Al di là del
tricolore e dellinno di Mameli,
i problemi sorgono se qualcuno osa chiedere qualche cosa di più,
e parla di identità o addirittura di
orgoglio nazionale.
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In questi nostri tempi di confusioni reali e strumentali, di crisi
come segno di transizione non si sa ancora verso dove né
verso cosa, di ferree resistenze e di dolorose lacerazioni, per
non smarrire misura del giudizio e possibilità di scelta
è indispensabile tener presente esclusivamente la realtà:
sostantivo che deriva dal latino res, e che significa semplicemente
cosa, dato di fatto con il quale e sul quale
confrontarsi. E i dati predominanti oggi sembrano essere di natura
fisica ed etica, a giudicare da quanto è non emerso, ma confermato
dallesito del referendum sulle riforme costituzionali. Vediamo
di chiarire i termini della questione.

«Lorgoglio e legoismo delluomo creano sempre
divisioni, innalzano muri dindifferenza, di odio e di violenza»,
ha detto Benedetto XVI celebrando la Pentecoste. Discorso che, intanto,
allude alle realtà fisiche, cioè visibili e persino
tattili che coinvolgono tutti gli orgogli e tutti gli egoismi e
i pregiudizi, i muri e le cortine che continuiamo ad innalzare nei
punti critici del pianeta. Sono geografie del disagio planetario
che possiamo elencare a volontà. Noi chiamiamo Linea
della pace quella che a Belfast è stata prodotta dalla
guerra tra cattolici e protestanti. Il piccone della storia ha abbattuto
dopo mezzo secolo il muro che spaccò Gorizia. Nato nellagosto
61, il Muro contemporaneo per antonomasia che per 155 chilometri
divideva le due Germanie attraversando Berlino è crollato
su se stesso nel novembre 89. Ma a Cipro ancora oggi Nicosia
è lunica città europea bisezionata da una guerra
etnica. In Golan, nella Valle delle Grida, da più di trentanni
cè il più affollato parlatorio del mondo, con
una Striscia di nessuno tra Israele e Siria dove persino
i funerali si celebrano con metà famiglie da una parte e
metà dallaltra.
Sarà lungo settecento chilometri il Muro di Sicurezza tra
Israele e la Palestina, mentre quello tra lIndia e il Bangladesh
è la più lunga cortina dacciaio dellAsia
meridionale, con oltre quattromila chilometri. Sulla sponda meridionale
dellunico fiume della Terra che ha due nomi, (da una parte
è Rio Bravo, dallaltra Rio Grande), corre la barriera
di oltre tremila e duecento chilometri tra Messico e Stati Uniti.
Sul celebre 38° Parallelo dal 1953 resiste un muro di 240 chilometri
che separa le due Coree. Da quelle parti, lUnesco ha dichiarato
Patrimonio dellUmanità gli oltre seimila e trecento
chilometri della Muraglia Cinese, mentre attendiamo che unanaloga
decisione venga presa per il Vallo romano presente in terra britannica.
Un gran terrapieno con casematte, fili spinati, nidi di armi automatiche
e sofisticati congegni elettronici separa il Marocco dal deserto
del sud e dellovest, mentre lEuropa coloniale spagnola
e lAfrica colonizzata marocchina sono due isole fortificate
a Ceuta e a Melilla con due doppie barriere metalliche sulle quali,
come al confine messicano, si concentra la pressione di milioni
di uomini in cammino.
 
Si dice: ogni muro è un segnale di sfiducia, in contraddizione
con la tendenza della politica internazionale che vuole creare ponti
e non barriere. Si dice ancora: i muri non saranno mai il fondamento
di unamicizia tra due popoli. E si replica: come proteggere
la porta di casa da chi entra e da chi fugge? Milioni di clandestini
non sono soltanto dei numeri, sono anche uno stato danimo.
Perciò, per abbattere un muro, ci vuole senso del limite.
E qui siamo alle altre realtà, quelle invisibili, non immediatamente
tattili né agevolmente definibili nel peso e nelle dimensioni,
perché figlie di un mood, di psicologie diverse, di percorsi
civili e di traiettorie culturali differenziate. Per fare un esempio
esplicativo: ancora oggi nulla unisce un bavarese a uno svevo, un
irlandese ad uno scozzese, o un catalano a un castigliano, che tendono
a declassare le reciproche antropologie culturali, ma che tuttavia
reagiscono allunisono al cospetto di attacchi alla generale
civiltà nazionale, sigillo identitario per chiunque sia in
un modo o in un altro tedesco o inglese o spagnolo.
Ciò non accade, o accade molto raramente, per lItalia.
