A distanza di cent’anni si deve prendere
atto
che la politica
meridionalistica non ha raggiunto il principale dei suoi obiettivi.
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Uno degli obiettivi indicati nella Finanziaria era quello che impegnava
il governo a riaprire con l’Unione europea il capitolo di una
fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno italiano: l’ipotesi,
che finora ha incontrato il veto esplicito di Bruxelles, in sostanza
è quanto rimane della politica meridionalista inaugurata
un secolo fa con una serie di provvedimenti per la creazione a Bagnoli
di un impianto siderurgico a ciclo integrale, e col finanziamento
di varie infrastrutture e opere di miglioria fondiaria in due sole
regioni, la Basilicata e la Calabria.
Si trattò di un pacchetto di leggi speciali, in quanto destinate
espressamente a beneficio di una singola area del Paese, che segnarono
anche l’atto di battesimo di una politica di intervento pubblico
volta ad agevolare l’espansione delle ciminiere nel Meridione.
A questo riguardo, risultò determinante la tesi sostenuta
da Francesco Saverio Nitti, che si dovesse puntare, per il riscatto
del Mezzogiorno, soprattutto sulla promozione dell’industria,
senza tuttavia escludere la necessità di una riforma che
spezzasse il latifondo e ponesse fine a certi iniqui contratti agrari
a carico dei contadini. Questa prospettiva venne infatti condivisa
da Giovanni Giolitti: tant’è che lo statista piemontese
diede corso anche ad altre misure per la concessione di sgravi fiscali
alle imprese del distretto partenopeo, la riserva a quelle meccaniche
di una quota del materiale ferroviario ordinato dallo Stato, e l’istituzione
di un ente pubblico per la produzione di energia elettrica dalle
acque del fiume Volturno. E varò successivamente, nel corso
del suo terzo ministero tra il 1906 e il 1909, ulteriori leggi di
carattere straordinario, intese ad assecondare la creazione (dopo
il terremoto del 1908 a Messina e a Reggio Calabria) di “zone
industriali” nelle due città dello Stretto, oltre allo
sviluppo delle raffinerie siciliane di zolfo.
Per i liberisti come Luigi Einaudi, i provvedimenti del governo
per il Sud avevano un vizio d’origine, in quanto presupponevano
il mantenimento del regime doganale protezionistico che sorreggeva
dal 1887 le industrie del Nord. Mentre per i liberali moderati e
per alcuni meridionalisti, come Gaetano Salvemini, la “generosità”
di Giolitti a favore del Mezzogiorno aveva per obiettivo precipuo
quello di accaparrarsi il voto dei deputati locali a sostegno della
sua eterogenea maggioranza parlamentare.
Sta di fatto che se l’esito delle leggi speciali allora emanate
si rivelò poi inferiore alle aspettative, ciò dipese
soprattutto da tre circostanze: l’insufficienza di fonti energetiche,
la carenza sul posto di adeguate vocazioni imprenditoriali e la
prevalenza nella classe dirigente meridionale di gruppi d’interesse
abbarbicati al giro delle speculazioni edilizie e degli appalti
pubblici.

Le due sezioni del Paese continuarono perciò a procedere
in modo diverso l’una dall’altra, quasi come delle entità
separate. Fino a che non venne ripreso, dopo il secondo conflitto
mondiale, l’indirizzo interventista pubblico, con più
ampie visuali e con ben maggiore consistenza, dato che nel frattempo
il Sud era rimasto ancorato a un’agricoltura in massima parte
cerealicola e di sussistenza (all’insegna dell’autarchia
perseguita nel Ventennio), e che l’unico nucleo industriale
di un certo spessore era pur sempre quello rappresentato dall’acciaieria
di Bagnoli e da alcune imprese dell’area napoletana passate
sotto l’egida dell’Iri.
Da allora, la politica meridionalista ha conosciuto, in pratica,
quattro diverse fasi. La prima è stata quella intrapresa
con il varo della riforma agraria e della Cassa per il Mezzogiorno
(voluta da De Gasperi e Menichella), nonché di diversi incentivi
fiscali e finanziari a sostegno delle iniziative dell’imprenditoria
locale e per attirare al Sud parte degli investimenti della grande
industria del Nord.
La seconda è stata quella coincidente con la programmazione
economica del centro-sinistra, che ebbe per capisaldi, oltre al
compimento dell’elettrificazione nel Mezzogiorno (affidata
all’Enel), la destinazione al Sud della maggior quota dei nuovi
investimenti dell’Iri e la creazione tanto di alcuni “poli
di sviluppo” per lo più petrolchimici che del complesso
siderurgico di Taranto e dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco.
La terza, negli anni Settanta e Ottanta, finalizzata ad agevolare
il decentramento al Sud di alcune attività produttive di
importanti imprese nazionali (a cominciare dalla Fiat) e la formazione
di specifici distretti industriali capaci di vita propria, al posto
delle precedenti “cattedrali nel deserto”, nonché
a utilizzare i fondi strutturali regionali della Comunità
europea.

Infine, la quarta fase, caratterizzata da una progressiva correzione
di rotta (per non riprodurre una sequenza di finanziamenti pubblici
“a pioggia”, esposti oltretutto a infiltrazioni mafiose),
che sfociò tra il 1992 e il 1993 nell’abolizione del
ministero per il Mezzogiorno (al fine di responsabilizzare gli enti
locali) e nell’introduzione di parametri automatici, non più
discrezionali, per la valutazione dei progetti di sviluppo da sostenere.
Una fase, questa, cui fece seguito nel 1998 l’avvio sperimentale
di “contratti d’area” e di “patti territoriali”,
basati su accordi tra associazioni imprenditoriali del Nord e del
Sud per investimenti al Mezzogiorno e su una certa flessibilità
salariale negoziata con i sindacati.
Oggi, a distanza di cent’anni dall’esordio dell’intervento
straordinario, si deve prendere atto che la politica meridionalistica
non ha raggiunto purtroppo il principale dei suoi obiettivi. E ciò
in seguito alla prevalenza assunta nel corso di molto tempo (per
calcoli politici-elettorali, per motivi di ordine sociale o per
la scarsa attitudine della macchina statale ad avvalersi di strumenti
operativi orientati all’innovazione) da una congerie di provvedimenti
per lo più assistenziali, assicurati dai rubinetti della
spesa pubblica. Se, da un lato, si è registrato un miglioramento
nel Mezzogiorno dei livelli di reddito e di consumo (seppure non
nella stessa misura di quello avvenuto nelle regioni del Centro
e del Nord), dall’altro persiste infatti (malgrado la fioritura
di alcuni comprensori industriali e terziari convenientemente attrezzati
e competitivi) un fortissimo divario del Sud rispetto al resto del
Paese.
Di fatto, mentre è pur sempre compito dello Stato estirpare
la malapianta della criminalità organizzata, soltanto la
capacità d’iniziativa e un rinnovato impegno degli imprenditori
locali possono dar vita a un processo di sviluppo autopropulsivo
del Mezzogiorno che valga a risolvere la vecchia “questione
meridionale”, assottigliando l’angolo ottuso secolare
della forbice peninsulare.
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