordinario consumo, i secondi al costo di disparati
beni e servizi utilizzati negli indici statistici.
Per ironia della sorte, il prezzo dei giornali che riportavano in
prima pagina i termini dellacrimoniosa discussione segnavano
un aumento di poco inferiore al 30 per cento. Negli anni successivi,
la discussione non si è ripetuta, ma la percezione dellinflazione
si è mantenuta ben al di sopra di quella dichiarata, con
la conseguenza che il cittadino medio si è sentito defraudato
e deriso.
Daltra parte, il calo dei consumi, nonostante un lieve aumento
dei redditi, darebbe ragione più alle sensazioni dei consumatori
che agli indici statistici. Se linflazione reale fosse dunque
più elevata di quella dichiarata, si dovrebbe spiegare come
sia stato possibile, dal momento che la pessima monetazione e la
difficoltà di percezione del valore appaiono cause insufficienti.
Lipotesi fatta da alcuni per lItalia è che il
valore di conversione della lira in euro sia stato sbagliato (ma
non solo in Italia), col risultato di riversare nel sistema economico
una massa monetaria sensibilmente superiore a quella precedente,
e questo potrebbe spiegare la spinta inflazionistica nazionale,
maggiore di quella avvenuta in Francia e altrove. Al mondo degli
economisti italiani è parso sgradevole scavare in un campo
in cui loro stessi avevano riposto tante speranze. Ciò potrebbe
spiegare anche il seguito inflazionistico successivo, perché
la Banca centrale europea, non prendendo atto dellerrore iniziale,
avrebbe mantenuto troppo basso il tasso di sconto, cioè una
politica di moneta abbondante in un sistema in cui la moneta circolante
era già cresciuta troppo. Di certo, a questa politica va
ascritta la bolla dei valori immobiliari, di seguito
cresciuta a dismisura e che ora sta preoccupando tutto il sistema
finanziario europeo. È appena il caso di osservare che un
fenomeno di crescita così imponente dei valori immobiliari
non sarebbe immaginabile se non in una realtà inflazionistica.
Insomma, tutto ciò è sintomo che qualcosa in Europa
funziona in modo perverso.
Unultima delusione del pubblico italiano è stata relativa
al valore delleuro nei confronti delle altre monete, in particolare
il dollaro. Al riguardo, la sensibilità italiana era molto
forte, a causa di una lunga esperienza di svalutazioni. Ci si attendeva
dunque dalleuro, moneta di una vasta e potente economia, un
cambio soggetto a piccole variazioni. Invece, leuro ha resistito
poco sui valori iniziali, subendo una svalutazione superiore al
30 per cento. Poco dopo, inaspettatamente, ha subìto una
rivalutazione pure molto alta, con una rapidità da fare impallidire
le tendenze ballerine della vecchia lira italiana.
Al di là di tutto, mentre in genere le svalutazioni italiane
erano conformi alle esigenze di riequilibrio commerciale e finanziario
del suo sistema economico, quelle delleuro non lo sono state
affatto. Ciò è preoccupante perché, se è
vero che la moneta deve essere limmagine riflessa di uneconomia,
debole se questa è debole, forte se è forte, lItalia
ha perduto il mezzo più semplice, rapido ed efficace di riequilibrio
e oggi la sua economia in declino si specchia in una moneta che
si rafforza sui mercati esterni, peggiorando le tendenze negative.
Ma cè da dubitare fortemente che rispecchi bene la
media delleconomia del complesso dei Paesi europei delleuro,
i maggiori dei quali si trovano pure in fase di debole o nulla crescita.
Ci si può chiedere, allora, se i governanti italiani che
hanno voluto entrare in Europa con ladozione delleuro
si siano resi conto di ciò che facevano. La spiegazione va
probabilmente ricercata in una reazione alla sensazione di vivere
in un «Paese dei balocchi», come ha scritto acutamente
Paolo Savona (in Gli enigmi delleconomia, Milano, 1996), in
cui i gravissimi problemi conseguenti a politiche economiche e sociali
dissennate non trovavano mai soluzione e il pubblico si aspettava
di essere salvato dallo stellone nazionale, ovvero
come nella favola di Pinocchio dalla fata Turchina. Vale
la pena, anzi, di riprendere alcuni elementi della storia economica
recente per comprendere meglio come questa singolare sindrome si
sia formata e radicata.
