Se il nostro mito
è Ulisse,
eroe dellastuzia, del rischio e della tecnica, il pensiero
cinese è prudente
e insinuante,
non simpone,
non è dogmatico,
lascia accadere.
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Si dice sindrome cinese, oppure pericolo giallo: i termini con
cui limmaginario occidentale ha configurato la Cina hanno
sempre avuto qualcosa di allarmante. È perché la Cina
è veramente laltro, sostiene Renata Pisu, la studiosa
che vi ha vissuto a lungo, e che è autrice, fra laltro,
del fortunato La via della Cina: «Anche ciò che può
apparirci come una rapida occidentalizzazione non è proprio
così: confuciani di giorno e taoisti di notte, come si dice
semplificando, i cinesi sono difficili da descrivere. Il Tao, lantica
filosofia che ispira il loro comportamento, non è una religione,
è una forma mentis, qualcosa di organico che li rende quelli
che sono, cioè diversi da tutti».

Un filosofo che dedica la sua opera a descrivere il modo di pensare
cinese è il francese François Jullien. Già
molti dei suoi testi sono stati tradotti in italiano, da Trattato
dellefficacia a Il saggio è senza idee, da Strategie
del senso a Il nudo impossibile, allElogio dellInsapore
e al più recente Nutrire la propria vita. Libro, questultimo,
che spiega come, al contrario della separazione dei piani (esistenziale,
morale, spirituale, materiale) del pensiero occidentale, in quello
cinese tutto resti unito, e che il saggio non si cura dei risultati,
ma soltanto di «evolvere nel Tao, come un pesce nellacqua».
«Il pensiero europeo, intimamente platonico», sostiene
Jullien, «separa lanima dal corpo, il femminile dal
maschile, il bene dal male. Il pensiero classico cinese ragiona
per
polarità, yin e yang: è un sistema di relazioni».
Il suo movimento non è mai frontale, ma laterale, e come
si legge in Lao-Tse aspira al paradosso: «Non fare nulla (e
che nulla sia fatto)». È lelogio del non agire
per ottenere tutto dallazione dellavversario. Uno dei
più antichi testi, il Tao Tè Ching, insegna che «il
Tao è vuoto» e predica «lutilità
dellinutile».
«In effetti non esiste assolutamente un quadro comune in cui
si possa collocare il pensiero cinese e quello occidentale perché,
prima di tutto, non cè un quadro linguistico comune»,
conferma Jullien. Il quale, essendo un filosofo, non può
evitare di andare al nocciolo della questione: «La nostra
filosofia, che discende dallantica Grecia, ha un problema
con la saggezza. E viceversa i cinesi taoisti hanno un problema
con la filosofia». Perché il saggio non parla al filosofo.
«Il saggio non discute, ma contiene, e il grande Tao non si
enuncia». Insomma, noi applichiamo un modello alla realtà,
siamo idealisti; loro sono pragmatici. Noi analizziamo, loro ascoltano.
Noi aspiriamo alla vetta, loro si mantengono in basso, umili come
lacqua. Noi siamo epici, loro prudenti. Noi abbiamo fretta,
loro attendono «le trasformazioni silenziose» insite
nelle cose. Noi cerchiamo levento, loro lo temono.
Come venire a capo di tanta distanza e come non fomentare con questo
la paura che il miracolo economico cinese suscita in Occidente?
Risponde leconomista Romeo Orlandi, direttore del petroniano
Osservatorio Asia: «In realtà, di miracoloso non cè
nulla. Ci sono 25 anni di straordinario sviluppo, mai visto prima,
in cui il Paese si è mosso collettivamente verso i risultati
di oggi». Ma centra il Tao con tutto questo? Risponde
il sinologo Giorgio Trentin, curatore del recente La Cina che arriva:
«Il Tao centra sempre, perché è dentro
ogni cinese».

