Se siamo ancora Paese bisogna
ritrovare lo spirito dei tempi migliori, una moderna
cultura dimpresa e unaristocrazia del lavoro che abbia
voglia
di competizione globale.
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La chiamano pandemia crematistica, ed è la malattia che
colpisce un politico quando sostiene di non avere alcuna intenzione
di arricchirsi. Solo che, ascoltandolo mentre si abbandona a queste
ineffabili, utopiche affermazioni, alluomo stradale torna
in mente la malinconica osservazione del barone von Bismarck, secondo
il quale la democrazia basata sul suffragio universale è
il governo di una casa a partire dalla stanza dei bambini.
È da quindici anni che la classe politica italiana è
scossa da improbabili fremiti di apatia finanziaria a causa dei
magistrati dassalto e del malanimo del common people che crede
ancora alla tv. Ma è vero che i politici italiani, nel secolo
di Bush e di Putin, vogliono restare distanti dagli affari? Davvero
quella che è stata definita la politica-partitica
è determinata ad abbandonare il suo ruolo fondamentale di
mediazione e a non sporcarsi le mani? Ebbene: anche il più
pacifico o il più illetterato dei cittadini ha una visione
diversa e più onesta della definizione del far politica.

Storicamente, i Parlamenti sono nati proprio per regolare i conflitti
dei potenti su interessi convergenti. Alla fine del Medioevo, in
Inghilterra, i ricchi (che erano anche coloro i quali disponevano
di milizie proprie) riuscirono a recintare privatamente le proprietà
collettive. Sicché Tommaso Moro, Cancelliere di Enrico VIII,
decapitato per la sua franchezza e fatto Santo dalla Chiesa di Roma,
poteva definire lo Stato moderno che allora stava per prender corpo
«una certa cospirazione dei ricchi». Nella sua celebre
Utopia, parlava nel Cinquecento di politici superbi,
«la cui prepotenza si adorna delle miserie del prossimo e
dellumiliazione dei poveri, felice non per i propri vantaggi,
ma per il danno che reca agli altri». Il Santo Cancelliere
sperava che si potessero adottare in Inghilterra le leggi e le istituzioni
degli Utopiani, in cui la fratellanza naturale prevaleva sul calcolo
politico. Ma, come egli stesso riconosceva, aveva «più
desiderio che speranza che ciò potesse mai accadere».
Marcel Proust vedeva nelle bugie dei politici un processo compulsorio
e obbligato. Proclamare che la bugia è malvagia sosteneva
costringe il politico a mentire più dei suoi simili.
Ci sono momenti di vita di un Paese in cui lesercizio della
menzogna è più evidente. Sempre Bismarck, che non
a caso si definiva Cancelliere di ferro, avendo fatto della Germania
una potenza mondiale, poteva riconoscere autobiograficamente che
«la gente non mente mai così tanto, come dopo una partita
di caccia, durante una guerra o prima delle elezioni».
Forse è proprio il caso di tornare a queste piccole verità
comuni nel valutare le disavventure finanziarie e i bisticci ideologici
che partiti ed esponenti politici nostrani hanno consumato in questi
ultimi tempi. E non è un atto di qualunquismo sospettare
che abbia ragione Bierce, re del giornalismo politico americano
dellOttocento, quando nel suo Dizionario del Diavolo
definisce la politica come «conflitto di interessi mascherato
da lotta tra opposte fazioni», o, in alternativa, «conduzione
di affari pubblici per interessi privati».

Non è una questione di conservatori o progressisti, di destra
o di sinistra, se i casi Unipol e Bingo hanno significato qualcosa.
Certe forze politiche di una volta potevano forse astrattamente
vantare di essere superiori o esterne a questa visione, sicuramente
negativa, imputata ribaldamente ai soli costumi borghesi.
Ma non è questa la visione tradotta in pratica dai sovietici,
dagli emiliani, dagli stessi cinesi. La superiorità di Utopia,
dice il santo Tommaso Moro, sta in un «comunismo di vita,
di economia e persino di cibo, senza alcuno scambio di moneta».
Purtroppo, o per fortuna, un mondo così non è mai
esistito. E dunque i politici sono condannati chi più,
chi meno a continuare a mentire.
Sullaltro fronte, gli imprenditori, alcuni di vecchia, altri
di nuova generazione. Ecco: quel che colpisce, nellondata
di questi che sono più che altro dei riccastri sulla via
della malora, è la discrasia fra stile e ruolo. Da finanzieri
e affaristi ci si può aspettare che siano disposti a vendere
anche la madre in cambio di un dividendo, ma non che la svendano
per acquistare antiquariato orrendo, paccottiglie e croste, per
circondarsi di mogli improbabili, per arrotolare dipinti del Canaletto
nel caveau di una banca, neanche fossero banconote o arazzetti da
suq stambulino. Per qualche strana ragione, a sostenere queste tesi
in Italia si finisce per essere tacciati di snobismo, quando invece
il gusto per la sobrietà e lamore per il bello sono
quanto di più semplice e vitale possa esistere in natura.