Intanto, perché il senso di Patria resta per
noi una meta ancora molto lontana. E poi perché la nostra
è una società storicamente priva di un equilibrato
progetto di sviluppo civile, culturale, immune dalle contaminazioni
delle ideologie, non supina di fronte alle imposizioni delle più
volgari delle mode sfornate, come ha scritto Goffredo Fofi, da quei
fabbricanti di merci e manipolatori di tempo libero che fanno dei
nostri figli ottimi e sfrenati consumatori ma finti individui, conformisti,
fiacchi, ipocriti, massificatori.
Il senso perduto, o mai definitivamente acquisito, di Patria. Al
di là delleuro in tasca, del tricolore sventolato e
dellinno di Mameli canticchiato allo stadio, della corsa dei
bersaglieri una volta lanno in Via dei Fori Imperiali, (profilo
del cittadino-modello di cui una larga parte della classe politica
auspica la diffusione nel Paese), i problemi sorgono se qualcuno
osa chiedere qualche cosa di più, e comincia a parlare di
identità o addirittura di orgoglio nazionale, come da qualche
tempo a questa parte fanno alcuni intellettuali revisionisti
come Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia, qualche giornalista
fuori dal coro come Oriana Fallaci, o un politico sui generis
come lex capo dello Stato, Ciampi.
Qui limpresa si fa ardua. Perché si sostiene
gli interventi in tema di patriottismo si richiamano alle
memorie di unItalia che non cè più, toccano
le corde di unarte retorica tradizionale, si smarriscono in
un Paese vocato al conformismo. Chi studia la politica e si sforza
di capirla non può esimersi dal sottolineare come il tipo
di italianità rivendicata sia nutrita di valori di cui oggi
si sono smarriti il senso e la ragione dessere. Dietro di
essa ci sono il Risorgimento, il Piave, le campagne militari, il
desiderio di indipendenza, magari anche il culto di trascorse grandezze.
Come si fa a coniugare questo tipo di orgoglio, e hanno qualcosa
a che vedere le memorie belliche eroiche e sfortunate di parecchi
decenni fa, con il nostro odierno ruolo allOnu e nella stessa
Nato? Come si può invocare unidentità unitaria
della Patria, quando sono tenute in vita forze politiche di percentuali
minime, ma comunque condizionanti, che proprio alla disgregazione
dellidea di nazione indipendente e di Patria hanno dedicato
la loro attività saturnina, e tuttora agiscono in nome di
sistemi politici pietrificati, messi fuori gioco, nelle terre dorigine,
e nelle terre oppresse, dallinesorabile evoluzione della Storia?
In nome di un malinteso (e malizioso) senso della democrazia e della
libertà, si è praticamente conculcato ogni sentimento
nazionale, di identità nazionale; il modello che ha prevalso
ha ripudiato ogni residuo di mentalità eroica,
e ha abbracciato i valori e la mentalità del mercato, della
transazione, dellutilità: insegna suprema di coraggio,
di audacia guerriera, è diventato linvestimento
in Borsa su titoli dal futuro incerto. È emersa la società
che si basa sulle convenienze e sui vantaggi percepiti: una società
che aborre gli slanci ideali.

Qualcuno ha obiettato che proprio gli Stati Uniti dAmerica,
patria di questo modello, hanno dato prova dopo l11 settembre
di grande fusione psicologica collettiva, inalberando centinaia
di migliaia di bandiere e proclamando una crociata patriottica.
È vero. Ma dobbiamo riflettere anche su questo: gli Stati
Uniti incarnano oggi lunico potere egemonico esistente sul
pianeta; hanno un ruolo da svolgere, che in caso di necessità
può essere facilmente trasformato in una missione in cui
credere. Sono stati colpiti da un nemico, per la prima volta dai
tempi della guerra dIndipendenza, sul proprio suolo; e, per
giunta, da un nemico al quale è possibile conferire i tratti
fisiognomici dellassoluta diversità, dellAltro
che può diventare il Male contrapposto a un Sé che
si identifica con il Bene. Gli interessi che Washington difende,
e chiede di far difendere agli alleati, sono i suoi: sicurezza,
potenza, ricchezza, influenza, dominio.
Ma noi? Che cosa resta a noi? Dipende dai punti di vista. A certi
politici interessa il patriottismo di nicchia. Ad altri sta a cuore
una certa solennità del richiamo istituzionale ad una vaga
identità nazionale, che può far da contrappeso alla
perdita di rilevanza dello Stato. Gli storici possono discutere
anche accanitamente sulla tesi che quellidentità sia
andata in fumo l8 settembre del 1943, per continuare sotto
mentite spoglie la multidecennale disputa tra i sostenitori del
primato dellantifascismo sullanticomunismo, e viceversa.
Ma quanto a veder risorgere un vero e proprio senso diffuso di Patria
unitaria, cè da farsi poche illusioni: il traguardo
è lontano.