«È un pensiero individualista che curiosamente (per
noi) spinge ad adeguarsi in vista del risultato, a non opporre resistenza
allenergia del mondo. Però non bisogna dimenticare
che quel reddito straordinario è prodotto dai pochi (350
milioni di persone) che si sono arricchiti, mentre gli altri 800
milioni vivono in condizioni al limite della fame». Questo
potrebbe provocare, via via inasprendolo, un conflitto di classe
interno capace di cambiare sensibilmente lespansionismo cinese
attuale, e di produrre nella vita quotidiana una sintomatica scissione.
Lo chiarisce la nipponica Etsuko Kakui, che pratica nella capitale
italiana medicina tradizionale cinese ed è insegnante di
Tai chi: «Oggi va di moda fra i ricchi orientali essere occidentalizzati.
Preferiscono le palestre alle arti marziali nei prati. E succede
che Tao e medicina tradizionale siano seguiti dai poveri che non
possono permettersi le costose cure occidentali. Salvo poi, fallita
la guarigione, tornare alla tradizione».
Lo storico Guido Samarani, autore di La Cina del 900, amplia
la visione: «La Cina di oggi è un incrocio di varie
filosofie, pensieri, stili di vita. Tradizione e occidentalizzazione,
più la matrice marxista socialista, formano un impasto complesso
e di difficile decifrazione. La storia ci insegna la cautela».
E allo stesso modo il Tao. Tornando a Jullien: «Se il nostro
mito è Ulisse, eroe dellastuzia, del rischio e della
tecnica, il pensiero cinese misconosce il rapporto teoria-pratica.
È prudente e insinuante, non simpone, non è
dogmatico, lascia accadere. Il saggio cinese trae profitto non dalla
propria iniziativa, ma dalle cose stesse e dalla loro naturale evoluzione».
E così è il cinese medio, probabilmente. Basti pensare
alle Chinatown di tutto il mondo, quellemigrazione discreta,
a gruppi familiari, senza integrazione, ma senza dar fastidio, con
la tipica capacità di approfittare degli interstizi, di sfruttare
i cedimenti dellaltro, offrendo beni esotici e appetibili.
Dunque, hanno in mano tutte le carte per vincere? «La nostra
chance è resistere alla fascinazione, che senza dubbio è
grande», chiarisce il filosofo Sergio Givone, autore di Il
bibliotecario di Leibniz. «A noi sfugge il senso delle cose,
per cui ci affascina ciò che ci sembra loro abbiano conservato:
il segreto dellessere, il suo enigma. Ma la nostra non è
una cultura solo biecamente scientista. Non abbiamo bisogno di innamorarci
del vuoto del Tao, quando il nulla heideggeriano è qualcosa
di molto simile. Cerchiamo di non farci immagini caricaturali, dove
Occidente è sinonimo di cattivo e Oriente di buono. Sarebbe
un errore grossolano e davvero perdente».
Marco Polo vi arrivò per ultimo. E forse la superò,
chiamando Cipango, la terra che era a levante di un
grande oceano, nientaltro che la costa americana. Comunque
sia, molto prima di lui la Cina era già vicina. Dai tempi
degli antichi greci, mercanti e avventurieri percorrevano la Via
della Seta e delle Spezie, che si snodava per tutta lAsia,
attraverso città leggendarie e cariche di storia, da Antiochia
a Ecbatana, a Samarcanda.
Testimoniano i contatti tuttaltro che occasionali, fra laltro,
capolavori darte, ma anche testimonianze di una storia che
ha conosciuto periodi di incredibile splendore, come la dinastia
Tang (618-907 d.C.), letà più raffinata, libera
e disinibita che la Cina abbia conosciuto. E, sullo sfondo, un rapporto
ininterrotto con lOccidente, che a volte affiora a sorpresa
in un ricamo o in una statua, dove si coglie uneco di influenze
greche e persino romane.