LItalia, dopo la rapida ricostruzione degli anni 1946-1955,
ha avuto un periodo di forte sviluppo economico, di circa otto anni,
fino al 1963 (il cosiddetto miracolo economico). In
questo secondo periodo si è trovata con finanze fiorenti,
vale a dire un debito pubblico modesto e un notevole surplus strutturale
dei conti con lestero, sintomi di un consistente volume di
risparmio inutilizzato. Ciò ha giustificato un abbandono
della prudente politica economica che dal dopoguerra era sempre
stata seguita (ispirata da Luigi Einaudi) a vantaggio di un intervento
pubblico sempre più vasto e costoso, orientato ad accrescere
i consumi e a ridistribuire la ricchezza prodotta, a creare una
vasta serie di garanzie sociali.
Le lotte sindacali, con lesaltazione del salario variabile
indipendente, hanno ottenuto un pieno successo con lo Statuto
dei lavoratori, aprendo un primo indebolimento dello sviluppo, che
poi si è mantenuto fino agli anni Ottanta.
È stato il periodo della programmazione, della
destrutturazione industriale, dellinflazione a due cifre e
del primo grave dissesto dei conti pubblici (incoraggiato da mal
digerite idee keynesiane), con lo Stato che acquistava le industrie
decotte (essendo il fallimento fuori legge) e le Regioni che facevano
a gara a finanziare le cattedrali nel deserto delle
aree sottosviluppate.
Nonostante la crisi petrolifera degli anni 74-79, sono
state anche approvate riforme generose, a partire dalla regionalizzazione,
che hanno accresciuto notevolmente la macchina dello Stato, dalle
riforme pensionistiche e della sanità alla riforma dellistruzione
superiore, che sullonda sessantottesca hanno allargato gli
accessi alluniversità.
Il finanziamento di tutto questo è avvenuto con la creazione
monetaria e con un rilevante debito pubblico. Al di là di
questo, le riforme non hanno migliorato affatto lefficienza
del sistema, anzi hanno peggiorato tutto, provocando un reale degrado
della società nazionale, anche dal punto di vista etico.
Il rimedio, che si è cominciato ad usare con frequenza, è
stata la svalutazione monetaria, con la finalità di accrescere
la competitività, via via perduta.
Negli anni Ottanta, tuttavia, fino al 1991, vi è stata una
ripresa dello sviluppo economico, mentre il peggioramento del debito
pubblico ha raggiunto il massimo. Ciò è accaduto sia
per via degli effetti di lungo periodo delle leggi di spesa degli
anni Settanta e delle aggiunte successive, sia del mutamento del
meccanismo di finanziamento della spesa pubblica, riducendo la creazione
monetaria, fonte dinflazione, e ricorrendo piuttosto ad un
maggiore indebitamento con i cittadini. La stessa politica era stata
realizzata negli Usa dal presidente Reagan, con lintento di
contenere linflazione interna e quella mondiale conseguente
alla funzione del dollaro negli scambi internazionali.
LItalia ha seguito la stessa strada per non perdere il collegamento
col dollaro, anche se laumento conseguente dei tassi dinteresse,
necessario per raccogliere un maggiore volume di risparmio nazionale,
aumentava il costo del medesimo debito pubblico. Peraltro, nella
filosofia della nuova politica finanziaria il costo
elevato del risparmio doveva indurre ad una forte riduzione della
spesa pubblica. Inutile dire che tale conseguenza positiva non si
è verificata (ma neanche negli Usa). Però, da quel
momento, la compressione della spesa statale è divenuta un
cruccio di tutti i governi che si sono succeduti.
Alla metà degli anni Novanta, cioè a cinquantanni
dalla fine della guerra, la spesa pubblica era aumentata di otto
volte, a fronte di una crescita del Pil di cinque volte. Il mutamento
del sistema politico, con larrivo del bipolarismo, che doveva
rafforzare la capacità di decisione dei governi, in realtà
si è dimostrato insufficiente per risolvere il problema del
colossale debito pubblico, né la tassazione inasprita e la
vendita di cespiti pubblici hanno consentito dinnescare una
tendenza di medio e lungo periodo sufficientemente costante ed efficace
a quel fine. È stato a quel punto che il fallimento di tutti
i tentativi ha indotto molti a pensare che solo affidandosi a vincoli
esterni allItalia si sarebbe forzato il Paese dei balocchi
a camminare una volta per tutte sulla via della virtù.
