E dunque i gruppi irregolari di
contadini, pastori
e artigiani che
presero le armi contro le truppe degli invasori forse
si meritarono davvero il titolo
di partigiani.
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Nellestate del 1860, armati di forconi e tricolore, i contadini
di Bronte vanno allassalto della duchessa Nelson, erede di
quellammiraglio Horatio, al quale Ferdinando IV aveva concesso
il titolo nobiliare per i servigi resi nella liquidazione della
Repubblica del 1799. Sono decenni, in realtà, che tra i brontesi
e i Nelson è guerra carsica.
I contadini ma anche una parte dellélite locale
vogliono la divisione delle terre del demanio. I duchi e
tutti coloro che utilizzano meglio, usurpano quelle
terre, si oppongono. Finché proprio nel 60, sullonda
delle promesse di Garibaldi e del crollo dello Stato borbonico,
il conflitto esplode. Mobilitati dallélite antifeudale,
cui la situazione sfuggirà presto di mano, i brontesi massacrano,
oltre alla duchessa, un odiatissimo notaio e una decina di galantuomini.
Qualche giorno più tardi, le truppe di Bixio ristabiliranno
lordine, passando per le armi un certo numero di rivoltosi,
fra cui un avvocato, loro presunto leader. Gli altri verranno processati
e, quattro anni dopo, condannati.
Lepisodio smaschera una lettura canonica del Risorgimento
che rimane tuttora opaca, spesso soltanto apologetica, e in molti
casi reticente. Se i fatti di Bronte sono stati per lo più
ignorati da questa storiografia, è perché rendono
esplicito il debole radicamento del processo unitario e la profonda
incomunicabilità che, già nel 1860, emerge tra Nord
e Sud. A Bronte il linguaggio della nazione è assente e la
lotta tra borbonici e unitari o tra assolutisti e liberali
impallidisce di fronte a ben più corposi conflitti
di fazione che dividono la comunità. Un quadro che rivela,
già prima del brigantaggio, le ferite della lotta di classe
(sulla quale ha insistito la storiografia gramsciana), ma anche
forme e motivi tipici di una guerra civile.
Per parte loro, i liberatori non sembrano capirci molto.
Il Mezzogiorno, confiderà Bixio alla moglie, «è
un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi
civili». Tanto più in una Sicilia segnata dal forte
autonomismo e attraversata da quelle bande armate che sono in procinto
di diventare mafia, il Risorgimento appare come una miccia che,
paradossalmente, rischia di spezzare il tessuto sociale proprio
nel momento dellunificazione politica.

A Bronte è molto difficile dar pagelle. I rivoltosi, per
difendere la legalità contro le usurpazioni, compiono un
feroce linciaggio: i garibaldini, (che tuttavia rappresentano le
istituzioni), per restaurare la convivenza civile, organizzano esecuzioni
sommarie.
La liberazione, o la conquista, del Sud
è un puzzle di situazioni analoghe che attende ancora di
essere approfondito in modo analitico fuor di retoriche e di giudizi
semplificati. E non sarebbe male promuovere anche una più
ampia ricerca storica, capace di lumeggiare la nascita controversa
della nostra Patria. Perché, comè tuttora evidente,
le grandi divisioni dellItalia non si superano rimuovendo
o manipolando le loro radici.
La Cineteca Nazionale ha restaurato il film Bronte di
Florestano Vancini, che nel 1972, alla sua prima apparizione nelle
sale, suscitò vivacissime discussioni, alle quali fra gli
altri presero parte Angelo Solmi e Alberto Moravia, Mino Argentieri
e Lino Miccichè, Giuseppe Galasso e Paolo Mieli. La nuova
edizione del documento cinematografico, che è più
lungo di 14 minuti, perché Vancini vi ha inserito scene girate
e non montate precedentemente, può offrire lo spunto per
riaprire il discorso sui rapporti tra storia e cinema. Tanto più
che è stato simultaneamente pubblicato un volume curato da
Pasquale Iaccio e intitolato Bronte. Cronaca di un massacro che
i libri di storia non hanno raccontato.