Poiché della perdita di identità, o delle sue generiche
enunciazioni, non si parla mai, e poiché la colpa maggiore
della classe politica (al seguito di una classe dirigente poco attendibile
e che è stata capace di tutto, sempre con perfetto egoismo)
è quella di occupare il presente senza preoccuparsi di nessun
futuro, se non immediato, tocca a chi avverte il peso di qualche
responsabilità nei confronti della collettività e
della sua cultura tentare di leggere il quadro di fondo, le necessità
imprescindibili che classe dirigente, politici e moralisti hanno
dimenticato.
La politica non si dà più progetto, e senza progetto
una società può solo seguire il flusso delle cose,
lasciarsi guidare dai poteri esperti nel convincere le masse che
siano esse a guidare il mondo e a decidere il futuro, mentre in
realtà è oggetto di strategie di natura economica,
oltre che politica. Problema senzaltro culturale. Perché
la cultura è leducazione, non è strumento per
la formazione del consenso, ma per la liberazione e per la valorizzazione
dellindividuo; non ci si deve preoccupare della cultura intesa
come merce e come spettacolo (la voga dominante): della cultura
occorre avere anzitutto una visione antropologica e ideale. È
quel che accade in modo particolare per gli «intellettuali
di Magna Grecia», che delle discriminazioni geografiche, economiche,
sociali, hanno sempre avuto coscienza e consapevolezza, e che per
la caduta del Muro che divide la Penisola si sono battuti a lungo,
prima di cedere, sfiniti, al cospetto della pervicacia dualistica
dellazione politica e di politica economica delle pessime
classi dirigenti italiane.
Fu fittizia lunità dItalia perseguita da Cavour.
Il Paese non si unificò allora, non si unificò quando
fu sconfitto il brigantaggio che di fatto fu protagonista di una
guerra civile, né lo fu allepoca dellindustrializzazione,
e meno che mai dopo il primo conflitto mondiale e dopo la Resistenza
e il vento del Nord. Né lo è oggi, in
giorni in cui lesito del referendum ci dà, nitida,
limmagine di unItalia crepata in due tronconi che confinano
solo per affrontarsi sulla linea da una parte della
voglia di secessione, e dallaltra della diffidenza
nei confronti del rinnovamento politico-economico e della caduta
di ogni speranza di sviluppo in tempi brevi, viste le cifre (le
ultime) che riguardano la condizione del Sud. Infatti, per il prodotto
interno lordo, fatto 100 quello per abitante del Centro-Nord, nel
Mezzogiorno si sfiora appena quota 60; per gli investimenti per
abitante, nelle sei regioni meridionali più Isole si è
al 61,2 per cento; per loccupazione, si è appena al
di sopra del 71 per cento: circa trenta punti di distacco dal resto
del Paese. Ultimo fotogramma: il rapporto tra tasso di disoccupazione
e forza-lavoro è pari al 293,9 per cento! Per le infrastrutture:
i chilometri di autostrada per ogni 1.000 kmq sono 100 al Centro-Nord
e 67,7 al Sud-Isole; bancomat, sportelli bancari e bancoposta per
100 kmq, al Sud-Isole 48,7 per cento.
Riequilibrare? Scommettere sullavanzamento dellItalia
grazie allo sviluppo del Sud? Sono sogni, prodotti magari da un
buon senso che in una società senza molto senso potranno
semmai suscitare ascolto solo tra rare minoranze realisticamente
preoccupate del presente e del futuro di un Paese che ha il suo
cancro più devastante nella comune assenza di senso di responsabilità
nei confronti della collettività e soprattutto delle nuove
generazioni, perché questa è sempre stata la scelta
delle corporazioni forti.
Ha scritto Magdi Allam (vice-direttore del Corriere della
Sera, musulmano, sunnita): «Provo orrore per lItalia
che è intollerante nei confronti di se stessa, della propria
identità nazionale, dei propri valori. LItalia ammalata
di intolleranza schizofrenica, che si tramuta in un omicidio-suicidio
dellanima prima ancora che del corpo. LItalia che ripudia
parte di sé, che usa la violenza verbale e fisica per aggredire
se stessa, che esulta dieci, cento, mille Nassiriya,
che ha trasformato la festa della Liberazione nella giornata della
disunione nazionale, che innalza differenti vessilli partigiani
ma quasi si vergogna di marciare unita allinsegna del tricolore».
Sarà questo lultimo muro della Storia a cadere? Cadrà
mai? La cultura forte del Sud saprà far valere le proprie
ragioni al confronto col pensiero debole del Nord? Ci sarà,
e prevarrà, unutopia possibile? E noi sapremo emendarci
dei nostri peccati gravi, che hanno condizionato economia e società
al di qua della Linea Gustav? Ci sono molte pagine da scrivere ancora,
prima che si intacchi il muro che è nel cuore dellItalia
a due dimensioni.
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