E quale era lo strumento principale per sfuggire, sia pure temporaneamente,
alle conseguenze dei numerosi vizi nazionali? La moneta, certamente,
con le sue possibili svalutazioni competitive e il procedere stop
and go, che finiva col sopire le reazioni virili e superare
le depressioni nazionali. Dunque, la firma del Trattato di Maastricht
nel 1992 e, con la volontà di entrare nel drappello dei primi
Paesi a praticare la moneta unica, la rivalutazione monetaria del
1996, ladozione delleuro. Non cè dubbio,
come sostengono gli americani, che lo cose buone camminano insieme,
ma anche quelle cattive, ossia gli errori generano altri errori.
Raramente, purtroppo, la virtù nasce dalla necessità.
Dei due principali strumenti di politica economica, il fisco e la
moneta, lItalia non può che ricorrere marginalmente
al primo, essendo vicino al punto in cui lincremento ulteriore
delle tasse induce, attraverso la caduta della produzione, la riduzione
del gettito, e non ha più la moneta propria per dare ossigeno
al sistema delle imprese. La privatizzazione di beni pubblici delle
residue aziende di Stato potrebbe forse fornire una soluzione, se
non fosse difficile da realizzare in un tempo breve.
Allo stesso modo, la riduzione della spesa pubblica, leliminazione
di enti inutili o scarsamente utili, il ridimensionamento della
burocrazia centrale e periferica, e poi la revisione di molte riforme
del passato dai costi eccessivi e dallefficacia dubbia o negativa,
consentirebbero di rimettere il sistema economico e sociale sulla
strada giusta, ma si tratta di azioni inimmaginabili per qualsiasi
combinazione di forze partitiche, anche se il sistema politico venisse
migliorato nella sua stabilità, forza ed efficienza. Dunque,
lItalia è un Paese praticamente disarmato.
In queste condizioni deve affrontare i tempi. Un problema di questi
è la competizione internazionale che si va sempre più
inasprendo in seguito alla liberalizzazione degli scambi e al calo
dei costi di trasporto. A questo si aggiunge la cosiddetta globalizzazione,
ossia la formazione di grandi aree economiche che superano la dimensione
degli Stati nazionali, che dunque sfuggono alla disciplina di questi,
ma che sono dominate da società multinazionali di varia origine,
le quali riescono a realizzare grandi economie, di dimensione, di
localizzazione, di distribuzione dei rischi, di sviluppo e di acquisizione
dei mercati. Le economie forti si internazionalizzano proiettandosi
allesterno, quelle deboli diventano mercati di assorbimento
delle merci e dei servizi, spesso aree di destrutturazione produttiva,
in una specializzazione del lavoro sempre maggiore.
Essere forti significa avere capacità di sviluppo, ossia
possibilità di accumulazione di capitale, di investimento,
e forza innovativa. Da qualche anno, più o meno da quando
la coscienza di questa evoluzione del mondo si è diffusa
anche in Italia, si è cominciato a parlare di competitività
del sistema economico nazionale e delle sue imprese. Lo hanno fatto
soprattutto gli industriali, spesso per motivi strumentali, ossia
per chiedere ai sindacati dei lavoratori maggiore flessibilità
nellimpiego del lavoro, moderazione salariale o per chiedere
allo Stato tasse ridotte od oneri sociali meno gravosi o aiuti veri
e propri.
Ma col tempo, la discussione si è articolata, quasi spontaneamente,
e si è fatta strada la consapevolezza che il danno delle
politiche sbagliate non sta solo nella montagna del debito pubblico,
ma in numerosi altri aspetti della società, nelle infrastrutture
insufficienti, nellistruzione mediocre, nella ricerca inefficiente
e nella tecnologia non avanzata in molti campi decisivi, nella volontà
di lavoro debole, nella stessa diffusa incapacità di correre
i rischi legati alle innovazioni.
Questo non relega ad un ruolo marginale la questione finanziaria,
ma la rende parte di un fenomeno di dimensioni molto più
ampie. Anzi, se per lintervento di una fata Turchina la questione
del debito pubblico eccessivo venisse improvvisamente risolta, il
sistema si troverebbe comunque in difficoltà ad affrontare
la competizione internazionale.
Per la verità, la descrizione della situazione italiana è
stata drammatizzata, per chiarire bene i termini del problema. Infatti,
continueranno ad operare sul sistema alcuni fattori di sviluppo,
quali le innovazioni provenienti dallestero, la crescita dei
consumi nei Paesi in fase di grande sviluppo economico, una certa
creatività nazionale legata alla tradizione culturale, lo
stesso effetto innovativo determinato dalle aperture dei mercati.