Negli ultimi tempi lopera di Vancini, che non conseguì
un buon successo di pubblico, ha avuto una certa diffusione nelle
scuole, come materiale didattico utile alla comprensione del Risorgimento.
Con la riforma Moratti, luso didattico del film sono
in tanti ad auspicarlo dovrebbe essere più frequente.
Ma fino a che punto un film di fiction può essere
utilizzato come documento? Bisogna dire prima di tutto che la rappresentazione
filmica non può sostituirsi allanalisi storica. I film,
come hanno dimostrato da tempo gli storici del cinema, non costituiscono
una documentazione sugli avvenimenti narrati, ma semmai sulla società
degli anni in cui sono stati girati. A proposito di Ivan il
Terribile di Sergej Eisenstein, Carlo Ginzburg ha scritto
che potrebbe essere considerato una fonte sulla Russia del Cinquecento
solo se, nel 3001, tutte le altre fossero state distrutte. Ai nostri
tempi dobbiamo considerarlo, invece, una fonte sulla Russia di Stalin.
Linterpretazione che i film danno degli avvenimenti storici
va a sua volta interpretata. Ivo Garrani, al quale Vancini affidò
il personaggio dellavvocato Nicola Lombardo, il moderato di
Bronte che guidò la rivolta e cercò di darle uno sbocco
non sanguinoso, in unintervista rilasciata a Pasquale Iaccio
ha detto che nel film cè una «Sicilia autentica»,
anche se fu girato in Jugoslavia «con attori jugoslavi bravissimi
e una ricostruzione del paese abbastanza felice». Lautenticità,
dunque, è tutta costruita. Ciò non significa che sia
falsa. A Bronte ci furono «divisione di beni, incendi, vendette,
orge ad oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi».
La repressione di Nino Bixio fu dura oltre la ferocia: i villaggi
dellEtna gli gridarono «Belva!». Non lo hanno
scritto gli sceneggiatori del film, ma il garibaldino Giuseppe Cesare
Abba (quello di Da Quarto al Volturno), che di quei fatti fu cronista
e testimone. Abba, inoltre, attribuì a un frate, padre Carmelo,
lauspicio di una guerra «degli oppressi contro gli oppressori,
grandi e piccoli».

Per questo, una ricostruzione che interpreti almeno una parte delle
vicende del 1860 come una lotta delle coppole contadine
contro i cappelli borghesi non costituisce una forzatura,
anche se, nel caso della rivolta di Bronte, la complessa analisi
che ne fece nel 1988 lo storico Salvatore Lupo, sottolineandone
tutta la specificità, mostra che essa non fu un episodio
di uneterna lotta di classe.
Leggendo invece oggi la sceneggiatura del film (alla quale partecipò
anche Leonardo Sciascia), il ricordo del 1968 si confonde continuamente
con la rievocazione del 1860, in un sottile gioco di rinvii. Il
carbonaio Calogero Gasparazzo (al quale gli sceneggiatori fanno
dire: «Santo diavolone! E come si fa a fare la rivoluzione
contro i cappelli se chi la comanda è un cappello?»)
è un rivoltoso del 1860 oppure un extraparlamentare? Limmagine
delloperaio Gasparazzo della striscia di Lotta continua
finisce col sovrapporsi a quella del carbonaio di Bronte. E lavvocato
Lombardo sembra un rappresentante di quella che veniva allora bollata
come sinistra tradizionale. Se si vuole, come è
giusto, che i film entrino nella nuova scuola in maniera più
diffusa, queste cose devono essere spiegate agli studenti. Nel caso
di Bronte si eviterebbe che finiscano col vedere il
Risorgimento attraverso la lente deformante del Sessantotto.
Del resto, un dibattito odierno sui rapporti tra storia e cinema
dovrebbe riguardare anche un altro argomento. I grandi fatti collettivi,
il Risorgimento, la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Resistenza,
hanno ispirato ottime pellicole e qualche capolavoro, ma non hanno
fatto nascere una cinematografia epica. Durante lepoca fascista,
Alessandro Blasetti, Augusto Genina e Goffredo Alessandrini si impegnarono
a fondo per raggiungere questo obiettivo, ma i risultati furono
scarsi.
