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Dir bene degli americani? Dio ne scampi. Ho provato ad esprimere
quel che pensavo (che penso) in proposito, e subito insieme con
i complimenti sono giunti i rimbrotti. Ma come, con i marines in
Iraq? Sì, con i marines in Iraq. I quali hanno disarcionato
Saddam Hussein, togliendogli dai fondelli il petrolio, col quale
aveva finanziato i terrorismi interno ed esterno e aveva instaurato
una satrapia familiare violenta e sanguinaria. Con i marines in
Iraq: e con gli iracheni che per la prima volta nella loro storia
hanno votato. Sono andati alle urne tutti, sciiti, curdi, persino
i sunniti. E la stampa nostrana, compresi alcuni di coloro i quali
amichevolmente mi hanno rimproverato di essere “troppo filoamericano”
(il che francamente non è), che cosa ha fatto? Ha messo su
il consueto teatro dei pupi, commentando la vicenda “all’italiana”,
cioè tirando fuori, nell’ordine: che però ricordiamoci
del Vietnam; che non va dimenticato neanche l’Afghanistan;
che Marilyn Monroe era in ogni caso una gran baldracca; che c’era
stato il Watergate; che a suo tempo Kofi Annan recalcitrava; che
il presidente americano George Bush è come Stalin (folgorante
intuizione di Vittorio Zucconi, figlio dell’incolpevole Guglielmo,
pubblicata su “Repubblica”); che guai a dimenticare le
prigioni di Abu Grahib; che il Ku Klux Klan fu in ogni caso una
tragedia sanguinosa; che Toro Seduto e Nuvola Rossa vennero trucidati
sappiamo bene da chi; che Marilyn, a pensarci bene, era molto più
puttana di quanto si pensasse appena sopra; che i film americani
stanno strangolando – ma va’? – il genio tutto nostrano
e tutto girotondi di Nanni Moretti; che in un modo o nell’altro
«questa America sta infettando le democrazie minori, che scimmiottano
l’America» (sempre Zucconi-pensiero, ibidem); che altro
ancora, a cura della penna all’arsenico di Andrea Marcenaro.

Risultante del ragionamento dell’insolente corsivista: Camillo
Benso ha perso la battaglia. Cercò di amalgamare teste di
piemontesi, lombardi, toscani, papalini, borboni, mafiosi, gondolieri,
pastori e briganti sotto un’unica etichetta: – Fatta l’Italia,
bisogna fare gli italiani –. Sarebbe stato geniale. Ma lo statista
aveva trascurato un dettaglio: che essendo l’Italia popolata
di Zucconi, avrebbero fatto prima gli iracheni a ricostruire l’Iraq
che noi a praticare un buco per la Tav.
Già, la Tav. Come concepirla, quando si ha a che fare con
un popolo glocal? Nel senso che noi siamo un popolo che viaggia
molto, e che, al ritorno dalle escursioni planetarie, amiamo raccontare.
E diciamo di aver visto ponti lunghi chilometri che saldano la Danimarca
alla Svezia e alle isole vicine, o che ancorano varie aree del Giappone
e diverse zone di metropoli americane; di aver preso treni veloci
che ci hanno portato sotto la Manica, da Londra a Parigi, in men
che si dica; che ci siamo arrampicati fino all’ultimo piano
dei grattacieli di Shanghai, di Kuala Lumpur, di Sydney; di aver
viaggiato nelle metropolitane di New York, di Londra, di Parigi,
di Mosca; di aver scoperto ad Amsterdam un inceneritore realizzato
come una moderna scultura, a pochi chilometri dal centro urbano;
di aver fruito senza alcuna fatica dei parcheggi sotterranei di
Barcellona e di Madrid, nelle cui strade è vietato sostare;
di aver preso i battelli fluviali ad Oporto, passando sotto i proverbiali
“sette ponti” a duplice piano, stradale e ferroviario,
che scavalcano i fiumi portoghesi; di essere passati indenni accanto
alle centrali nucleari produttrici di energia che a due passi dalle
Alpi, in Francia e in Svizzera, non offendono alcun paesaggio, garantiscono
elettricità, esportano da noi materia prima, introitano valuta.