Certo, fin dalla preistoria i barbari trucidi e ignoranti
hanno sempre avuto la meglio sulle aristocrazie stortignaccole che
detenevano il potere ormai solo nominalmente. Ma i modi spicci vanno
di pari passo con la saldezza morale e il rispetto delle proprie
tradizioni. È proprio perché credono ancora in qualcosa
che i barbari riescono a spazzar via una classe di imbelli
che non ha fede più in nulla. E vien voglia di chiedersi
in che cosa credessero i cosiddetti furbetti del quartierino,
e quale fosse il loro disegno politico e umano, se non finanziarsi
gli stessi sogni grevi di un qualunque, squallido reality show:
sogni rivelatori di una grettezza profonda, tipica appunto
dei riccastri senza alcuna personalità.
Si obietterà: e il rampantismo (qualcuno aggiunge socialista,
senza avere il coraggio di dire craxiano) degli anni
Ottanta del secolo scorso? Ebbene: quello aveva almeno una visione
del mondo e una certa vitalità. Mentre questi rozzi personaggi
da tribuna donore allo stadio saranno anche volgari come i
barbari, ma di certo più flaccidi della stessa classe dirigente
che volevano sostituire. Forse è anche per questo che non
sono riusciti a farlo.
Di qui, declino e impoverimento dellItalia. E il contrasto
tra la complessità del caso italiano e il rischio di semplicismo
della risposta politico-economica. Complessità, perché
vi sono nuovi poveri, ma anche nuovi (e onesti) ricchi; desiderio
di protezione, ma anche di selezione; volontà di emigrare,
ma anche attaccamento alla propria terra. Rischio di semplificazione,
perché guai se il dibattito politico, economico, sociale
e culturale, dovesse ancora ridursi a un confronto tra statistiche
buone e cattive, tra Istat ed Eurispes, tra chi afferma che la ricchezza
cresce e i poveri diminuiscono e chi sostiene esattamente il contrario.
Parliamo, ovviamente, della cosiddetta povertà relativa,
non di quella assoluta, che pure in Italia esiste e che dovrebbe
essere la vera, forse unica destinataria dellassistenza e
della compassione. Madre Teresa accettò di aprire una casa
a Roma soltanto dopo avervi personalmente constatato la presenza
di luoghi di miseria simili a quelli di Calcutta.
La povertà relativa riguarda invece il ceto medio, di cui
fa parte la maggioranza degli italiani: sono coloro i quali ricevono
non uneredità, ma in famiglia uneducazione di
vita, e a scuola unistruzione corrispondente alla loro capacità
e volontà di studiare. Ebbene: se guardiamo al ceto medio,
vediamo quanto sia cambiata lItalia in una generazione. Rispetto
ai genitori, un trentenne di oggi ha maggiori disponibilità,
ma gli manca una fiducia fondamentale: di vivere in un Paese e in
un Continente dove i figli raggiungono traguardi di benessere preclusi
ai loro padri. Benessere privato (abitazione, lavoro, risparmio),
ma anche qualità dei beni pubblici (pulizia dellambiente
naturale, servizi civili, presenza nel mondo).
LItalia vive questo declino non da tre o quattro, ma da quindici
o venti anni, e coinvolge le responsabilità di tutte le forze
politiche, nessuna esclusa, attive nellultimo quarto di secolo.
Società e politica, pertanto, sono a un bivio. La società,
tra andare avanti e tornare indietro, tra cercare sicurezza nella
protezione e cercarla premiando la qualità, tra accettare
le sfide della modernità e fuggirle. La politica, tra ascoltare
soltanto, o anche guidare. Ascoltare soltanto vuol dire amplificare
e rincorrere ogni umore sociale, farne leva solo per la conquista
e la conservazione del potere. Guidare significa essere consapevoli
che ogni governo deve guardare più lontano di chi pur lha
democraticamente eletto, deve fare buona pedagogia, deve elaborare
sintesi e compiere scelte che superino le contraddizioni e gli umori
incostanti della società. Certo, nella società le
persone hanno preferenze diverse; ma è altresì vero
che ciascuna di esse è suscettibile di essere convinta, ed
è desiderosa di guida e di esempio morale.
Si racconta che Margareth Thatcher, a un collaboratore che le pronosticava
perdita di consenso se avesse preso una certa decisione, reagì
inviperita, investendolo a muso duro: «Consenso?! Consenso?!