Eppure, come è stato ricordato, la cinematografia italiana
si è interessata di storia fin dalle origini: il celebre
Cabiria di Giuseppe Pastrone, al quale collaborò
anche Gabriele DAnnunzio, e che rievocava le guerre puniche,
apparve nel 1913, subito dopo la guerra di Libia. Ma nessun film
di ispirazione storica ha espresso la nostra identità con
la stessa efficacia della commedia italiana. Eppure, abbiamo vissuto
vicende tragiche, che hanno coinvolto profondamente lintera
popolazione. Ma non sembra che ne abbiamo una memoria condivisa.
E senza di essa non può esserci vero epos nazionale, né
nella letteratura né nel cinema.
Partigiani? La parola è pronunciata soltanto
alla fine dellultimo libro che ricostruisce le vicende del
Sud che seguirono immediatamente allimpresa garibaldina. Eppure,
quel termine aleggia sin dal principio in questa storia di cafoni
e di ribelli finti generali con toppe al sedere e ciocie ai piedi,
eroi per caso e pentiti per interesse o per scampo, patrioti disposti
a fucilare nel nome dei Savoia e ribelli pronti a bruciare e a saccheggiare
con il salvacondotto dei Borbone. Questo interessante capitolo nella
storia delle insorgenze antiunitarie, (ovvero il brigantaggio
meridionale durante il decennio successivo alla proclamazione del
Regno dItalia, tra il 1860 e il 1870), ha in Salvatore Scarpino
un interprete appassionato, oltre che un cronista dotato di gusto
del ritratto.
Ma ancor più dei medaglioni storici dedicati a Crocco e Chiavone,
autoproclamatisi generali nel nome di un distante e ignaro re delle
Due Sicilie in esilio, e delle descrizioni suggestive delle loro
imprese, nella sua Guerra cafona colpisce una denuncia: i piemontesi,
o sardo-garibaldini, (come li definivano sprezzantemente
gli insorti), agirono nel Sud con mentalità precoloniale.
Trattarono cioè i campesinos delle Calabrie e
del Napoletano, non meno dei lucani, dei pugliesi, e degli abruzzesi-molisani,
da «esseri pigri e inferiori», se non addirittura come
«selvaggi da educare», premessa di un atteggiamento
mentale che si sarebbe affermato nei decenni seguenti durante le
guerre di conquista in Libia o in Abissinia.

E dunque i gruppi irregolari di contadini, pastori e artigiani
che presero le armi contro le truppe degli invasori,
preferendo il rischio di una pallottola nella schiena alla servitù
in miseria sotto un governo ateo e straniero, colpendo
e fuggendo, occupando città e paesi per poi ritirarsi sotto
la pressione della superiorità militare nemica, aggregandosi
in primavera e disperdendosi nei boschi quando la tattica e la stagione
lo suggerivano, forse si meritarono davvero il titolo di partigiani.
Certo, lignoranza non consentiva loro di distinguere fra modernità
e diritti feudali, lappoggio implicito del Papa e quello aperto
dei parroci di campagna sembrava più che sufficiente per
farli sentire dalla parte di Dio e la vaga idea di servire
il re Borbone (oltre che la bellissima regina Maria Sofia) non dava
adito a dubbi circa la legittimità della causa. Ma che dire
dei loro avversari, i tutori dellOrdine e dellUnità,
insomma i portabandiera dellitalianità? Chiamandoli
briganti e trattandoli da cafoni, fucilando
tutti quelli che trovavano armati, arrestando e spesso giustiziando
i loro manutengoli, per lo più senza ombra di
processo, contribuirono a gettare su se stessi lombra cupa
dei colonialisti e a radicare invece nel Sud liberato
la diffidenza verso lo Stato, la tendenza al pregiudizio e al disprezzo
per la cosa pubblica, il fai da te senza illusioni che
presto si sarebbe trasformato nella famosa questione meridionale.
Giornalista di lungo corso e saggista sempre attento a non confondersi
con le voci del coro, questo Autore non si impegna in un pamphlet
antiunitario, limitandosi a raccontare.