Una volta strabiliati gli ascoltatori, svanita l’“ebbrezza
del viaggiatore”, si torna ad essere italiani, vale a dire
abitanti della Val di Susa, quindi contrari ai treni veloci per
il trasporto di merci e passeggeri; di Reggio Calabria e di Messina,
e di conseguenza contrari al Ponte sullo Stretto; di Bologna, e
dunque nemici accaniti della metropolitana; di Civitavecchia, e
pertanto contrari alla centrale dell’Enel; di Brindisi o di
Monfalcone, e perciò ostili ai gassificatori che consentirebbero
di importare gas via nave; della Campania, della Puglia e della
Basilicata, dunque contrari agli impianti che utilizzerebbero i
rifiuti locali (sbaraccati ad alto costo altrove) per produrre energia;
della Sardegna e di diverse zone appenniniche della Penisola, dunque
contrari agli impianti eolici da installare nelle fasce ventose
per la maggior parte dell’anno; di questa o quell’altra
regione italiana, perciò testardamente restii ad accettare
la costruzione o la ristrutturazione di autostrade, e figuriamoci
l’installazione di campi profughi, anche se poi carità
pelosa ci porta alla “politica dell’accoglienza”
indiscriminata. E via di seguito.
La mappa dei “no” è sterminata e scoraggia chiunque,
pubblico o privato, tenti di metter mano alla costruzione di opere
e infrastrutture. Sebbene nessuno neghi l’esistenza di un deficit
in questo campo, che è uno degli elementi principali del
differenziale di crescita e di qualità del nostro Paese rispetto
ad altri: parola di Chicco Testa, il quale si chiede come mai accada
questo in un’Italia che è nel cuore del Mediterraneo,
e ritiene di avere la risposta giusta.

Nella maggior parte dei casi – sostiene – le opposizioni
sembrano motivate da ragioni ambientali, nel senso che l’ambiente
è spesso il filo conduttore e l’infrastruttura che unifica,
nel tentativo di nobilitarli, i tanti “no”. Ma basta un’analisi
appena approfondita per rendersi conto che nella maggior parte dei
casi non ci troviamo di fronte ad opere sconclusionate o meramente
speculative, come spesso è accaduto nel passato: da molte
di esse, al contrario, potrebbe derivare un netto miglioramento
ambientale. Ferrovie e metropolitane tolgono spazio a camion, autovetture
e aerei. I termocombustori eliminano centinaia di discariche, molte
delle quali abusive o possedute dalle “ecomafie”. Le moderne
centrali elettriche possono sostituire i più inquinanti impianti
di vecchia generazione. E l’effetto serra, sommato alla crescente
richiesta di energia da parte dell’India, della Cina e del
Brasile, sta rendendo pressoché inevitabile il ricorso all’energia
nucleare.
Si dice: per realizzare le grandi infrastrutture è necessario
il consenso della gente. Ma quale gente? I corridoi europei della
Tav fanno parte di accordi internazionali. Sono necessari agli italiani,
ma anche ai francesi e agli altri popoli verso l’Est, fino
agli ungheresi e agli ucraini. Domanda: è giusto che una
valle decida per italiani, francesi, ungheresi e ucraini? Una città
per un impianto energetico che serve tutta l’Italia? Un quartiere
per la metropolitana di un’intera città? Non è
giusto, ma è così, nell’Italia oscurantista dei
nostri giorni. Sicché, agli svantaggi economici che derivano
dalle prese di posizione negative, si aggiunge la “sindrome
Banana” (“Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything”,
non costruire assolutamente nulla in nessun posto vicino a niente).
E c’è dell’altro.
Sostiene l’ex presidente dell’Enel che «ci sono
anche la responsabilità di classi dirigenti che non sanno
fare il loro mestiere, la vicinanza sempre sospetta del mondo politico
al mondo delle imprese, i mille conflitti di interesse, la furbizia
tutta italiana con cui si pensa di aggirare i problemi, i progetti
mal fatti, le procedure poco trasparenti». O forse siamo semplicemente
tutti prigionieri di una stessa malattia: il pessimismo generato
dall’oscurantismo. Non esiste, da noi, una visione del futuro
sufficientemente motivante, tale da indurci ad assumere dei rischi,
a sacrificare qualche cosa oggi, per scommettere sul domani. A noi
il futuro sembra carico solo di incertezze e di pericoli, una cosa
dalla quale proteggerci, sulla quale non sbilanciarsi, scommettendoci
sopra. È l’indole italica, trita miscela di individualismo
e di furbizia, di “callido particulare”, con scarsa considerazione
per il bene comune.