Io non sono qui per il consenso, sono qui per il bene del mio Paese!».
Forse anche per questo governò da grande statista
per dodici anni.
Strano popolo, il nostro: capace di far miracoli, ma mai veramente
padrone del proprio destino. Non ci difetta leccezionalità,
come è stato riconosciuto; ma ci manca la normalità
dellazione mirata al progresso economico e civile. La nostra
storia è fatta di grandi exploit, cui seguono fatalmente
altrettanto grandi arretramenti, nei quali lItalia perde la
bussola e accentua le sue divisioni per trovare i colpevoli del
proprio smarrimento. Non siamo capaci di consolidare i buoni risultati
che pure sappiamo ottenere, né quelli che ci hanno visti
tra i primi nella corsa verso il benessere, come nel miracolo
economico di poco più di mezzo secolo fa, e nel successo
più recente del made in Italy; né quelli che ci hanno
risollevato da emergenze gravissime, come la crisi della lira e
del nostro sistema politico negli anni Novanta. Siamo riusciti a
usare la conquista dellingresso nelleuro per portare
le nostre divisioni interne al loro estremo, ben oltre la misura
possibile con la vecchia lira. Abbiamo accentuato la nostra diversità,
invece di mostrare che la rinuncia alla nostra moneta ci avviava
verso la normalità.
Il risultato è sotto i nostri occhi. Di questa nostra diversità
è stato scritto stiamo soffrendo tutti quanti,
ridotti come siamo a discutere non di come ritrovare lo slancio
che abbiamo perduto, ma di chi, fra noi, sia al di sopra di ogni
sospetto. Mentre nel Governo britannico si pensa a una giornata
dellorgoglio nazionale, da noi, che ne avremmo ben più
bisogno, lidea allo stato attuale delle cose sarebbe semplicemente
improponibile. La fiducia da parte del resto del mondo nei confronti
del nostro Paese è ai minimi, insieme a quella dei nostri
imprenditori più dinamici. Ne paga pegno leconomia,
oggi più che mai bisognosa di riorganizzarsi e di riqualificarsi
al meglio attraverso investimenti italiani ed esteri.
Da decenni, ormai, si discute di riforma del capitalismo italiano.
Lo si è fatto troppo spesso in termini dirigistici. Ora la
questione è tornata alla ribalta con le note vicende dapprima
dei Tanzi e dei Cragnotti, e poi dei Fiorani, degli Gnutti, dei
Consorte, dei Ricucci, e della compagnia bella che ha occupato per
lungo tempo le prime pagine dei quotidiani. Ma ora come ora il punto
vero è che dobbiamo scegliere se coltivare ancora la nostra
diversità oppure accettare la normalità.
Nessuno è in grado di sapere verso quali assetti del nostro
capitalismo ci porterebbe la prima via, perché dipenderanno
dallesito del confronto tra i vari interessi di un Paese diviso
in cui si useranno, comè nostro antico costume, gli
agganci internazionali che di volta in volta potranno sembrare più
opportuni alle singole parti in causa. Certo è, però,
che per essere diversi è necessario essere forti, e noi non
lo siamo. Quindi continueremo ad essere un Paese incompreso
dagli stranieri, così difficile da trattare che non vale
la pena di considerare più di tanto. Un Paese che, nella
sostanza, si autoemargina.
Per imboccare la seconda via, non dobbiamo avere paura di confrontarci
con lo straniero. Stiamo toccando con mano quanti danni ci porti
una difesa a oltranza dellitalianità che viene da un
giudizio implicito di debolezza del nostro capitalismo. Ma le nostre
capacità di lavoro e di inventiva, le nostre energie e risorse
imprenditoriali non sono disconosciute. Difettiamo piuttosto di
quella organizzazione produttiva che viene dalla continuità
dellazione umile che, passo dopo passo, conduce verso un progresso.
Politici (seri) e imprenditori (seri) sanno benissimo che abbiamo
un nucleo di aziende molto valide, perché già vanno
in questa direzione. Ben vengano capitali esteri, se questo serve
a rafforzare e ad ampliare questarea che mostra la capacità
di costruire il proprio futuro confrontandosi quotidianamente con
il mercato, e ad emarginare chi invece fa conto sui potenti di turno.
Alla certezza di un Paese che si indebolisce volendo mantenere il
controllo della propria economia grazie alle barriere poste dalla
propria diversità, possiamo contrapporre le opportunità
che vengono dal non apparire più come i soliti italiani,
per valorizzare con nuove risorse i nostri lati positivi senza rischiare
continui arretramenti e involuzioni. La riforma del nostro capitalismo
così verrà da sé. Nella giusta direzione. A
dispetto dei politici affetti da pandemia crematistica e degli imprenditori
da corte dei miracoli.
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