Di storie, infatti, nel libro se ne trovano molte. A cominciare
da quella di Crocco, tipica coppola che si era autoproclamata
generale, capace di tenere in scacco lesercito sabaudo dalla
Lucania alla Puglia, e ancor più a nord, dove si impadronì
di molti centri abitati, fino a quando la stanchezza, i tradimenti
e la delazione di qualche pentito probabilmente
prezzolato lo fecero cadere in trappola e terminare i suoi
giorni in galera.
Continuando con Chiavone, il capopopolo che operò contro
le truppe e i civili filopiemontesi nellarea compresa tra
il Liri e lAlto Volturno. E come loro, i Giorni, i Romano,
i Tamburini, gli Stramenga, nomi oggi coperti dalla polvere della
storia dei vinti, ma che allora arrivarono a rappresentare una porzione
consistente della società meridionale. Si trattò di
ben 400 bande, con un minimo di dieci uomini, ma alcune forti di
centinaia di fuorbanditi, per un totale calcolato in
non meno di seimila contadini-soldati in armi. Naturalmente, se
si mettono nel conto parenti, amici e fiancheggiatori, si tocca
la cifra ben superiore di 50 mila persone, sufficienti a far parlare
di guerra civile.
Potenza delle parole: se proprio guerra civile fu, in parte paragonabile
a quella sanguinosa che oppose i vandeani cattolici ai francesi
repubblicani fra il 1793 e il 1796, allora il termine partigiani
potrebbe essere speso realisticamente. E anche quello di guerriglia,
vale a dire piccola guerra, parola nata in Spagna durante gli anni
della grande insorgenza popolare antinapoleonica del 1808-13.
Purché non si dimentichi la doppia anima che sempre caratterizzò
le insorgenze: i patrioti borbonici furono anche, spesso, saccheggiatori
e assassini, tanto che il confine tra il diritto legittimo di resistenza
e la delinquenza pura da jacquerie rimase costantemente sfumato,
autorizzando i repressori a comportarsi senza clemenza. «Guerra
sciagurata e ingloriosa», la definì Aurelio Saffi,
tanto più se si pensa agli strumenti giuridici illiberali
che vennero adottati per metterla in atto, cominciando dalla famigerata
legge Pica, che applicava ai resistenti la durezza del diritto di
guerra, senza riconoscere loro allo stesso tempo lo stato di belligeranti.
Come era inevitabile, questo scontro impari fra due partiti appartenenti
a fedi ed epoche diverse si trasformò presto in un regolamento
di conti crudele e sanguinoso (Scarpino sostiene che la soglia dei
diecimila uccisi o incarcerati fu abbondantemente superata). E,
come sempre accade in queste circostanze, il trovarsi casualmente
in un certo luogo, a una certa ora e in una determinata circostanza,
determinò frequentemente la scelta tra lo stare con i ribelli
o i regolari, tra la vittoria o la rovina.
Mescolati ai cafoni, si distinsero anche nobili cavalieri
in cerca di avventure e onore in difesa di una causa persa, come
quel don José Borges che non riuscì ad accordarsi
con Crocco e fallì la sua missione legittimista, ma andò
a conquistarsi la sua bella morte davanti a un plotone
desecuzione. O come don Rafael Tristany, catalano e alto ufficiale
carlista, che fece onore al suo nome da romanzo tentando di imporre
con le buone o con le cattive una disciplina militare e aristocratica
ai contadini analfabeti, concludendo agli arresti la sua avventura
filoborbonica.
I briganti non potevano che perdere, anche al cospetto
dei bersaglieri a cavallo che in numero esorbitante (molti più
di quanti ne portò con sé Vittorio Emanuele II fino
allincontro a Teano con Garibaldi) erano stati trasferiti
nelle aree del Sud ribelle. Ma i loro nemici potevano vincere meglio.
Non seppero farlo. Forse proprio per questo si è perpetuata
una memoria storica, civile e culturale, che parteggia ancora oggi
per la bandiera di Franceschiello.
Nel nuovo Parlamento, ormai italiano, a Torino, cominciarono subito
le interpellanze dei deputati, soprattutto meridionali, sulla grave
situazione del Mezzogiorno, sugli abusi dellesercito, sulle
stragi che continuavano ad essere consumate, sullo stato dassedio
arbitrariamente dichiarato dai comandanti militari, disposto per
legge soltanto nellagosto del 1862.