Peraltro, cè chi sostiene che meglio sarebbe una dura
crisi economica, capace di mordere crudelmente la società,
piuttosto che il lento scivolamento attuale, di cui il pubblico
si accorge poco e finisce con ladattarsi, anche tenendo conto
delle impercettibili ripresine che si profilano di tanto
in tanto sugli scenari politico-economici nazionali. Però,
di scalino in scalino, la discesa potrebbe diventare più
veloce. A quel punto, sarà inevitabile cercare una o più
risposte alle angosce nazionali.
Una domanda potrebbe riguardare lEuropa, ossia se il ruolo
dellUnione contribuisca a risolvere i problemi nazionali oppure
a peggiorarli. La risposta, se nel frattempo lUnione avesse
una Costituzione accettata per dare consistenza al nucleo di Stato
Europeo, necessario per rendere omogenei i sistemi nazionali, aiutando
in vario modo quelli in difficoltà, potrebbe essere positiva.
Forse il declino dellItalia continuerebbe, ma la prospettiva
potrebbe essere favorevole, nel senso che i margini di competitività
potrebbero avvicinarsi almeno nellambito europeo e lo sforzo
di miglioramento del sistema verrebbe orientato e aiutato. Purtroppo,
in Europa, patria storica delle divisioni, questo appare un sogno.
La condizione più probabile, che già si va delineando,
è quella opposta, ossia unEuropa che non riesce a diventare
un vero centro ordinatore, limitandosi, come ha fatto in prevalenza
fino ad ora, a mediare tra interessi e azioni dei poteri nazionali.
E sono i Paesi con tradizione statuale più antica e consolidata
a non volere la cessione di poteri allUnione, né a
sopportare seri aggravi per eventuali aiuti a Paesi come lItalia,
amici, alleati e quantaltro, ma diversi.
Quale potrebbe essere, in una situazione del genere, la reazione
dellItalia dopo una fase più o meno lunga di impoverimento,
di discredito, di ulteriori tentativi falliti, di scarsità
di mezzi per ammodernare più rapidamente il sistema produttivo,
anzi per accrescere la competitività della società
nel suo insieme? Quando un sistema non trova vie duscita interne
ai propri problemi, finisce col cercare vie duscita esterne,
semmai riappropriandosi degli strumenti di politica economica, come
la moneta, che sono di efficacia immediata e generale.
Ritornare alla lira? Certo, sarebbe il suggello di una sconfitta
storica, non solo per lItalia, ma per lEuropa. Daltra
parte, leuro è la moneta più innaturale
del mondo, come hanno cercato di spiegare gli economisti americani
al momento della sua creazione, fintanto che il sogno europeo resterà
tale.
E non saranno eventualmente gli italiani (col loro debito pubblico,
con la loro burocratica lentezza, e via dicendo) a decretarne la
fine. In fin dei conti sono stati i francesi e gli olandesi a bocciare
la Costituzione europea, ma i Paesi forti che la elaborarono, con
lo scopo di disciplinare i Paesi meno stabili, non pensarono che
i grandi progetti finanziari, alla lunga, non reggono se non sono
supportati da ancora più grandi progetti politici e sociali.
Per lEuropa non serve ricorrere alla favola di Pinocchio,
che descrive le attitudini psicologiche degli italiani, basta quella
dei tre porcellini, con la sua candida morale, comprensibile anche
ai bambini più piccoli.
(E intanto scoppia una mezza rissa sul nome. Lettonia, Lituania,
Malta, Slovenia e Ungheria, in attesa di adottare la moneta unica
europea, non hanno intenzione di accettare la grafia euro,
e chiedono di modificarla a seconda delle rispettive peculiarità
linguistiche. La Lettonia intende introdurre la dizione eiro
e basa questa richiesta su una perizia dei maggiori linguisti del
Paese, i quali sostengono che nella lingua lettone il dittongo eu
non esiste (infatti si parla di Eiropa), mentre il Parlamento della
Lituania ha espresso il desiderio di utilizzare il nome euras.
Malta gradisce la grafia ewro (più aderente,
tra laltro, alle contaminazioni arabe), dal momento che nella
lingua locale la vocale e non precede mai la vocale
u.
La Commissione dellUnione europea, intervenendo in proposito,
ha ribadito che le banconote che saranno emesse dalla Lettonia dal
2008 dovranno portare la menzione euro, e non altro.
Analoghe prese di posizione sono previste per gli altri Paesi candidati
ad entrare nellarea della moneta unica continentale).
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