Da una ventina danni a questa parte, non
solo
in Italia, ma un po dovunque,
le donne sono
allavanguardia
in quasi tutti i
settori.
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Quando si parla di declino, se non di vera e propria decadenza
dellItalia, oppure di ritardo rispetto agli altri Paesi europei,
vengono citati spesso il tasso di crescita del Prodotto interno
lordo, linflazione, il debito pubblico, le spese in ricerca
e sviluppo, i tassi di scolarizzazione. Molto meno spesso si ricorda
unaltra dimensione sulla quale il nostro Paese è terribilmente
indietro rispetto al resto del Vecchio Continente: il tasso di occupazione
femminile.
Su questo aspetto siamo allultimo posto in Europa, preceduti
persino dalla Grecia, dalla Spagna e dal Portogallo. Se lItalia
si ponesse come obiettivo di raggiungere il tasso di occupazione
dellEuropa a Dodici (quella dellarea euro), le basterebbero
300 mila posti di lavoro maschili in più, ma le occorrerebbero
ben due milioni di nuovi posti di lavoro femminili, in massima parte
concentrati nelle regioni centro-meridionali e nelle Isole, e in
più lieve misura anche nellItalia del Nord-Ovest: soltanto
quella del Nord-Est ha già oggi un tasso di occupazione femminile
europeo.

È curioso che fra i grandi temi dellagenda politica
quello delloccupazione femminile riceva una così scarsa
attenzione da parte della maggior parte delle forze politiche. Chi
denuncia continuamente (e giustamente) il fatto che tante famiglie,
dopo lintroduzione delleuro, non riescano ad arrivare
alla fine del mese, dovrebbe forse assegnare una priorità
più alta allobiettivo della piena occupazione femminile.
Intanto, perché un maggior numero di donne occupate implicherebbe
un reddito in più nelle rispettive famiglie.
E poi perché, se si desidera far crescere il potere di acquisto
delle famiglie senza danneggiare la competitività delle imprese,
è di gran lunga preferibile puntare sullinclusione
dei non garantiti piuttosto che su aumenti salariali
ai già occupati.
Ma cè anche un altro ordine di ragioni che segnala
la centralità della cosiddetta questione femminile.
Da una ventina danni a questa parte, non solo in Italia, ma
un po dovunque, le donne sono allavanguardia in quasi
tutti i settori. A scuola le ragazze vanno meglio dei ragazzi. Alluniversità
le studentesse ottengono medie più alte, si laureano in un
minor numero di anni e lo fanno con voti migliori. In alcune situazioni
(Gran Bretagna) lo scarto fra maschi e femmine è cosi grande
che si stanno sperimentando delle specie di classi differenziali
per recuperare i maschi.
A fronte di tutto questo sta il fatto che il sistema produttivo
continua a privilegiare loccupazione maschile, e lo fa tanto
più nettamente quanto più le posizioni ricoperte sono
elevate. Quando riescono a stare sul mercato del lavoro, le donne
competono (abbastanza) efficacemente nei gradini iniziali della
carriera lavorativa, ma devono cedere il passo non appena si tratta
di salire i gradini successivi.
Quel che vale in generale, vale, in misura anche maggiore, in campo
politico. È vero che alle donne la politica interessa di
meno che agli uomini, ma in nessun Paese europeo la percentuale
di donne parlamentari è bassa come in Italia. Hanno fatto
bene le parlamentari italiane a porre con forza questo problema
e a battersi perché nel Parlamento siedano più donne.
Si può discutere allinfinito sui mezzi per ottenere
questo risultato, e in particolare sullidoneità delle
cosiddette quote rosa, ma è piuttosto difficile
non riconoscere le buone ragioni di chi conduce questa battaglia,
nonché i benefici effetti di un contenimento del monopolio
maschile della politica.
E tuttavia sarebbe ancora più meritorio se, oltre a cercare
di infoltire la propria rappresentanza, le donne che fanno politica
si impegnassero a fondo per riportare la questione femminile al
centro dellagenda politica, promuovendo misure incisive sul
doppio versante dei servizi (asili nido) e delle chances occupazionali,
con particolare riguardo al Mezzogiorno e alle Isole.
Il nostro Paese ha un deficit drammatico di competitività
innanzitutto perché ha un deficit drammatico di meritocrazia.
E il deficit di meritocrazia punisce innanzitutto luniverso
femminile: le donne che non riescono a trasformare in opportunità
di lavoro e di carriera il loro eccesso di capacità.
Da questo punto di vista la questione femminile è al tempo
stesso un problema e una risorsa, un visibile segnale dallarme
e unindicazione di percorso: ci dice esplicitamente che cosa
non va, e anche in quali aree del nostro Paese non va, ma ci suggerisce
nello stesso tempo una strada per venir fuori dalle secche del declino
del Sud e, in ultima analisi, dellintera Penisola.
Questa situazione, che nelle regioni meridionali è patologica
e si trascina da tempo immemorabile, è tanto più inquietante,
in quanto proprio nel Sud le donne hanno raggiunto indici di scolarità,
a livello di diplomi di scuola superiore e di lauree universitarie,
superiori rispetto a qualsiasi altra area italiana. E tuttavia vi
prevale il più diffuso precariato, insieme con le più
vaste fasce di inoccupazione. Per non parlare delle carriere direttive,
che sembrano quasi del tutto precluse, mentre lo spirito diniziativa
(e di inventiva) femminile cresce a vista docchio: basta osservare
il buon numero di imprese e di attività manageriali avviate
dalle donne in diverse aree regionali del Meridione, in particolare
in Puglia, in Abruzzo e in Sicilia.
Laltra faccia della medaglia del nostro declino economico
è il conflitto generazionale, quello fra giovani e anziani.
Da ormai quindici anni la posizione relativa dei giovani nella distribuzione
dei redditi in Italia sta peggiorando. La povertà tra chi
è senza lavoro parla sempre più giovane ed è
nelle classi di età più basse che è concentrato
il fenomeno dei working poor. Hanno già oggi una volatilità
dei loro redditi fino a cinque-sei volte quella delle generazioni
che li hanno preceduti quando avevano la loro età. Non pochi
dei giovani lavoratori di oggi potranno, dopo aver lavorato quarantanni,
ricevere pensioni di poco più di 400 euro al mese, al di
sotto della linea della povertà assoluta. Il nostro sistema
è notoriamente squilibrato a favore di chi oggi riceve una
pensione (due terzi della spesa sociale sono destinati a questa
funzione), magari a 57 anni e con laspettativa di vivere per
altri 25-30 anni. Gli interventi sul fisco e sui trasferimenti sociali
hanno ultimamente migliorato la situazione delle famiglie con un
anziano come capofamiglia rispetto alle famiglie con figli minori.
Le proposte che circolano sono quelle di aumentare le pensioni minime.
Cioè: ci si insegue nel cercare di conquistare il partito
dei pensionati, mentre la povertà fra i giovani non sembra
essere certo una priorità.