Altra sindrome, in proposito. La chiamano “Nimby”, acronimo
che sta per “Not In My Backyard”, non nel mio giardino.
Sicché dietro l’Italia che dice “no” a tutto
ciò che sa di modernità e di innovazione non c’è
soltanto il peso di una cultura monopolista e consociativa che la
fa da padrona; c’è anche l’altro fronte di resistenza,
quello che non nega che certe opere siano necessarie, ma riesce
a trovare comunque un “argomento dislocante”: il posto
non giusto, il progetto un po’ invecchiato, la tecnologia migliorabile,
le dimensioni ingrandite o ridotte. E a rotazione intervengono amministratori,
politici, esperti, sindacalisti, in anticipo magari su una magistratura
nelle sue diverse articolazioni, penale, civile, amministrativa,
contabile, costretta a fare il suo dovere. Così i tempi si
allungano, le attività vengono sospese, gli uffici lavorano
su un nulla che non può che culminare nel nulla. È
arcinota storia italiana. Altrove, dove per il bene del Paese decide
un’autorità centrale (sì, nella vituperata America,
ma anche in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Irlanda, in Portogallo),
le reti infrastrutturali crescono, e insieme crescono la competitività,
la convenienza per gli investimenti esteri, l’occupazione,
il prodotto interno lordo, i salari e gli stipendi. Da noi restano
i privilegi delle lobbies, le opposizioni dei monopolisti, gli espedienti
delle culture isolazioniste. Gran vuoto lasciato dalla mancata realizzazione
della grande infrastruttura mentale che ci avrebbe “fatto tutti
italiani”. Non ha perso soltanto Cavour. Abbiamo perso tutti,
e per questo ci consideriamo tutt’al più contigui, parenti
molto alla lontana, forse anche di grado remoto, perciò appena
reciprocamente tollerabili. Altro che ponti e Mose e nastri d’asfalto.
Siamo coloro i quali accettano Malagrotta, la più grande
discarica d’Europa, subito fuori Roma, e negano il rigassificatore.
Altrove, il flautista di Hamelin. Da noi, la protezione delle pantegane!
C’entra, tutto questo, con l’America? C’entra sicuramente.
Noi sappiamo che i no global, i no Tav, i no Ponte, e tutti gli
innumerevoli “no qualcosa” che, sommati insieme, sono
solo una minoranza assoluta, ancorché violenta, si dichiarano
nemici del sistema capitalistico e borghese, sposando ogni tesi
ambientalista contraria alla tecnologia e alle infrastrutture. E
in qualche modo, com’è stato notato, costoro sembrano
riecheggiare, sia pure inconsapevolmente, filoni del nazionalsocialismo
tedesco che odiavano gli inquinatori e le macchine, amavano gli
animali, proibivano il fumo e intanto gasavano ebrei, rom e omosessuali.
Costoro non sono braccio operativo di nessuno, non sono filiazioni
di potenze o servizi stranieri, ma rappresentano una grigia linea
di confine sulla quale si attestano con il loro estremismo, con
le intemperanze giovanili che includono l’uso della spranga
e la teoria dello scontro come modo di agire politico. Costoro sono
emersi sulla scia di movimenti nati in America: a Seattle, per quanto
riguarda i nostri giorni; nel campus di Berkeley, ai tempi della
guerra nel Vietnam. Molto si distrusse allora, perché sfido
chiunque a dimostrare che il Sessantotto abbia costruito qualcosa
di positivo, e niente si vuole realizzare oggi; violenza diffusa
ci fu allora, altrettanta violenza c’è oggi. La specificità
italiana è determinata dall’uso della violenza abbinata
all’uso del vittimismo.
