Sarebbe splendido se il confronto
politico non si
trasformasse in uno scontro totale capace di portare solo danni
alleconomia creando sfiducia in Italia e sullItalia.
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Forze politiche e istituti di ricerca avevano previsto per leconomia
italiana una buona crescita nel 2005 (praticamente superiore all1,5
per cento), una crescita che a consuntivo è risultata invece
quasi insignificante, cioè pari e impercettibilmente superiore
allo 0,1 per cento. Questo dato si aggrava nel confronto con i risultati
della Zona Euro (i Dodici Paesi dellUnione economica e monetaria)
e dellEuropa a Venticinque, che sono stati, in entrambi i
casi, intorno all1,5 per cento. Così lItalia
è lenta in unEuropa che a sua volta cresce poco se
confrontata con gli Stati Uniti (+3,7 per cento), col Giappone (+2,5
per cento), e con la media dei Paesi sviluppati dellOcse (+2,8
per cento) e con i Paesi in via di sviluppo (+6,3 per cento).
Questa sintesi richiede alcune precisazioni: gli Stati Uniti confermano
la loro forza, sulla quale grava però lipoteca dei
loro enormi squilibri del commercio estero e del deficit delle finanze
federali; la Cina cresce in modo tumultuoso, ma è carica
di incognite politiche, sociali e ambientali; il Giappone ha una
buona crescita e un enorme surplus commerciale, ma ha un rapporto
tra deficit e Prodotto interno lordo molto alto; lUnione europea
ha una debole crescita, ma è piuttosto equilibrata sia sul
commercio estero che sul deficit, e dunque nel complesso non va
male, anche se appare possibile e doveroso cercare nuovi stimoli
di ripresa.
Per il 2006 e per gli anni successivi, lUnione a Venticinque
e lUnione economica e monetaria dovrebbero crescere intorno
al 2 per cento, con una dignitosa accelerazione, e lItalia
all1 per cento, con un notevole incremento che ci lascia tuttavia
alla metà del tasso di crescita europeo.
Riflettiamo allora sullItalia e su come si possa accelerare
il nostro sviluppo. È noto come un sistema economico funzioni
su tre meccanismi connessi: quello della produzione-offerta che
dipende dal lavoro, dal capitale e dalla produttività dei
fattori; quello della domanda dei beni di consumo e di investimento
che dipende dai redditi, dai prezzi, dalle convenienze e dalle scelte
degli operatori; quello delle importazioni, delle esportazioni e
della internazionalizzazione. Il nucleo del sistema sono i mercati,
le regole, le istituzioni e la politica economica. Nel nostro Paese
è soprattutto questo nucleo che funziona male. Ciò
malgrado, lItalia sta uscendo dal rallentamento degli ultimi
anni, e potrebbe accelerare per arrivare prima del 2008 sopra il
2 per cento di crescita. Il compito delle scelte politiche si rivela
a questo punto fondamentale.
E si rivela su due piani: da una parte, con un coerente controllo
della finanza pubblica, cosa che non è avvenuta per troppo
tempo (per lo meno a partire dagli anni Ottanta), dal momento che
le forze politiche hanno progressivamente eroso il saldo primario
positivo (ma lequilibrio dei conti pubblici è una base
indispensabile alla crescita); dallaltra, creando uno scenario
il più possibile favorevole per le attività economiche.
In questultima prospettiva, gli elementi da valorizzare non
mancano.
Partiamo dagli investimenti, la cui domanda sta riprendendo, in
modo particolare nei macchinari, negli impianti e nei mezzi di trasporto.
Il rapporto di questi investimenti sul Prodotto interno lordo, che
era in calo da un picco registrato nel 2000, ha invertito nel 2005
la rotta, e la tendenza potrebbe proseguire negli anni a venire,
come sembrano dimostrare anche un certo consolidamento nella fiducia
delle imprese e il miglioramento della prospettiva, già in
atto, per le esportazioni.

Ciò dipende anche dal fatto che la nostra offerta industriale
sta dimostrando buona vitalità, perché negli ultimi
anni nelle imprese manifatturiere cè stato un notevole,
faticoso e coraggioso processo di razionalizzazione che sta dando
i suoi frutti. Perciò la produttività del lavoro,
in parte ridimensionata di recente dalla emersione dei lavoratori
sommersi, dovrebbe ricominciare a crescere nellindustria,
ma meno, purtroppo, nei servizi.