Non passava settimana che nel calendario dei lavori non ci fosse
un rappresentante politico con un atto daccusa verso il governo.
Ma i primi presidenti del Consiglio dellItalia unita furono
sordi ad ogni richiamo, dal momento che avevano fretta di stabilizzare
la situazione davanti al consesso europeo. Cavour, Ricasoli, Rattazzi,
sebbene sapessero molto bene di che cosa si trattava, non vollero
mai riconoscere pubblicamente che nel Mezzogiorno cera una
rivolta politico-sociale, e che le bande clandestine combattevano
per il ritorno di Francesco II sul trono del Reame.
La linea governativa sosteneva che nel Sud ci fossero «comitive
che scorrevano le campagne» esclusivamente criminali, alcune
delle quali fomentate da qualche comitato borbonico. Insomma: chi
doveva sapere, capire e provvedere non volle muovere un dito, sebbene
echi della situazione fossero pervenuti persino da un dibattito
al Parlamento di Londra!
Cavour e successori proseguirono sulla linea di legittimazione delloperato,
che oggi si definirebbe tout court criminoso, dellesercito
nel Sud, negando (o coprendo) eccessi e ferocia. Anche la storiografia
e la memorialistica inclusero voci fortemente critiche verso la
politica ottusa dei governi. Garibaldi lasciò scritto nelle
Memorie che «senza la tacita collaborazione» della Marina
borbonica lo sbarco in Calabria «non si sarebbe potuto fare».
Egli stesso liquidò la questione dei comandanti borbonici
comprati con i soldi raccolti dai Comitati per Garibaldi
in Inghilterra e con i fondi messi a disposizione da Cavour, i cui
agenti precedettero e accompagnarono la spedizione dei Mille, preparando
ovunque gruppi rivoluzionari. Luigi Carlo Farini, inviato a Napoli
come Luogotenente dopo la partenza di Francesco II, in attesa che
arrivassero Garibaldi e Vittorio Emanuele, testimoniò: «Fra
sette milioni di abitanti non ve nerano meno di cento che
credessero nellunità nazionale». E Massimo DAzeglio,
sei mesi dopo i plebisciti, sostenne una polemica sulluso
dei battaglioni dellesercito per convincere il
Sud allunità: «Ma ci vogliono, e sembra che ciò
non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni [...] So
che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al
di là sono necessari. Nel Nord Italia si processano i criminali
prima di mandarli a morte; con che diritto, al di là del
Tronto, li si impicca prima di processarli? [...] Bisogna sapere
dai Napoletani, unaltra volta per tutte, se ci vogliono o
no [...]».
La polemica che portò allapprovazione della legge Pica
durò più di due anni: i deputati denunciavano le pessime
condizioni del Sud, le tassazioni inaudite imposte dai piemontesi,
la reazione dei contadini, degli sbandati, degli stessi ex soldati,
come conseguenza del pessimo governo nelle province meridionali
nelle quali il rigore non discriminante e la ferocia fredda dellesercito
neanche erano compensati da un minimo di investimenti per un qualche
sollievo sociale. Le critiche erano mosse non soltanto dai deputati
meridionali, ma anche da settentrionali democratici, i quali si
erano preoccupati di recarsi nelle regioni meridionali per rendersi
conto personalmente di ciò che stava accadendo. Un esempio
per tutti, quello di Giuseppe Ferrari.
I governi nascosero la realtà, persino non accogliendo per
circa tre anni la proposta di un dibattito serio sulla guerriglia
meridionale. La stessa definizione sprezzante di brigantaggio
per un fenomeno di ribellione di massa, sia pure disorganizzata,
fu una notevole trovata propagandistica per confondere gli osservatori,
soprattutto internazionali. Ma, come scrisse Patrick Keyes O
Clery, «il tentativo di attirare lodio sugli insorti
napoletani del 1860-64, definendoli briganti e confondendo i loro
capi con banditi dediti al saccheggio, era quindi un vecchio espediente,
e ingannò solo coloro i quali volevano essere ingannati...».
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