Si prenda il caso del deputato Borghezio, il leghista malmenato
e minacciato di morte per defenestrazione su un treno pieno di quegli
ultrà domenicali che non pagano biglietti e devastano le
vetture, tanto pagano sempre i cittadini comuni. Ebbene: non è
che sia particolarmente affezionato alla Lega; ma non riesco ad
accettare l’inqualificabile atteggiamento di una parte della
stampa, che è riuscita a trasformare, con un collaudato gioco
di artifici ideologici, la vittima in carnefice. Alla fine, per
queste penne cialtrone, Borghezio «se l’è cercata».
Perché? Presto detto: è sufficiente scorrere l’elenco
delle colpe del leghista, (eccessi verbali, enfasi, insulti a terroni
ed extracomunitari, mal riusciti tentativi di satira, e via dicendo),
per giustificare la brutale, inevitabile “lezione”. È
lo stesso schema di chi vuole vedere le cose solo in un certo modo.
Ed è il combinato disposto della violenza diffusa dei “no
tutto” che, con la complicità furba (aggettivo di moda,
in questi ultimi tempi) di alcuni giornali, mette a rischio la legalità
e lascia la verità alla mercé della strumentalizzazione
politica, provocando devastazioni che sono organiche al declino,
non al rafforzamento della democrazia.
La differenza è nel fatto che l’America odiata da costoro
assorbe e supera le contestazioni, e le travolge «irrompendo
ogni giorno nel presente»; mentre da noi incombe «un
passato che non passa mai», che condiziona, che si fa alibi
di tutti i rancori e di tutti i livori, che reclama lo scontro in
nome di impossibili rivincite. Ora, è fuori discussione che
un po’ di spirito di frontiera è penetrato nelle nostre
vene ed è in circolo nel corpo della nazione: non possiamo
condannarci ad una vita bucolica, non possiamo trasformare il Paese
in un’antistorica Arcadia, scienza e tecnica contaminano, e
finiscono col prevalere, anche se i tempi si faranno lunghi, anche
se i costi finiranno per essere maggiori, anche se dalle colonne
di alcuni quotidiani accanitamente manichei emergeranno gli svicolamenti
critici, le deviazioni strumentali dei discorsi, e in ultima analisi
la malafede delle penne che per se stesse riservano un’unica
libertà, quella di essere servili.
Allora è scontato che la Tav si farà, si faranno anche
lavori di miglioramento dei percorsi autostradali; e si spera che
non tramonti il progetto del Ponte sullo Stretto, che fra l’altro
rappresenterebbe il miglior biglietto da visita per illustrare le
capacità e l’originalità del lavoro italiano.
Solo che noi dovremo convivere in qualche modo con i “no futuro”,
quelli abitualmente in gita familiare fuori porta, e quelli meno
depensanti che sono esperti in intifade ravvicinate con le forze
dell’ordine, per loro lungo esercizio e per nostra stolta tolleranza.
Si dice che, per esempio, al posto del Ponte ci dovrebbero costruire
strade e ammodernare ferrovie. Che è come indicare col dito
la luna: il cretino vede solo il dito. Il Ponte provoca indotto,
comuni, province e Regioni devono predisporre le infrastrutture
complementari, intanto limitando gli sperperi, (che sono ovunque
all’ordine del giorno), e poi facendosi finanziare dallo Stato
e da Bruxelles. Accade in Spagna, o in Irlanda. Perché da
noi non può verificarsi? Perché è comunque
tanto meglio, se le cose vanno tanto peggio? A proposito: cresce
la percentuale dei “no lavoro”, cioè degli italiani
che vorrebbero rinunciare a qualsiasi attività lavorativa.
Domanda per capire: per far sopravvivere quanti di costoro dovranno
lavorare i miei figli?
Ma forse la domanda è un’altra: non è che l’Italia
sta anticipando i tempi? Cioè: non è che nel duro
confronto tra materialità e spiritualità, che contraddistingue
i comportamenti antropologici di questi nostri tempi, da noi si
profila il sopravvento di un afflato religioso e di un bisogno di
assoluto tipico di una società post-cristiana, a scapito
del know how professionale, dell’operatività attiva
e realizzatrice, dei segni strutturali fisici che contraddistinguono
un’epoca e una società?
