Molti fattori
pongono noi
europei in una
posizione unica per contribuire
a un ordine
mondiale più civile e sicuro.
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Se in un archivio della stampa quotidiana incrociassimo la parola
Europa con crisi per gli ultimi sei mesi,
Google ci risponderebbe con una lista quasi sterminata di riferimenti.
Forse Europa emergerebbe con la più alta correlazione
alla parola crisi, davanti a termini come petrolio,
Iraq, occupazione, calcio, Alitalia.
Loccupazione non aumenta ed è colpa delle regole di
Bruxelles; le stesse che hanno favorito per oltre trentanni
una crescita nettamente superiore a quella americana. Il terrorismo
ci minaccia e si accusa Shengen: quella stessa che ha aiutato lItalia
a riorganizzare e rafforzare i suoi controlli alle frontiere. La
globalizzazione trasforma il mondo e spiana le frontiere; ma noi
diciamo che è lEuropa a spianare le frontiere e a sopprimere
lingue, tradizioni, produzioni locali. La burocrazia irrita cittadini
e imprese e la chiamiamo Bruxelles, ignorando che la
Regione Lombardia o la città di Monaco hanno più dipendenti
che la Commissione a Bruxelles.
Questa, però, è solo una parte del quadro. Proprio
mentre la cronaca quotidiana continua a suonare il motivo triste
della crisi europea, cresce in forma non di articoli di giornale
o di servizi televisivi, bensì di libri e di saggi
quella che potremmo chiamare letteratura del successo. Essa analizza
quanto lEuropa ha fatto nel campo delleconomia, delle
istituzioni, delle relazioni internazionali, delledificazione
di Stati e mercati, del mantenimento della pace, dellaiuto
allo sviluppo e giudica lUe come lanticipo dellordine
mondiale nellera dellintegrazione economica planetaria,
la novità più importante dellultimo mezzo secolo.
Cito alcuni autori di questa pubblicistica: Robert Cooper (The Breaking
of Nations, 2003), Jeremy Rifkin (Il sogno europeo, 2004), T.R.
Reid (The United States of Europe, 2004), Mark Leonard (Why Europe
Will Run the 21st Century, 2005), Glynn Morgan (The Idea of a European
Super State, 2005).

Dunque, unEuropa in crisi nei giornali e trionfante nei libri?
Si potrebbe dire proprio così. Ma se della crisi si fa fatica
a trovare una dimostrazione intellettualmente dignitosa, è
pur vero che il quadro di unEuropa fiacca, ormai priva dincidenza
sulla storia del mondo, sta sotto i nostri occhi: assenza di una
propria linea nelle grandi questioni della sicurezza e della politica
estera, spreco immenso di risorse dovuto al rifiuto di unire le
forze per obiettivi comuni, ridicolo sfoggio di parsimonia nel comprimere
il bilancio comunitario, impudichi litigi sulla destinazione di
quei pochi fondi, liti sul Patto di Stabilità.
Ecco, la letteratura del successo considera lEuropa cosa fatta,
mentre fatta non è. LUe non è ancora ununione;
manca un patto fondante in forza del quale lo stare insieme, il
decidere insieme, lagire insieme siano assicurati non solo
nellaccordo ma anche nel disaccordo. Nella politica (che tratta
del potere) non cè una possibile nuova formula di unione,
così come nella meccanica (che tratta del moto) non ci sono
formule che possano liberarci dalla forza di gravità o regalarci
il moto perpetuo.
LEuropa è incompiuta non solo per il motivo banale
che la storia è sempre incompiuta; lo è per il fatto
più specifico e inquietante di non avere ancora attuato il
proprio stesso disegno di unione. I benefici che oggi essa trae
dallaver posto mano a quel disegno unitario vanno oltre il
merito fin qui acquisito. Prima ancora di essere fatta, lEuropa
già vive di rendita.
Proprio qui, a mio giudizio, si avvolge la spirale della malinconia
europea. «La sola cosa che dobbiamo temere è la paura
stessa», disse Roosevelt per scuotere lAmerica dalla
Grande Depressione. La depressione, lumor nero, degli europei
è ad un tempo causa ed effetto delle occasioni mancate, del
tempo trascorso invano, della paura di completare lopera.
