La storia degli
ultimi tre decenni mostra quanto sia stato pernicioso per un Paese
come lItalia
allontanarsi da un principio unitario.
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Quello che mai vollero personaggi del calibro di Benedetto Croce
e Francesco Saverio Nitti lo ha ottenuto il leader leghista Umberto
Bossi: la devolution, legge dello Stato («perfettibile»,
dicono gli ottimisti che si battono per la Padania libera),
è stata sottoposta a referendum, ed è stata allegramente
buttata alle ortiche dagli italiani. Non siamo in grado di anticipare
quel che succederà nei prossimi mesi, anche se possiamo immaginare
le reazioni dei carrocciani. Allo stato delle cose, e in via preliminare,
sono state sollevate due questioni, una di metodo e una di merito,
sulla devoluzione.
La prima riguarda il fatto che una riforma costituzionale di tale
ampiezza e portata deve essere oggetto di un dibattito approfondito,
e non frutto di una trattativa condizionante allinterno di
una singola forza (o coalizione, o polo) politica. Cioè,
non deve essere né strumento di ricatto da parte di un partito
né un colpo di mano di una maggioranza che sebbene
discorde sul tema vota per disciplina, o peggio ancora, vota
strumentalmente, in attesa, appunto, del referendum per il quale
ha lasciato ai propri elettori libertà di coscienza.
Siccome tocca gli interessi di ogni cittadino, infatti, non può
non essere affidata al vaglio dellintero popolo sovrano.

La seconda, altrettanto rilevante, chiama in ballo un principio
di solidarietà che non risponde solo ad un afflato caritatevole,
ma è il collante di qualsiasi unità nazionale.
In altri termini: la riforma cova un deficit di equità che
si collega strettamente al deficit di efficienza sottolineato da
un gran numero di commentatori. Non si tratta di una lettura economicistica.
È in ballo la tenuta del Paese. Il rischio si annidava già
nel titolo V della Costituzione approvato dal centrosinistra, e
in particolare nellarticolo 117, il quale attribuisce allo
Stato una potestà legislativa limitata alle sole materie
specificamente attribuitegli e alle Regioni una potestà legislativa
«su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione
dello Stato». E prevede la possibilità di una legislazione
concorrente amplissima. Chi vuole minimizzare la portata di
questa devolution sostiene che in fondo la riforma attuale mette
ordine in quella precedente e la completa. Che in parte sarà
vero. Ma è un ordine che non basta a cancellare lallarme.
Anzi.
Questo tipo di federalismo, se supererà il referendum, produrrà
un limbo asfissiante per le economie locali: parola di Ettore Artioli,
che vicedirige Confindustria, con delega sul Mezzogiorno, e dunque
è uno di quelli che se ne intende. Anzitutto, prosegue, continuiamo
a stare in una situazione di confusione. La riforma introdotta dalla
precedente legislatura era già incompleta: ne sono prova
gli innumerevoli contenziosi in atto tra lo Stato e le amministrazioni
locali sullattribuzione delle competenze; ma è indubbio
che anche adesso la confusione permane, perché la devoluzione
a livello locale produce più politica e meno economia. E
la parcellizzazione delle competenze che conseguirà non sempre
sarà funzionale allo sviluppo del Paese. Perché? Perché
unulteriore presenza della pubblica amministrazione nella
realtà economica italiana non solo rischia di rendere i processi
decisionali più farraginosi. Le maggiori competenze agli
enti locali rischiano anche di determinare una maggiore vivacità
di penetrazione nel tessuto economico ad opera delle municipalizzate,
ad esempio, che possono essere considerate una grande occasione
mancata della politica recente. Ora come ora, le municipalizzate
sono un ibrido, sono delle SpA che agiscono con egide privatistiche,
ma senza due elementi fondamentali, tipici di quel tipo di società:
non si assumono il rischio patrimoniale, tanto cè sempre
mamma Provincia o mamma Comune a garantire; il loro management non
rende conto ai propri azionisti. E il federalismo approvato dal
Parlamento non fa che incoraggiare una moltiplicazione di questi
soggetti.
Molti economisti sono preoccupati dagli enormi costi del decentramento,
e ricordano che già la riforma Bassanini, che proprio col
decentramento puntava a un abbattimento delle spese, aveva mancato
il suo obiettivo. Altri sostengono che senza federalismo fiscale
la devolution è una riforma zoppa, perché non responsabilizza
le amministrazioni locali: se il cittadino versa delle tasse, di
sicuro si aspetta anche unassunzione di responsabilità
da parte di chi incassa e una gestione meno macchinosa e più
trasparente della spesa; e siamo certi che le amministrazioni locali
agiscano sempre per il bene del cittadino e delle imprese? Poco
tempo fa la Campania ha proposto di aumentare lIrap, tassa
bocciata dallEuropa. E la Puglia ha stravolto la legge Biagi,
reinterpretandone la norma sullapprendistato e rendendola
di dubbia utilità per le aziende. Cè poco da
fidarsi degli enti locali e dello stesso Stato? È fuor di
dubbio che lo Stato sia più lontano dalle esigenze spicciole
che esistono nelle realtà locali, mentre le amministrazioni
locali rischiano più facilmente di rispondere a queste logiche
di interessi localistici perdendo di vista linteresse generale.