Facciamo un esempio basato su un paragone verificabile con l’odiosamata
Francia, con cui siamo legati da una “cuginanza” reciprocamente
maldicente per conflitti storici e culturali mai sopiti. Bene: la
Francia è un Paese straordinariamente dinamico. Nell’ultimo
mezzo secolo ha realizzato il Secam, uno dei primi sistemi di tv
a colori; ha costruito una corona di centrali nucleari che la mette
al riparo dai ricatti delle potenze energetiche; ha il sistema europeo
più efficiente e più rapido di collegamenti ferroviari;
ha linee aeree che raggiungono tutti i continenti e ha sviluppato
un’industria aeronautica di prim’ordine; con il Minitel
ha creato, prima ancora di Internet, una rete urbana di comunicazioni
integrata per informazioni, prenotazioni e acquisti; ha costruito,
con la Gran Bretagna, il tunnel sotto la Manica; ha coinvolto i
partner europei in una coraggiosa politica spaziale, lanciando fra
l’altro il sistema di navigazione satellitare Galileo, voluto
dall’allora Capo dello Stato, Mitterrand. E passando al campo
più strettamente culturale: ha realizzato una rete di case
della cultura e di teatri popolari che copre l’intero territorio,
la nuova Biblioteca Nazionale di Parigi, l’ampliamento del
Louvre; insieme con la Germania, ha avviato il motore di ricerca
europeo “Quaero”, con il quale contrasta l’oligopolio
americano di “Google” e di “Yahoo”.
Nello stesso periodo che cosa abbiamo fatto noi italiani? Avevamo
un’industria aeronautica e siamo diventati subappaltatori degli
americani; avevamo un’avanzata tecnologia nucleare, che ci
annoverava tra i primi del mondo, e l’abbiamo soffocata nella
culla; avevamo un’industria elettronica e l’abbiamo sostituita
con una valanga di telefonini costruiti altrove; avevamo una compagnia
di bandiera aerea che ci portava ovunque, e adesso siamo costretti
a passare da Francoforte, da Parigi o da Madrid, per recarci in
Cina o in America Latina. Mentre Parigi realizzava le sue grandi
infrastrutture, a Roma ci si accapigliava sulle barriere nella laguna
veneziana, sulle varianti di valico, sulle pedemontane, sui ponti,
sui treni veloci. Mentre Parigi inaugurava il Grande Louvre, noi
non riuscivamo ancora ad ottenere che il Circolo delle Forze Armate
lasciasse una volta per tutte Palazzo Barberini, per consentire
alla nostra Capitale di avere finalmente una grande Galleria d’Arte.
I francesi proseguono con l’ambizione di essere i primi nel
Vecchio Continente; noi perseguiamo solo ed esclusivamente il nostro
particulare. Fatto di crescente alienazione al rischio e al lavoro
e di un’intermittente ricerca di un Senso, cioè di un’alta
ragione di vita, ma rivolta ad una sola direzione: la dimensione
interiore vissuta trasversalmente, in una sorta di bricolage delle
religioni e di “filosofie” che somiglia a un neopaganesimo
ibrido e onnicomprensivo, remoto dalla serenità umbratile
dei chiostri, dalla pace delle chiese di campagna, dal misticismo-ponte
verso l’infinito delle cattedrali.
È così. Non vogliamo vedere quel che fiorisce intorno
a noi, appena al di là delle Alpi, dopo aver destrutturato
quel poco che avevamo costruito, con determinazione suicida contestiamo
il pochissimo che si progetta. In compenso, o come alibi freudiano,
ci rifugiamo nel mondo astratto della speculazione metafisica, volendola
applicare all’etica immanente, alla nuda terrestrità,
mentre non conosciamo nemmeno Tommaso d’Aquino né Agostino
di Tagaste. Sicché, intonsi e accidiosi, arretriamo nel futuro:
tragici spiriti anticipatori, avendo intuito che al declino della
civiltà occidentale succederà il predominio dei Paesi
a sviluppo veloce dell’ex Terzo Mondo; o tragico popolo marginale,
cacciato nella periferia planetaria da un’arrogante neghittosità
impastata con residui di ideologiche servitù. Produciamo
rovine e le chiamiamo compatibilità, vocazioni, scelte.
In realtà, sono rifiuto di un moderno Rinascimento.
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