La cattiva coscienza del nostro saturnino ritardo, dellimmeritato
vantaggio in cui ci culliamo, questa cattiva coscienza alimenta
la nostra malinconia e paralizza lEuropa.
Nel mondo di oggi sta rapidamente incubando il ritorno di una configurazione
che lEuropa ha conosciuto bene: lalternarsi di equilibrio,
egemonia, alleanze contrapposte, minacce, guerre, tregue. Crescono
le aspirazioni e la capacità dinfluenza di giganti
come Cina, Russia, India, Brasile, Messico, Iran, Nigeria. E intanto
si affollano sfide che eccedono la capacità di governo anche
dei maggiori Paesi: la sicurezza contro il terrorismo, lascesa
del continente asiatico, lo scarseggiare di energie rinnovabili,
linstabilità del mercato internazionale, le minacce
del clima.
Molti fattori pongono noi europei in una posizione unica per contribuire
a un ordine mondiale più civile e sicuro. Abbiamo conoscenza,
per averlo sperimentato fino alla catastrofe finale, del carattere
precario e insostenibile del sistema delle sovranità illimitate.
Abbiamo responsabilità, un debito morale e politico, per
avere imposto al mondo i costi delle nostre lotte interne, del dominio
coloniale, e per avergli fornito il cattivo modello in cui dimora
il germe delle guerre distruttive. Abbiamo risorse, mezzi per svolgere
un ruolo influente negli affari del mondo; già oggi siamo
i primi fornitori di aiuto allo sviluppo e non viviamo a credito.
Abbiamo princìpi, perché accettiamo la solidarietà
e il multilateralismo quali elementi costitutivi dellordine
mondiale.

Abbiamo credibilità, per avere già messo nel nostro
terreno, e iniziato a far crescere in modo promettente, il seme
di una diversa configurazione delle relazioni fra Paesi.
Come le due guerre che chiamiamo mondiali sono state in realtà
guerre europee, così forse oggi lunica pace mondiale
possibile, che sia pace e non illusoria tregua, è una pax
europea.
Sono passati quasi sessantanni da quando Churchill pronunciò
a Zurigo uno dei discorsi più memorabili dellultimo
secolo: «Cè un rimedio alla tragedia dellEuropa»,
disse Churchill. «Il rimedio è di ricreare la Famiglia
Europea. Dobbiamo creare una sorta di Stati Uniti dEuropa
[...], il senso di un patriottismo allargato e di una cittadinanza
comune [...]. «Ma vi devo avvertire. Il tempo può essere
breve. Oggi cè uno spazio aperto».
Sei anni prima, in soli cinque giorni, quasi da solo, egli aveva
rovesciato le sorti della guerra trasmettendo al Paese la furiosa
determinazione «che lInghilterra avrebbe continuato
a combattere, qualunque cosa fosse accaduta». Hitler non perse
la guerra in quei giorni; ma quelli furono i giorni in cui gli sfuggì
la possibilità di vincerla.
Come non riconoscere in Churchill i segni del furore, della follia,
delleroismo, dellesaltazione spirituale che per Platone
sono tipici dellhumor melancholicus? Ma della malinconia Churchill
conosceva anche la cupa disperazione, il senso dellabisso,
la solitudine desolata che egli chiamava «il cane nero»
aggrappato alla sua schiena. Riflettendo in una prospettiva etica
e religiosa, Romano Guardini (in Ritratto della malinconia, 1993)
osserva che la malinconia è «la nostalgia di ciò
che semplicemente è perfetto», «il prezzo della
nascita delleterno nelluomo».
Cè unopera da completare, che richiede e merita
gli sforzi e i sacrifici dei giovani di oggi. Allora: non scoraggiatevi,
non perdete la spinta che vi ha accompagnato negli studi, non rifugiatevi
nel solo privato, non abbracciate lidolo della carriera e
del guadagno, non rivolgetevi allo psicologo. Datevi, invece, e
sceglietevi, punti di riferimento. Dalla malinconia si esce guardando
in alto dentro se stessi.
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