Questo si vede anche molto bene dallandamento delle esportazioni,
che hanno generato nel 2005 un saldo export-import in crescita e
positivo per circa 40 miliardi di euro per i manufatti, con un cospicuo
apporto delle 4 A (alimentari-vini, abbigliamento-moda,
arredo-casa, automazione-meccanica), soprattutto per una notevole
espansione dellautomazione meccanica, che ha quasi controbilanciato
il calo dei settori della moda e dei mobili, prodotti molto soggetti
alla concorrenza asimmetrica (e troppo spesso sleale) dei cinesi.
Le imprese manifatturiere italiane esposte ai mercati internazionali
spingono dunque sulla produttività, cercando di avere una
dinamica salariale non disgiunta dalla stessa, per contenere il
costo del lavoro per unità di prodotto e quindi i prezzi,
al fine di non perdere quote di mercato da cui dipendono anche i
modelli occupazionali.
Ma le imprese industriali non possono fare tutto da sole, e questo
ci porta a due riflessioni. Una riguarda le diversità settoriali
dove nei servizi, salvo qualche eccezione, lItalia è
uno dei Paesi sviluppati con poca concorrenza, che a sua volta causa
una bassa crescita della produttività sia settoriale che
di sistema, da cui segue anche una notevole compressione del potere
dacquisto delle famiglie. La pubblica amministrazione, poi,
è ben lontana da significativi incrementi di produttività
a cui correlare le retribuzioni. Questo penalizza pesantemente tutta
leconomia e la società italiana, ma purtroppo non sembra
vi sia governo capace di porvi rimedio. Anzi, cè solo
da sperare che il federalismo non peggiori queste anomalie burocratiche
italiane.
Una seconda riflessione riguarda la politica economica, che ha visto
introdotte con la Finanziaria 2006 misure significative, anche se
limitate come impegno finanziario proprio in virtù dei non
risolti problemi di finanza pubblica. In proposito possiamo ricordare:
la riduzione di un punto percentuale dei contributi sociali dovuti
dalle imprese; il 5 per mille dellIrpef destinabile alla ricerca
scientifica, universitaria, sanitaria (e riguardante altre finalità
sociali); la deducibilità dal reddito tassabile Ires delle
erogazioni liberali per finanziare la ricerca di atenei e di fondazioni;
labolizione della tassa sui brevetti; la configurazione giuridica
e fiscale dei distretti come imprese a rete quale base per una loro
ulteriore valorizzazione in un contesto di sussidiarietà.
Cè anche altro, tra cui un fondo, alimentato dalle
dismissioni immobiliari, per finanziare lapprezzabile Piano
per linnovazione, la crescita e loccupazione (Pico),
coordinato dal Dipartimento per le Politiche comunitarie. Questo
fondo dovrebbe favorire lattuazione in Italia della nota strategia
di Lisbona.
Lentità qualitativa di questa Finanziaria ci sembra
buona, perché va nella direzione di spinta proprio a quellinnovazione
che negli indicatori dellUnione a Venticinque per il 2005
vedeva lItalia ancora molto sotto la media, anche se con un
dignitoso tasso di crescita superiore, in questo caso, alla media.
I conti in ordine, si sa, sono alla base di ogni tentativo di superare
momenti (anche lunghi) di crisi e di vera e propria stagnazione.
Ma per rimetterli in ordine ci si deve mobilitare tutti, senza eccezioni,
senza privilegi e senza mugugni. Noi non capiremo mai i lamenti
di coloro i quali si vedono ridotti i contributi per la cultura,
perché della cultura si è fatto strame con allegria
festaiola, con ignobili sagre paesane, con sperperi infiniti e soprattutto
improduttivi ai fini del progresso civile e culturale, appunto,
dei cittadini. Né capiremo mai le spese folli che si fanno
per consulenze che sono nate da fantasie creative degne
di migliori cause, con spese da vertigine. Una buona amministrazione,
in anni di vacche magre, reclama parsimonia nelle spese superflue:
i quattrini vanno destinati solo ed esclusivamente a progetti di
alto contenuto artistico, di cospicuo valore storico e letterario
o scientifico, e non sparsi e dispersi in mille rivoli sterili e
privi di qualunque significato e apporto culturale.
In conclusione: in un momento in cui leconomia italiana dà
segnali, pur tenui, di ripresa, sarebbe splendido (e soprattutto
utile) se il confronto politico, indispensabile alla democrazia,
non si trasformasse in uno scontro totale capace di portare solo
danni alleconomia creando sfiducia in Italia e sullItalia.
Per il superiore interesse del Paese, le parti più sagge
del mondo politico dovrebbero perciò preferire la razionalità
allaggressività, e la sobrietà allo scialo.
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