Perché la politica ignora i giovani? Ed è possibile
risolvere il conflitto intergenerazionale, anziché doversi
schierare dalla parte dei giovani o da quella degli anziani?
Cominciamo dalla prima domanda. Finché ci sarà un
conflitto fra generazioni, saranno gli anziani ad avere la meglio.
Oltre ad essere maggiormente rappresentati dove conta esserlo, sono
sempre più numerosi tra gli elettori. Lelettore mediano
aveva nel 1992 (quando fu varata lunica riforma delle pensioni
che ha ridotto le prestazioni degli attuali pensionati) 44 anni,
alle elezioni politiche del 2001 ne aveva 46, oggi ne ha 47, e nella
legislatura successiva raggiungerà i 50 anni. Dunque, sarà
sempre caccia al voto del settore mediano.
Secondo quesito: è inevitabile il conflitto? In realtà,
lelettore mediano ha molto da perdere dal peggioramento delle
relazioni con chi è più giovane. Saranno proprio gli
attuali under 40 a pagare le pensioni dellattuale elettore
mediano. Dal successo dei più giovani nellaccumulare
capitale umano e nel valorizzarlo dipende in buona misura la ricchezza
futura dellelettorato mediano, anche perché chi ha
livelli di istruzione più elevati riesce a lavorare più
a lungo, può creare posti di lavoro e stimolare, attraverso
la trasmissione ad altri delle proprie conoscenze, la crescita dellintera
economia. Soprattutto le abilità non cognitive (capacità
di comunicazione, autostima, adattabilità), così essenziali
nel successo professionale, si formano nei primi anni di vita.
Dunque, lelettore mediano è fin da subito interessato
ad investire nel benessere e nella crescita culturale dei più
giovani. Ma non se ne rende conto perché, nel suo lavoro,
vede solo il lato negativo del rapido inserimento nel mondo del
lavoro dei più giovani, quello della svalutazione del proprio
capitale umano.

Ci sono allora tanti modi per far realizzare allelettore
mediano i vantaggi di una bilancia delle opportunità che
si sposta maggiormente a favore dei giovani, internazionalizzando
i vantaggi che da questa derivano.
Facciamo un esempio su di un terreno centrale, oltre alle pensioni,
in cui oggi si consuma il conflitto intergenerazionale: la qualità
dellistruzione e della ricerca. Un quarto dei nostri docenti
ha più di 60 anni, la percentuale più alta in Europa.
Il pensionamento degli ultrasessantenni ci offre, in linea di principio,
lopportunità di rinnovare il nostro corpo docente,
portandolo alla frontiera della ricerca.
Siamo da questa molto lontani, dato che la valutazione della ricerca
universitaria espressa di recente ha mostrato che in molte discipline
solo il 10-20 per cento dei migliori prodotti di ricerca selezionati
dalle università ha caratteristiche di eccellenza, secondo
una scala di valore condivisa dalla comunità scientifica
internazionale.
Il problema è che oggi sono spesso i docenti più anziani
a decidere sullingresso delle nuove leve, e molte volte preferiscono
far passare chi è meno in grado di svalutare il proprio capitale
umano ed è stato magari da anni al loro servizio.
Solo 5 docenti su 100 hanno meno di 35 anni, e il nostro sistema
universitario ha una percentuale di ricercatori stranieri nel corpo
docente vicina allo zero. Se la valutazione della ricerca venisse
ora utilizzata per decidere come distribuire i finanziamenti alle
università, anche i docenti più anziani sarebbero
interessati a rinnovare il corpo docente chiamando i ricercatori
più bravi che si trovano sul mercato, anche lontano dal proprio
orticello. Con il loro ingresso nel corpo docente, questi ricercatori
farebbero infatti salire il livello medio della ricerca nella propria
università, contribuendo a migliorarne le disponibilità
finanziarie.
Ma è molto probabile che questo utilissimo esercizio di valutazione
rimanga in qualche cassetto telematico e che le università
continuino a ricevere finanziamenti in base unicamente al numero
degli studenti. Con buona pace di quei docenti che pensano ormai
solo alla pensione, e di quegli studenti che cercano ununiversità
più facile e più comodo.
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