Dunque, Oriente Estremo e Occidente europeo erano già più
vicini di quanto si potrebbe pensare. Fin dal V secolo a.C., letà
di Pericle, i greci avevano aperto scali commerciali nellAsia
centrale, nelle stesse regioni dove, alcuni secoli più tardi,
irromperanno gli eserciti di Alessandro Magno.
Già allora la seta era una delle merci più ricercate.
E proprio per i prodotti ricavati da essa e da altre stoffe pregiate
i romani erano scesi più volte in guerra con lImpero
orientale dei Parti, che dominavano larga parte della Via della
Seta. Durante una di queste guerre, nel 53 a.C., il triumviro Crasso
era stato sconfitto dai Parti sul fiume Eufrate. Alcuni suoi soldati,
presi prigionieri, erano andati a finire proprio in Cina. Qui avevano
insegnato ai cinesi le tattiche di guerra della legione e si erano
insediati nella cittadina di Li Jien: alcuni loro discendenti, marcati
da tratti somatici visibilmente occidentali, vivono tuttora laggiù.
Cè una storia sotterranea, sconosciuta, di rapporti
tra il Mar Mediterraneo e la Cina, che proprio le opere darte
aiutano a ricostruire: ad esempio, un corteo di guardie donore
del II secolo a.C., con carri, cavalli e cavalieri modellati in
bronzo. Ebbene, certe figure rivelano unevidente influenza
di analoghi bronzetti di forma equina dellantica Grecia. E
si pensi alle immagini del Buddha: il buddismo è nato in
India, ma sono stati i cinesi coloro i quali hanno iniziato a raffigurare
il Buddha, ispirandosi a loro volta alle statue dellarte greco-indiana
del Gandhara.
Rapporti complessi e sorprendenti, che hanno dellincredibile.
Del resto, sarà così anche nei secoli successivi.
Il filo tra Oriente e Occidente non si spezzerà mai. Pochi
sanno, per esempio, che il più celebre pittore cinese del
Settecento, Lang Shining, gran ritrattista della corte imperiale,
si chiamava in realtà Giuseppe Castiglione e veniva da Milano.
Tra i pezzi esposti in una recente mostra a Treviso, la prima di
una serie che per alcuni anni illustrerà la storia e larte
cinese, cera anche un drago in bronzo del IV secolo a.C.:
la prima raffigurazione in assoluto dellanimale fantastico
che poi sarà per sempre il simbolo del potere imperiale.
E abbiamo ricordato Treviso perché si trattava di uno dei
centri più importanti dItalia per la bachicoltura,
e dunque uno dei terminali europei della Via della Seta.
Abbiamo ricordato, soprattutto, lepoca doro della Cina,
quella della dinastia Tang, nota come il Rinascimento cinese, fiorito
con una civiltà tanto raffinata quanto spregiudicata. Infatti,
un gruppo di terrecotte scoperte solo un anno fa raffigura cammelli
e cammellieri in pista: e i cammellieri hanno lineamenti chiaramente
occidentali: sicuramente, mercanti che percorrevano la Via della
Seta. Un altro gruppo di statuette venute alla luce rappresenta
donne con abiti modernissimi, con ampie scollature. I poeti Tang
cantavano la bellezza di quelle donne, magari cortigiane, nella
capitale di un Impero che già allora era una metropoli di
un milione di abitanti. Il che vuol dire, con tutta probabilità,
che quella Tang era unepoca di grande libertà, anche
nei costumi sessuali. Forse mai, in tutta la sua storia, la Cina
è stata così libera. Forse mai, come ora, le sue città
più importanti si sono aperte alle influenze del mondo occidentale,
non soltanto per i traffici di uomini e di merci, ma anche di idee,
di filosofie, di visioni del mondo. Sarà faticoso, e lento,
il processo di più ampia apertura: ma prevarrà la
concretezza delle cose. I cinesi lo sanno. Sta a noi usare la flessibilità,
la pazienza e lintelligenza necessarie per rendere permanente
il dialogo.
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