Per quel che riguarda la legge Biagi, non cè da scandalizzarsi
più di tanto se ci fosse qualche correzione. Intanto, cè
chi è convinto che quella legge non sia stata ancora capita
fino in fondo, con le sue potenzialità enormi di sviluppo
in direzione di un mercato del lavoro più efficiente e moderno.
Molte cose, in altre parole, sono ancora inattuali. Ma ci sono anche
formule strane nella legge 30, come ad esempio il job sharing o
il voucher, che fra laltro non è ancora decollato,
che possono essere riviste, perché si tratta di cose estranee
alla nostra cultura e mentalità: forse in futuro sarà
necessario rendere queste forme di lavoro più vicine alla
nostra mentalità e al nostro sistema.
Allorigine, la flessibilità del mercato del lavoro
doveva essere accompagnata dalla riforma degli ammortizzatori sociali,
vale a dire da una riforma che garantisse unadeguata rete
sociale. Che fine ha fatto? Non è dato saperlo. È
anche questa una riforma mancata, perché consentirebbe di
affrontare le crisi aziendali, se non con maggiore tranquillità,
per lo meno con minore preoccupazione: quello italiano è
un sistema troppo distorto dal continuo ricorso a mezzi straordinari
per scongiurare la chiusura delle aziende, che invece negli altri
Paesi è un fatto normale. È normale che oggi le imprese
aprano e chiudano a ritmi molto più veloci rispetto a ventanni
fa. Quindi dobbiamo imparare ad accettare le crisi dimpresa
come un fatto normale. E quella riforma avrebbe certamente aiutato
allo scopo.
E parliamo di debiti di uno Stato che dovrebbe spendere cifre da
capogiro per una devolution che per molti versi prelude a futuri
tentativi di separatismo. Cominciamo col fare un esempio, che riguarda
la regione Sardegna e la sua vertenza fiscale con lo Stato. Da un
calcolo eseguito dalla Ragioneria generale e dagli uffici regionali,
è emerso che dal 1993 ad oggi lo Stato non ha corrisposto
alla Sardegna quanto dovuto per legge costituzionale. Si parla di
circa 10 miliardi di euro, qualcosa che somiglia ad una finanziaria.
In poche parole, la Legge Costituzionale 26.02.1948, n. 58 (art.
8), ovvero lo Statuto della Regione, prevede che il gettito fiscale
che i cittadini e le imprese contribuenti versano in Sardegna costituisce
entrate della Regione per i 7/10 (ad esempio, Irpef e vecchia Irpeg)
e 4/10 (Iva). Di questa vicenda si tace, anche se potrebbe avere
effetti devastanti per le casse dello Stato qualora la Regione dovesse
presentare ricorso alla Consulta per far riconoscere i propri diritti.
Del debito pubblico si sono occupati generalmente gli economisti,
ma bisognerebbe raccontarlo come specchio della storia dItalia.
Quei pochi pionieri che lo hanno fatto, hanno trovato le relazioni
tra le varie esplosioni del debito e i grandi eventi che le hanno
provocate, (lUnità dItalia, la crisi del 1890,
le guerre, la depressione degli anni Trenta...), ma resta intatto
il mistero sul perché quel debito sia passato dal 64 per
cento del 1982 al 111 per cento dieci anni dopo, fino al record
del 125 per cento nel 1996.
Certo, anche qui entrano in gioco la crisi petrolifera, gli alti
tassi di interesse, il clientelismo, la corruzione. Ma quel raddoppio
rimane a tutti gli effetti un buco nero. Una delle chiavi di lettura
è che negli anni Ottanta arriva a maturazione il decentramento
regionale avviato nel 1970 e la spesa diventa incontrollabile. Nessuna
superstangata può scalfire quel macigno di granito. Se il
completamento prende corpo, quella montagna finirà
con lo schiacciarci nello spazio di un mattino. A quel punto, sotto
i colpi di una nuova, gravissima emergenza, (come sempre accade
nel nostro Paese per i grandi cambiamenti), diventerà inevitabile,
anzi legittimo, il si salvi chi può. Il principio
disgregativo, oggi in nuce, prenderà corpo.
Qui si annida linganno. La storia degli ultimi tre decenni
mostra quanto sia stato pernicioso per un Paese come lItalia
allontanarsi da un principio unitario. Ma anche un vero federalista
si rende conto che quel che si è voluto introdurre è
lontano sia dai princìpi dei Federalist papers
sia dal modello introdotto con il New Deal negli Stati
Uniti e applicato poi in Germania con la Costituzione del 1950.
Gli studiosi lo chiamano federalismo cooperativo, un compromesso
che lo dimostra il dibattito tedesco ormai fa acqua
da tutte le parti.
Il Parlamento italiano aveva approvato un federalismo centrifugo,
che portava in grembo la secessione: la saggezza dei cittadini dellintera
Penisola ha dato un segnale preciso, battendo a stragrande maggioranza
questo orribile disegno.
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